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Autore: iloveroseandrosie    09/05/2014    0 recensioni
E se la seconda guerra mondiale non solo ti portasse via le speranze ma anche l'amore della tua vita?
Genere: Guerra, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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«Nonno, ci racconti qualcosa della nonna? », chiese il più piccolo dei suoi nipotini.
«Venite e sedetevi qui intorno. Ora vi racconto la storia che ha legato me e vostra nonna», disse il vecchietto ormai un po’ acciaccato e con i segni della vecchiaia già evidenti, sedendosi anche lui sulla panchina adocchiata poco prima.
«Aspetta, mi siedo bene così posso ascoltare meglio. La mamma non si arrabbia se mi siedo per terra? », chiese preoccupata la bambina che a lui faceva tanto ricordare sua moglie per il modo di parlare e di fare.
«La mamma non dirà niente», la rassicurò facendole una carezza sulla guancia. Lo sapeva che non poteva e non doveva fare preferenze tra i suoi nipoti, ma lei era sempre stata la sua ‘preferita’. Forse per gli occhi uguali a quelli della nonna, forse perché era più sveglia di tutti gli altri, o forse semplicemente perché in ogni cosa che faceva, rispuntava fuori Elise.
«Okay allora, comincia pure. Noi ascoltiamo», rispose guardando gli altri e ricevendo conferme positive.
«Quando ci conoscemmo, avevamo entrambi diciassette anni. Voi penserete che ormai a diciassette anni ci si può considerare grandi, ma non lo eravamo affatto. Ci presentarono degli amici, ad un parco giochi. Mi ricordo ancora, era il 1938 e c’era una grandissima agitazione, soprattutto qui in Italia. Sapete, bambini, all’epoca al potere c’era un signore molto ma molto cattivo. Non voleva il bene della gente, ma il suo. Voleva che tutti facessero quello che voleva lui e se non lo facevi ti faceva del male a te, e a tutta la tua famiglia.
«A quell’epoca però, non avevamo ancora capito di cosa fosse capace e non ci preoccupava più di tanto la sua ascesa al potere. Con vostra nonna, quell’anno, mi sono divertito come un matto. Andavamo sulle giostre tutti i giorni, prendevamo un gelato tutte le volte che potevamo, ridevamo, scherzavamo. Eravamo davvero le persone più felici di questa terra.
«Poi però, un giorno, il capo dell’Italia, che chiameremo il Lupo Cattivo, annunciò da un grande balcone a Roma – ci siamo anche stati l’anno scorso vi ricordate? – che l’Italia sarebbe entrata in guerra con la Germania, al tempo guidata da un Lupo ancora più cattivo e malvagio. Pietro, Giacomo, voi giocate con i videogiochi di guerra, vero? Dove l’obbiettivo principale è uccidere il nemico, giusto? Ecco, fate conto che quegli anni erano esattamente così, con la sola differenza che il nemico da combattere eravamo noi.
«Compii diciotto anni, la maggiore età. Ero contentissimo e con me lo era la nonna perché avrei potuto fare più cose ora che ero maggiorenne. Avrei potuto portarla nei saloni a ballare la sera, a prendere qualcosa da bere dopo cena… insomma, avremmo potuto fare tante cose insieme. Peccato che sette giorni dopo il mio compleanno, dei soldati bussarono alla porta di casa mia.
                “C’è il signor Terghi?”, chiese uno dei quattro davanti alla soglia di casa mia. Mia madre, che già sapeva cosa sarebbe successo, scoppiò a piangere cercando il sostegno di mio padre. I soldati continuarono a parlare a turno.
                “Avendo compiuto la maggiore età, ed essendo un paese in guerra, il signorino deve venire con noi e servire il suo paese. È una carica di grande prestigio che deve dare soltanto molto orgoglio e onore. Voglia per favore chiamarlo, e gli dica di preparare tutte le sue cose”.
«Avevano provato, i miei genitori, a non farmi andare al servizio militare, sperando che si dimenticassero della mia esistenza. Però, non aveva funzionato. L’Italia non se la cavava benissimo in guerra e avevano bisogno di tutti i ragazzi possibili per combattere. Quel giorno fu uno dei pochissimi giorni tristi che io ebbi mai avuto. Dovetti salutare i miei con il timore di non poterli mai più rivedere, ma dovetti soprattutto salutare vostra nonna. Era per me quasi impossibile lasciarla. Le dissi che l’avrei sposata al mio ritorno e che però, se incontrava qualcuno che la poteva rendere più felice di me, doveva fare come se io non fossi mai esistito»
«Ma e il Lupo Cattivo adesso è ancora vivo? », chiese preoccupatissimo Pietro.
«No, non ti preoccupare. Alla fine i Lupi non hanno mai la meglio. E se ce l’hanno vuol dire che non è ancora finita»
Il vecchino si fermò un attimo a ricordare quei momenti così strazianti e lontani eppure così ancora vivi dentro di sé. Si perse per un attimo a guardare il grande prato davanti a lui, gli alberi e il cielo e una lacrima non fece in tempo a scendergli sulla guancia che l’aveva già raccolta tra le dita.
«Poi cos’è successo nonno? », chiese incuriosita Eleonora.
«Poi… poi sono arrivato al campo dove ci addestravano. Era così grande, pieno di ragazzi tutti con i capelli rasati, tutti con le stesse divise, tutti con gli occhi ormai vuoti. Chissà da quanto erano lì. Magari mesi, magari giorni, però una cosa era certa: non erano felici. Portavo sempre con me questa medaglietta», disse mostrandola ai ragazzi. «Dentro c’è una foto di vostra nonna. Me l’ha dato quando ci separammo, promettendomi che mi avrebbe aspettato, qualunque cosa fosse successa.
«Restai lì per circa due settimane, poi ci chiamarono al fronte e dovemmo partire in guerra. Non vi nascondo che avevo una paura assurda, in fondo avevo soltanto diciotto anni e qualche settimana. Quando arrivammo mi ricordo che provai soltanto una grande tristezza e un grande sentimento di vuoto e di desolazione. Era tutto bruciato, tutto rovinato, tutto ormai in rovina che cadeva a pezzi. La gente non sembrava neanche più dotato di cervello, agivano a seguito di un ordine senza fermarsi a riflettere se quell’ordine fosse una cosa giusta o sbagliata da eseguire.
«Quando potevo, scrivevo delle lettere a vostra nonna: le raccontavo di quello che stavamo passando, delle notizie che arrivavano direttamente dal fronte e che magari la radio nascondeva, e lei mi raccontava di come stavano tutti, mio padre, mia madre e di come le mancassi.
«Dopo un mese più o meno, mi spedirono in un’altra città con un’altra squadra. Non ne potevo già più, mi sentivo ogni giorno più debole, ma volevo resistere per non lasciare Elise da sola a Milano. Il Lupo Cattivo intanto, modificava i piani di battaglia vedendo che gli inglesi e i francesi ci facevano diventare sempre meno. Passarono i giorni, le settimane, i mesi e tua nonna continuava a scrivere una volta alla settimana. Mi mancava da morire, però non potevo fare altro che sperare che andasse tutto bene.
«Un giorno, dissi ad un mio amico che se mi fosse successo qualcosa avrebbe dovuto dire a Elise in una lettera che non potevamo più andare avanti così e che lei avrebbe dovuto cominciare a trovare qualcun altro. Avrei preferito cento volte che piangesse per una mia finta cattiveria, piuttosto che la mia morte. Non volevo che perdesse tutto quel tempo, non sapevamo fin quando non sarei potuto tornare e lei era così giovane e così bella che avrebbe trovato subito un ragazzo per bene, alla fine della guerra, che l’avrebbe sposata. Sentivo che non avrei retto per molto altro ancora. Ogni giorno diventava più pericoloso, i soldati erano stanchi, le mine erano dappertutto, i fucili sembrava sparare pallottole in continuazione, ed era un miracolo se le riuscivi a schivare tutte quante.
«Un giorno, faceva freddo, molto freddo. Eravamo in Germania quindi potete immaginare, voi che siete appena tornati dalle vacanze a Monaco di Baviera in inverno, che freddo poteva fare. Avevamo soltanto una giacca e un maglione a testa. La mia era tutta rotta e dovevo stringermela addosso il più stretto possibile per non fare passare il vento gelido che, prepotente, minacciava di buttarci giù facendoci perdere l’equilibrio. Arrivammo in un paesello vicino a Berlino. Volevamo attaccare la parte occidentale di Berlino, quella occupata da francesi e inglesi, ma purtroppo il nostro capo del battaglione non fece attenzione alle mine posizionate per terra. All’entrata della città.
«Mi ricordo che ero nelle ultime file, per fortuna, e che sentii un grande boato, come se un palazzo di venti piano fosse crollato di un botto. Non feci in tempo a capirlo che venni sbattuto giù a terra e la mia testa colpì una pietra enorme. E svenni»
I bambini lo stavano guardando con la bocca aperta e gli occhi sgranati. Il più piccolo di tutti si era rannicchiato tra le braccia della più grande e, togliendo il dito dalla bocca esclamò: «Ma non sei morto vero? »
Tutti si misero a ridere, e i più grandi gli dissero che se era lì a raccontarlo voleva dire che non era morto. Il più piccolo si rese conto di quello che aveva chiesto e si nascose dietro i capelli di Eleonora rinfilandosi il dito in bocca.
«Ma quindi il tuo amico scrisse alla nonna? Gli disse che non volevi più che lei aspettasse? », chiese Giada, la sorellina più piccola di Eleonora.
«No, alla fine non gliel’ha mandata perché ne ricevette una da parte sua poco dopo il mio incidente. Non mi ricordo niente di quel periodo, vedo solo buio. Dopo qualche tempo, che non ricordo quanto fosse, mi svegliai in una stanza tutta bianca con qualche mobile azzurro e le infermiere che andavano e venivano. Ero in un letto. La prima volta che toccavo un letto in mesi. Era una sensazione bellissima, se non fosse per il tremendo mal di testa e il dolore lancinante che avevo alla gamba e ad un fianco. Cercai di parlare ma non ci riuscii, così una persona vicino a me chiamò un’infermiera.
                “Oh, finalmente si è svegliato. Pensavamo che non ce l’avrebbe fatta sa? Come si sente?”, chiese gentilmente l’infermiera. Tutto quello che riuscii a fare fu indicare la testa con la mano e emettere un mugolio abbastanza inquietante per indicare il dolore che sentivo al fianco e alla gamba. “Capisco, beh è fortunato. È rimasto addormentato, noi pensiamo anche possa essere andato in coma, per due settimane. Ci rivorranno almeno due mesi prima che si rimetta a posto. Però adesso deve riposare, perché le medicine hanno un effetto come di paralisi, per non farla muovere e non farle sentire male. Può proprio ringraziare il suo angelo custode, sa? Senza di lui a quest’ora non penso sarebbe qui”, sorrise e se ne andò da altri feriti.
«Non capivo cosa fosse successo, cercavo di ricordare ma tutto quello a cui riuscivo a pensare era vostra nonna. Se avevo dormito per due settimane, lei cosa avrebbe pensato? Il mio amico le aveva detto cosa era successo? Dopo qualche minuto mi sentii pesante, gli occhi si calarono da soli e caddi in un sonno profondo e pieno di pensieri, ricordi e sogni. Me ne ricordo soltanto uno, mi aveva colpito. Vidi nel sogno Elise davanti alla mia tomba che piangeva e piano piano diventava sempre più piccola e magra e vecchia. Non la riconoscevo quasi più, mi faceva male vederla così. A seguito di quel sogno, penso che la mia mente abbia avuto davvero un grande peso sulla mia guarigione. Avevo tre costole rotte, il ginocchio che ormai non mi poteva più reggere in piedi e mi dovettero operare alla testa perché con la caduta mi ero fatto davvero tanto tanto male.
«Dopo mesi di riabilitazione, ricominciai a camminare. Un passo in più ogni giorno. La testa mi faceva sempre meno male e le costole si erano rimesse più o meno a posto. Ritrovai i miei amici, non tutti certo, alcuni erano rimasti su quel campo. Andai dal mio amico, quello al quale avevo chiesto di scrivere la lettera che mi disse che l’aveva mandata e che dopo due giorni la risposta era arrivata. Lessi quella lettera con una tristezza tale da dovermi sedere per non svenire. La lettera, che mi ricordo a memoria, diceva che non capiva e che mi amava davvero tanto e che mi avrebbe aspettato anche se quello voleva dire scappare di casa. I suoi genitori la stavano fidanzando con un ragazzo davvero di buona famiglia, forse era anche nobile, non ricordo. Disse che le nozze erano fissate per il mese di luglio dell’anno dopo. Visto che la lettera essendo stata scritta a dicembre, si sarebbero sposati il mese successivo. Mi diedero un’altra lettera, di mia mamma. Avevo paura ad aprirla, non sapevo cosa ci sarebbe potuto essere scritto. Presi coraggio e la lessi. Per fortuna, mi diceva che andava tutto bene e che papà non era partito in guerra perché si era fatto male alla gamba. Mi raccontava di Elise e di quanto mancassi a tutti.
«Non sapevo cosa fare, di certo non sarei potuto tornare lì da loro e rovinare la vita di Elise una volta che si fosse sposata. Se fossi tornato, sarebbe stato soltanto per prendere le mie cose, salutare i miei e partire lontano per non rovinare ulteriormente la vita alle persone alle quali volevo bene»
«Ma la guerra andava avanti? », chiese uno dei bimbi.
«La cicatrice che hai lì sopra sulla testa te la sei fatta in guerra quindi? », chiese subito dopo Pietro.
«Ma la nonna quindi si è sposata con il tizio? », fece Eleonora.
«Calma, ragazzi. Non ho ancora finito! Si, questa è la cicatrice dell’operazione alla testa e si la guerra stava ancora andando avanti, ma per fortuna non ci potei più tornare a causa dei miei infortuni. Decisi di aspettare e rimettermi bene in sesto e poi con un mio amico, partii per Milano verso casa mia. Non volevo incontrare Elise perché se no sapevo che non avrei potuto fare finta di niente davanti al suo anello d’oro al dito della mano sinistra. Ormai era agosto, quindi il matrimonio c’era già stato.
«Arrivai a casa e mia madre per poco non svenne. Mio papà scoppiò in lacrime, fu la prima volta che lo vidi piangere. Mi abbracciarono e mi chiesero perché non avessi risposto alla lettera. Gli spiegai cosa mi era capitato e non osai chiedere notizie di Elise. Dopo un po’ che stavamo in silenzio, mia madre mi disse semplicemente “Si è sposata”, e quella volta invece fui io a scoppiare in lacrime. Non ero grande, avevo a malapena vent’anni, ma avevo già vissuto cose che nessuno dovrebbe vivere. Mi sentivo abbandonato e solo, ma il mio amico mi disse che era la cosa migliore e mi aiutò a riprendermi.
«Quella sera andammo a bere qualcosa nel locale di fianco a casa mia e vidi il fratello di Elise, vostro zio Phil. Oh ragazzi, non potete immaginare il mio cuore quanto andava veloce! Vidi tutta la mia vita passarmi davanti nell’istante in cui i nostri sguardi s’incrociarono. Lo vidi camminare deciso verso di me e si parò davanti a me con le braccia conserte e lo sguardo torvo.
                “Come hai il coraggio di farti vedere ancora qui in giro?”, mi disse arrabbiatissimo. Io ero davvero spaventato e non sapevo cosa dire.
                “Sono qui solo di passaggio. Come sta Elise?”, chiesi prima che il mio cervello capisse che non era la cosa giusta da chiedere. Vidi il suo pugno sulla mia faccia e poi vidi il soffitto. Mi aveva dato un pugno così violento da farmi cadere per terra. Tutto il locale si alzò e venne a vedere cosa stava succedendo.
                “Come sta Elise? Come credi che stia? L’hai lasciata senza nessuna spiegazione, hai lasciato che sposasse qualcuno che non amava e ora te ne ritorno bel bello a gironzolare per la città? Hai idea di come hai fatto stare male mia sorella?”, mi urlò addosso tutto quello che si era tenuto dentro per quei giorni, quei mesi. E io non potei fare altro che ascoltare e pregare che non mi desse un altro pugno sul naso. Quando ebbe finito, il proprietario del bar venne e lo portò fuori a calmarsi, lasciandomi solo con il mio naso gonfio e il mio amico.
«Vedete bimbi, quei tempi erano tempi davvero tristi. La gente che andava in guerra di solito non tornava e non c’era niente da mangiare nelle città. Poi, i Lupi Cattivi erano davvero cattivissimi e facevano del male a persone innocenti o alle persone che le aiutavano a nascondersi da lui. Insomma, non era un bel periodo per nessuno.
«Tornando alla storia, volevo vedere Elise anche se sapevo che non era una cosa giusta da fare. Sapevo che l’avrei soltanto fatta stare male e che non era la cosa migliore per lei. In fondo, io non avevo un soldo, non avevo un lavoro e non avevo neanche una casa da darle, mentre quel suo nuovo marito era pieno di soldi, con case dappertutto, poteva offrirle una vita molto più bella di quella che potevo offrirle io. Ma non mi importava, presi il mio marsupio, lasciai qualche moneta sul bancone per pagare la mia birra e mi diressi verso casa di Elise. Non sapevo dove abitasse ora, ma speravo davvero di trovarla li.
«Quando arrivai sotto casa sua, vidi che la luce di camera sua era accesa e mi avvicinai di soppiatto alla porta di casa. Stavo per suonare, quando una mano mi fermò e mi fece voltare. Era di nuovo Phil. Aveva tantissima paura ragazzi, lo so che potrete pensare che sia un po’ scemo, ora lo zio Phil non fa paura, eppure all’epoca era veramente grosso e muscoloso.
                “Cosa vuoi fare?”, mi chiese ma questa volta un po’ meno arrabbiato di com’era sembrato essere prima.
                “Riconquistarla”, dissi sostenendo il suo sguardo.
                “Perché non le hai più scritto? Perché ti sei dimenticato di lei?”, mi chiese abbassando la voce per paura di svegliare i genitori.
                “Non mi scusa, lo so, ma io e la mia squadra siamo caduti su una mina che ci è esplosa sotto ai piedi. Sono rimasto per quasi sei mesi in ospedale, uno dei quali praticamente passato a letto non capendo neanche chi fossi. Avrei dovuto avvertire, lo so. Ma non avevo il cuore di farla soffrire per una mia eventuale morte. Avrei preferito che si trovasse qualcun altro, qualcuno che poteva darle tutto quello che voleva, invece di aspettare me e magari per non avermi veramente mai”, dissi abbassando lo sguardo a terra.
                “Lei ti amava Roberto! Come puoi anche solo pensare che sarebbe stata più felice con qualcun altro? Lei voleva te, soltanto te. Non sai quante notti ho passato con lei a consolarla e a dirle che non ti era successo niente e che probabilmente non potevi semplicemente più mandarle delle lettere. Sai quante te ne ha scritte? Ne avrà scritte almeno quattro alla settimana. Dopo un po’ ha smesso di spedirle, ma le scriveva ugualmente, voleva in qualche modo sentire la tua presenza, la tua esistenza. Poi, quando i nostri genitori le hanno detto che si sarebbe sposata con Von Garten, è crollata. Aveva bisogno di te e non c’eri. Però adesso capisco il perché e se mi giuri che la ami e che vuoi riconquistarla, ti aiuterò”, disse tutto d’un fiato. La mia faccia si illuminò, ma poi aggiunse: “Soltanto devi promettermi, giurarmi sulla cosa a te più cara, che se adesso entri da quella porta, accetterai tutto quello che ha da dirti e se lei decidesse di riprenderti con sé, di non lasciarla mai più”
                “Lo giuro, hai la mia parola, davvero credimi”, non sapevo cosa dire ragazzi, vi rendete conto? Avrei rivisto la nonna, la persona che amavo di più al mondo! Mi stava venendo data una seconda chance! Quando entrammo in quella casa, una marea di ricordi mi assalì all’improvviso: l’odore della cera appena passata sul legno del pavimento mi ricordava quelle volte che entrava di nascosto le notti in casa sua per dormire per terra vicino al suo letto e tenerle la mano mentre dormiva, i tappeti mi ricordarono tutte le scivolate che avevo fatta perché correvo troppo velocemente per raggiungerla in cortile… tutto quanto mi ricordò un momento della mia vita passato con vostra nonna, ed erano tutti bellissimi.
«Quando Phil aprì la porta della camera della nonna, non avete idea di quanto il mio cuore battesse velocemente e forte. Sentii Phil dire qualcosa come “Adesso non ti arrabbiare o non urlare” e spalancò poi la porta, facendomi intravedere la figura della donna che mi aveva rapito il cuore e custodito gelosamente per tutti questi anni, seduta sul letto a pettinarsi i lunghi capelli. Era ancora più bella di quanto me la ricordassi. Toccai istintivamente il medaglione, un po’ scheggiato a causa delle cadute, ma ancora integro. Lo portavo sempre al collo, non mi interessavo se passavo per la femminuccia o per quello un po’ démodé che portava le collane: volevo averla sempre con me. E ora che dopo ormai troppo tempo passato lontano da lei, me la ritrovai davanti, l’unica cosa che volevo fare era abbracciarla e chiederle scusa».
«Posso vederlo? », chiese Giada indicando il medaglione. Il nonno glielo passò dicendole di fare molto piano perché era delicato e ci teneva moltissimo.
«La nonna all’inizio non seppe cosa dire e cosa fare. Alternava il suo sguardo tra me e suo fratello. Era incredula, davvero incredula. Fui io il primo a parlare, ma venni subito interrotto dalla sua voce, bella e melodiosa come sempre ma che purtroppo, quella volta diceva cose sgradevoli da sentire.
                “Perché mi hai lasciata senza nessuna lettera, nessuna spiegazione, niente? Perché hai lasciato che accettassi di sposare una specie di energumeno che non amo? Lo sapevi che i miei non approvavano la nostra relazione, che loro volevano che io stessi con qualcuno di più ricco, più nobile, più tutto, ma non mi era mai importato. Ti amavo e mi hai spezzato il cuore, sai?”, lo disse come se per tutto quel tempo, il suo cervello e la sua mente non avessero fatto altro che pensarlo. Come se stesse recitando una poesia.
                “Elise, lo so, me ne sono andato senza una spiegazione ma purtroppo il mio battaglione è caduto su una mina e sono rimasto mesi in ospedale senza potermi muovere o addirittura alzarmi dal letto. Mi dispiace tantissimo per quello che è successo, quando un mio amico mi dette la tua lettera, quella in cui dicevi che i tuoi ti avrebbero fatta fidanzare con quello li mi sono sentito morire. Non volevo perderti, ma  ormai era già fine giugno e di lì a breve ti saresti sposata. Non ero ancora del tutto rimesso a posto e certi medici dicevano che non sembrava che il mio organismo volesse riprendersi. Non volevo farti avere una vita più brutta di quella che avresti potuto avere”, dissi senza lasciarla parlare o intervenire. Doveva sapere quello che pensavo così le dissi tutto quanto, senza freni. “Elise”, dissi avvicinandomi e prendendole la mano, “Io ti amo più di tutto e non potrei sopportare di vederti infelice per tutta la tua vita. Quindi adesso dimmi se vuoi che io rimanga o che me ne vada. Dimmi soltanto un si e lotterò per noi, dimmi che sei felcie così invece e me ne andrò. Ma sappi che qualsiasi cosa tu scelga, io ti amerò per sempre”
«La vostra nonna, che non era scema, si avvicinò a me e prese in mano il medaglione.
                “Lo hai tenuto per tutto questo tempo?”, mi chiese con le lacrime agli occhi.
                “Si, non potevo sperarmene. Sarebbe stato come perdere una parte di me”
«A quella frase, mi si gettò tra le braccia e mi disse che non avrebbe mai dovuto accettare di sposare Von Garten e che avremmo trovato una soluzione. Vostro prozio Phil entrò in camera e ci fece subito uscire dalla finestra, poiché stava salendo il marito di vostra nonna. Così scappammo via, insieme. Dopo un po’ ci rifugiammo in un vicolo buio dove aspettammo Phil. Qualche ora dopo ci trovò e ci diede la chiave della sua macchina. Ci disse di andare e che avrebbe risolto tutto e di non preoccuparsi di niente, ma di essere soltanto felici insieme e di scrivergli poi dove ci saremmo fermati. Facemmo come disse lui, e infatti andò tutto bene. Ci fermammo in un paesino tranquillo vicino a Pisa e chiedemmo rifugio da due contadini offrendo come pagamento il nostro lavoro, io nei campi con il vecchio signore e Elise come baby sitter delle bambine che tenevano ai loro figli»
«Ma la nonna quindi è ancora sposata con quel signore? », domandò Eleonora.
«No tesoro, quando scrissi a Phil dove ci trovavamo e cosa stavamo facendo, lui arrivò e ci diede delle buone notizie. Ci disse che il prete che aveva celebrato la messa non aveva né il diritto né il potere di sposarli, quindi per la chiesa non si erano mai sposati. Dopo un po’, la guerra finì e la vostra nonna ed io ci sposammo e andammo a vivere a Pisa. E restammo lì finché non nacque Alessandro – esatto, il vostro papà Giada e Ele – e dopodiché ci spostammo di nuovo a Milano dai nostri genitori che ormai ci aveva perdonato tutte le nostre bravate. Quando nacque Elena, vostra mamma Pietro e Giacomo, comprammo una casa più grande, quella dove venite sempre a fare la merenda la domenica pomeriggio»
«Quindi alla fine è vero che l’amore trionfa sempre? Anche nei casi più impossibili? », chiese Giada, con gli occhi lucidi.
«È vero piccola del nonno, è vero. Basta crederci, e si riesce a fare tutto e ad ottenere tutto quello che si vuole davvero ottenere. Bisogna soltanto metterci il cuore», disse il vecchietto guardando l’orologio. Il cielo si era già un po’ oscurato e il sole stava svanendo dietro alle colline. Ricevette un messaggio da sua figlia che chiedeva se poteva riportare Pietro e Giacomo a casa perché si stava facendo freddo e tardi.
Si alzò dalla panchina e disse ai bimbi di seguirlo.
«Andiamo ragazzi, si è fatto tardi. Vi è piaciuta la storia? », chiese con un filo di voce. Odiava tutte le volte andarsene da quel posto.
«Si, ci è piaciuta tantissimo», disse Pietro.
«Ma nonno, la nonna la lasciamo qui? », chiese Giada indicando il marmo bianco di fronte a noi. Anche io tutte le volte mi chiedevo se era giusto abbandonarla tutte le volte, ma d’altronde non la stavo abbandonando, la portavo sempre con me nel mio cuore.
«Si, la nonna starà bene. Adesso andiamo, salutatela e vediamo chi arriva primo alla macchina», disse raccogliendo una lacrima che stava uscendo.
I bimbi dissero un ‘ciao’ un po’ mogio verso la tomba della nonna, e  corsero in direzione della macchina. Il vecchietto ne approfittò, si inginocchiò davanti alla fotografia della moglie presente sulla lapide e, stringendo il medaglione tra le mani, sussurrò le parole che da sempre le sussurrava con una sincerità immensa: ti amo.
  
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