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Autore: RMSG    12/05/2014    3 recensioni
[...] Qualcuno avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse, avrebbe avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì, infatti, alle dodici e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la sua agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di capelli si scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia.
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro quando Adrian ritornò diritto sulla sua poltrona, più concentrato a sfogliare le pagine stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a rendersi conto dell'effetto assurdo che aveva su di lui. [...]
Genere: Romantico, Slice of life, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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The Way We Were - Capitolo 2 The Way We Were
Capitolo 2. La soluzione.

Si chiese perché per l'ennesima volta. Si chiese perché non poteva essere felice, perché non poteva mai andare come voleva che andasse, cioè nel modo più semplice. Si chiese anche, ma questo solo per poco, perché diavolo il proiettile che lo prese al tempo sulla spalla non l'avesse colpito un po' più su o un po' più al centro.
"Scheggia, lo so che non ti ubriachi nemmeno se ci fai il bagno in quella roba, ma credo che dovresti smetterla adesso. Non fosse altro perché domani non ho voglia di sopportarti depresso anche per questo..." Lear alzò la testa dal bancone del bar e si perse nello sguardo ambrato di Ryan. Che era lì, al suo fianco, come ogni volta in cui aveva bisogno di un sostegno. Sorrise piano a quel pensiero. 
"Sì, forse hai ragione." 
"Non sarebbe una novità!" scherzò e si passò una mano fra i lunghi capelli neri, stranamente non raccolti nella solita rigida coda, ma lasciati liberi sulla schiena. "Te l'avevo detto: non imbarcarti in relazioni insensate, Lear, o ne uscirai a pezzi. E tu che mi hai risposto?" Lear sbuffò e tornò ad appoggiare la fronte al bancone. 
"Che avevi ragione, Ryan, e che non avrei fatto stupidaggini!" borbottò. Adorava tremendamente Ryan. Era il suo partner a lavoro, il migliore amante che avesse avuto a letto e l'amico più premuroso mai sceso in terra. Forse anche più di Aaron.
Oh, Aaron. Doveva chiamarlo e fargli sapere che stava bene.  Dopo l'incidente era stato troppo impegnato a fantasticare su quel bastardo di Adrian e il resto gli era passato di mente. 
"Mi fa piacere che almeno in quanto a memoria ci siamo, scheggia... è per quel che riguarda l'amor proprio che hai qualche mancanza." Ryan bevve la birra e gli accarezzò dolcemente i capelli biondi, confortante e mai pretenzioso. A Lear venne di nuovo voglia di piangere, ma preferì concedersi una testata al bancone piuttosto. 
"Visto? Mancanza di amor proprio, è questo il tuo problema, Lee." 
"Ti odio, Ryan."
"Perché?" Domandò indifferente. 
"Perché hai ragione." brontolò Lear e l'altro rise piano, bonario. Era bello sentirlo ridere, ma presto il biondo si ritrovò a paragonare la sua risatina a quella che una settimana fa sentiva uscire fuori dalle labbra, perfette, del bastardo. 
Cercò di scacciare via quel pensiero, esausto dal costante scappare dai pochi bei ricordi che aveva di Adrian. Fortunatamente stavolta la battaglia col cuore spezzato la vinse lui, complice anche l'entrata in scena in quel bar di Afrodite. O comunque una che ci assomigliava decisamente. 
Il tubino nero e stretto scendeva morbido sui fianchi larghi e quando la dea in questione, che era bionda come il grano - un po' come lui -, si sedette proprio allo sgabello accanto a quello di Lear, il bordo del vestito scoprì la coscia tornita e abbronzata. Di istinto Lear si girò a vedere la reazione di un po' tutto il locale, ma soprattutto quella di Ryan, che la guardava di profilo, con la coda dell'occhio, cercando di mantenere una stoicissima compostezza e di non mostrarsi per il palese bisex che era. Gli tirò di istinto un pugno nelle costole, facendolo sobbalzare. 
"Fai pena a dissimulare" borbottò divertito e tranquillo, facendo di nuovo ridere il collega. Non era un tipo geloso, Lear. Ryan non era suo e tanto meno lui era di Ryan. Proprio in virtù di questo la loro relazione era perfetta così com'era. 
Il problema, però, era che quella sera era mercoledì e per la prima volta dopo settimane, non aveva visto il bastardo alle dodici e trentacinque. Per questo, improvvisamente triste, poggiò la testa al braccio di Ryan. Aveva davvero,  davvero bisogno di lui. 
Rimase quindi così, sentendo l'amico rilassarsi e per niente a disagio nel silenzio complice che si era creato. 
Nelle loro vicinanze, intanto, la bionda rappresentazione femminile dell'erotismo era al terzo Martini a stomaco vuoto. Forse essere così perfetti non era sempre un beneficio, pensò Lear, e buttò gli occhi in direzione della signora, che stava guardando proprio nella loro direzione. Sorrideva malinconica, mostrando i denti perfetti circondati dal rossetto rosso. 
"Siete una bella coppia..." mormorò,  quasi nostalgica. Dio, che rabbia, rifletté, aveva anche la voce di una dea! "Mi ricordate tanto me e mio marito... oh, beh, il mio ex marito." Tirò su col naso, mentre gli occhioni blu si riempivano di lacrime. Lear alzò di scatto la testa dalla spalla di Ryan e la guardò dispiaciuto, poggiando due dita sul polso di lei in segno di solidarietà. Da quel momento avrebbe ribattezzato mentalmente quel locale come il bar dei cuori spezzati e no, non ci sarebbe più tornato, fortunosamente. 
"Per quel che vale, mi dispiace da morire..." mugugnò. "Se ti ha lasciata, deve essere davvero un idiota." Probabilmente il poveretto in questione, invece, non lo era, ma in quel momento si sentì davvero in sintonia con quella bellissima donna e il suo lato gentleman prese il sopravvento.
"Di essere un idiota lo era sicuramente!" squittì lei, asciugandosi con sfacciata raffinatezza un occhio truccato. "Solo che devo ammetterlo: fra i due, la stupida stavolta sono stata io. Me lo sono fatto scivolare dalle mani, ho messo davanti al nostro rapporto il mio lavoro, le mie ambizioni e più gli anni passavano, più lui aveva bisogno di cose che io semplicemente non volevo dargli." Bevve e svuotò il quarto Martini, riprendendo poi il racconto, tra una lacrima ribelle e l'altra. "Voleva un figlio, ma non ero disposta a rinunciare alla mia carriera per averne uno... e lo sapevo, lo sapevo bene che l'unica cosa che lo avrebbe tenuto stretto a me era il suo naturale istinto paterno. Così gli ho detto che ero incinta, ma lui non era felice lo stesso. Non lo voleva più un bambino, almeno non da me, ed io non ce la facevo più a continuare questa ipocrisia, tanto lo avrebbe scoperto lo stesso..." 
Lear rimase immobile ad ascoltare, ma sentì dietro la schiena la mano grande e calda di Ryan che conoscendolo sapeva sarebbe probabilmente svenuto da un momento all'altro. Nella sua carriera, prima di agente e poi di detective nella squadra omicidi, Lear non aveva mai creduto alle coincidenze. Sono roba da favoletta, diceva, c'è sempre una ragione logica, c'è sempre una prova schiacciante, razionale. Al momento, però, non poteva credere alle sue orecchie. Quante probabilità c'erano di ritrovarsi a consolare quella che a conti fatti era la sua rivale in amore?
"Gli ho mentito, non ero incinta per davvero e lui mi ha sbattuto in faccia i documenti del divorzio in... non lo so, quanto? Tre ore? Poi ha fatto le valigie e se ne è andato via..." scosse il capo. "Solo quando ha sbattuto la porta di casa mi sono finalmente detta la verità: stupida, stupida Kate, ripetevo..." abbassò il capo per un po', ma lo rialzò subito dopo, mostrandosi mortificata. "Oddio, perdonami... perdonami, davvero, ti ho raccontato cose di cui decisamente non te ne importa. Scusa." 
Non rispose, Lear. A dire il vero non avrebbe comunque saputo cosa dire. Semplicemente balzò giù dallo sgabello, scuotendo il capo, e scattò verso la porta. 
"Lee! Aspetta, ehi!" Ryan lasciò qualche banconota sul bancone e prese a rincorrere Lear. Una scena piuttosto usuale per loro, fra l’altro, e molto più da film di quanto si rendessero conto.
"No, non aspetto, no… i-io…" balbettò, ma rallentò, lasciando che l’altro lo prendesse per le spalle. 
"Scheggia, ti prego. Non è così che devi reagire adesso… hai sentito delle cose spiacevoli ed è stata una lunga settimana. Devi solo riprenderti la tua vita e… no, ti prego, non fare così…" Ryan sospirò, mesto, e lo abbracciò, stringendoselo impotente al petto. "Non puoi piangere per lui, non se lo merita…”
Lear singhiozzò sommesso e si affondò gli incisivi nel labbro, per cercare di trattenersi, di nascondere tutto sotto il tappeto, come sempre. "Se… se Kate non è incinta…" esalò dopo qualche minuto di pianto. "Perché allora non è tornato da me? Perché allora non ha dimostrato di amarmi come diceva? Dio, c’è così tanto bisogno di scappare da me?!" alzò il viso e cercò lo sguardo confortante di Ryan. 
"Naturalmente no. E’ che è un vigliacco bastardo, ecco tutto. Non merita niente di tuo, Lee."
"Eppure ci dev’essere qualcosa di sbagliato in me! Non… oh, merda, perché non potevo innamorarmi di un bravo ragazzo? Uno con la testa sulle spalle, che mi stia accanto?" si nascose contro la spalla di Ryan e quel rifugio sembrò andargli bene per qualche altro minuto. Da quanti anni non si sentiva così insicuro? Così ferito, solo, distrutto? E per cosa, poi, per qualche bacio di troppo da parte di un semi-sconosciuto? O per il sorriso perfetto, l’odore del profumo costoso, il nodo Windsor alla cravatta e tutte quelle dolorose minuzie che componevano l’immagine di Adrian? 
Si odiò in quel momento e non si riconobbe più. Piuttosto provò a frugare tra le macerie di se stesso, ma per ora il bollettino gridava  niente superstiti.
"Ryan, ti prego, scusami, ma… ho bisogno di stare da solo ‘stanotte." Si alzò sulle punte per raggiungere, almeno per quanto possibile, la guancia dell’amico. La baciò tenero e sciolse la stretta, asciugandosi gli occhi e tornando più o meno calmo a camminare nella direzione di prima. Voleva solo andarsene a casa e seppellirsi sotto una montagna di merda.

****

Niente, non riusciva a chiudere occhio. Sospirò e si strofinò gli occhi gonfi. Di solito non piangeva, ma quando stava davvero male era abbastanza rigenerante farlo e no, non la trovava una cosa da femminuccia. Piangere lo aiutava ad accettare un problema, a riconoscerne l'esistenza. Versare lacrime per qualcosa rendeva inevitabilmente reale quel dolore e al momento riusciva a sentire fin troppo bene l'abbandono di Adrian. Come poteva una storia rovinata ancor prima di cominciare fare così male? 
Incrociò le mani dietro la nuca, rivoltandosi fra il piumone e le lenzuola. Una parte di lui si chiese quanto tempo ci avrebbe messo a dimenticarlo. L'altra sua metà, invece, più realisticamente, si chiese 'se' sarebbe riuscito a toglierselo dalla testa. Che cazzo di problema. 
Lasciò che le palpebre si facessero pesanti, a quel punto. Domani sarebbe stata una lunga giornata e voleva essere al top a lavoro. Anche perché, tecnicamente, l'unica volta che non lo era stato gli avevano sparato, gettandolo così nel mare di melma in cui sentiva di affogare.

****

Dormì, dunque. Non seppe dire per quanto e in effetti poteva essere stato per molto poco, come anche per intere ore. L'unica cosa che l'istinto da agente addestrato gli diede modo di riconoscere fu il bussare frenetico della porta d'ingresso. Si alzò dal letto e afferrò la pistola dal comodino, levando la sicura. Chi diavolo poteva essere a quell'ora? Ryan, forse? Ma lui aveva le chiavi di casa, che senso c'era nel svegliarlo così? 
Respirò profondamente e giunto all'ingresso aprì la porta. Oh, eccome se gli sarebbe servita la pistola. 
"Lear..." l'interessato rabbrividì nel sentire di nuovo quella voce melliflua, quel suo stupidamente sexy modo di chiamarlo per nome e ancora quel nodo Windsor, le labbra sottili, il profumo costoso...
"Che accidenti vuoi? Non voglio parlarti, pensavo fosse chiaro che io... aspetta, che stai facendo?! Non entrare!"
Si vergognò, allora. Si vergognò come un ladro. Se solo avesse voluto, avrebbe tranquillamente potuto stenderlo in un secondo e mandarlo via a calci con una denuncia per violazione di domicilio. Se solo avesse voluto, certo. Il problema era che non volevo e istintivamente rimise la sicura alla pistola.
"Mi devi ascoltare, ti prego..." Lear sospirò. Quanta poca fortuna poteva convogliarsi in una persona sola? Era troppo chiedere in prestito la buona stella di qualcun altro? 
"Che vuoi, sentiamo."
"Voglio te..."
"Oh, per favore! Te ne esci sempre con queste frasi del cazzo! Cosa ti sembro, una donnina di paese?"
"Se fossi stato una donna, io non avrei problemi e al momento starei pensando solo a scoparti." Inarcò un sopracciglio. Ecco una parte di Adrian che gli era davvero sconosciuta: la sua sessualità. "Però non lo sei. Non sei una donna, sei un uomo e..." Adrian sbuffò, visibilmente provato. "E che io sia dannato, ma non potresti essere più perfetto di così." 
Che maledetto figlio di puttana, pensò Lear. Ecco la fregatura di innamorarsi del proprio (manipolatore) psichiatra. Come era già successo nel precedente mercoledì, lo stava abbindolando con le sue parole. Chi più di lui aveva capito quanto insicuro si sentisse dietro la maschera del super detective spericolato? A parte Ryan, e prima di lui Aaron, non aveva mai avuto il coraggio di esporsi completamente, e in teoria non lo aveva fatto nemmeno con Adrian. Però il fattore figlio-di-puttana di cui quest'ultimo era provvisto risultò essere un'incognita che lo indebolì.
"Perché mi dici queste cose? Insomma... Adrian, tu hai scelto tua moglie."
"No, io ho scelto mio figlio. Figlio che non avrò perché era tutta una bugia." Lear sobbalzò appena, scuotendosi sgomento. Non era per come l'aveva detto e a dire il vero non era nemmeno per ciò che aveva detto, visto che la stessa Kate aveva provveduto a informarlo ampiamente. Era per gli occhioni tristi che tirò fuori, era per il lampo di insicurezza che avvertì nel suo sguardo generalmente limpido. Per un istante, allora, si ritrovò a cercare di mettersi nei panni di Adrian. Un tuo paziente in qualche mese ti sconvolge l'esistenza e si prende ogni cosa di te: la professionalità lavorativa, la tua etica, il desiderio sessuale, la fedeltà matrimoniale. Forse non era completamente colpevole. Forse, come diceva sempre sua madre da piccolo, si litiga davvero sempre in due. 
"Adrian, io... mi dispiace per tuo figlio, ma non so che farci. Ci siamo detti delle cose e credo che abbiamo esagerato entrambi. C'erano dei ruoli da rispettare e..." Non sapeva nemmeno lui dove esattamente volesse andare a parare e per questo si interruppe sotto lo sguardo severo dell'altro. Dio, si sentiva di nuovo a scuola in quel momento. 
"Qualunque sia la domanda che so ti stai ponendo, la risposta è sempre la stessa..." Lo attirò fra le braccia e lo baciò. Anzi, lo divorò. Più avanti negli anni, poi, nella classifica mentale del biondo, quel bacio avrebbe decisamente vinto il primo premio fra i secondi-baci-riappacificatori. Nell'immediato presente, invece, fu la scintilla che li fece scatenare.
In pochi secondi si ritrovarono in camera di Lear e in meno ancora a rotolarsi fra le lenzuola. Non c'era niente che non andasse bene, perché in quei momenti Lear trovò davvero Adrian. Lo poté osservare mentre impacciato cercava di capire come dare piacere a un altro uomo, e si beò dei suoi sospiri soddisfatti quando Lear gemeva per lui.
Fra le molte cose, fu la prima volta, quella, in cui non sentì la necessità di paragonare un proprio amante a Ryan. Non perché Adrian fosse migliore - sii onesto, Lear, si disse -, ma perché era così perfetto farlo con chi amavi che non c'era prestazione sessuale più eccelsa. E poi era così carino, Adrian.
Scoprì in breve quanto fosse sensibile sul collo e fu lì che Lear si concentrò, mentre gli toglieva la camicia e artigliava le sue spalle quando lo sentì premere la sua erezione contro la propria.
Rimasero presto entrambi nudi e il biondo si concesse un’altra soddisfazione. Passò le dita fra i capelli lisci dell’altro e gli venne quasi da gemere di piacere per quanto morbidi erano al tatto. Dovette ammetterlo, la sensazione che provò a toccarlo non fu come aveva sempre immaginato, fu ancora meglio.
"Lear, io…"
“Shhh… zitto, ti prego… voglio solo fare l’amore con te." Adrian annuì lento, baciandolo ancora, vorace, e quando si staccò Lear si rese conto di quanto spaesato si stesse sentendo. Lo vide nei suoi occhi, sempre più preoccupati, insicuri. Diede dunque un colpo di reni e ribaltò le posizioni,  finendo su di lui.
Intento a baciare l'addome piacevolmente piatto di Adrian e a leccare fra i mugolii di entrambi l'accenno vago di addominali, Lear si sentì tirare i capelli. 
"Lee... io non... non l'ho mai fatto con un uomo."  
"Ma non mi dire, dottore... chi l'avrebbe mai detto." Ridacchiò, cercando di stemperare l’aria tesa, tirandogli un affettuoso morsetto sul fianco.
"E non ho una protezione." Rise più forte, ‘stavolta di sano divertimento, e si sollevò sulle ginocchia, mettendoglisi a cavalcioni. 
"E chi ti dice che comanderai tu?"
"I diciassette sogni inventati in cui ti fai scopare da un uomo moro? Devi ammettere che sono un'ottima fonte di ispirazione." Spaventato, certo, ma non stupido. Lear sorrise.
"Beh... touché." Si piegò piano su di lui, baciandolo. "Però li hai contati..."
"Solo per vedere quanto ci avresti messo a inserire anche me." Un'altra risata di Lear, che nel frattempo si sistemò meglio su di lui. Nella sua testa non si vergognava ad ammettere di non aver bisogno di preparazione, né lubrificante, per una semplice questione: era abituato alla penetrazione e gli piaceva di più quando faceva un po’ male all’inizio.
"Per questa volta sto sopra io..." la voce si fece roca e calda, mentre Adrian gemeva sorpreso nel ritrovarsi improvvisamente dentro di lui, dentro un uomo. Lear si inarcò, mordendosi le labbra, accogliendolo tutto dentro di sé con una smorfia. "Per favore" gemette sofferente, socchiudendo gli occhi. "… prenda appunti, dottore."

****

"Mhh..." mugolò Lear, dando uno schiaffo alla maledetta sveglia. Aprì gli occhi comunque, sospirando e godendosi il tepore delle coperte per qualche altro minuto. All'improvviso poi i ricordi della notte trascorsa con Adrian lo investirono, ricordandogli di aver appreso un'interessante sua caratteristica: imparava in fretta. Molto in fretta, a giudicare dal tanto desiderato mal di schiena che finalmente si ritrovava. Forse ancora ce l'aveva una buona stella. Sorrise, domandandosi oziosamente se gli andasse di farlo ancora. Così si girò, aspettandosi di ritrovarsi davanti quello spettacolo della natura che era Adrian nudo. 
Al suo posto, tuttavia, trovò solo lenzuola stropicciate. Si mise seduto, tendendo le orecchie: poteva essere che fosse in bagno, ma niente, solo un silenzio tombale. Scese dunque dal materasso, mettendo i boxer della sera prima. Non c'erano nemmeno i suoi vestiti. Si passò esausto le mani sul volto e in un ultimo disperato gesto provò a chiamarlo: "Adrian?". 
Non ci fu eco, ma non si sarebbe stupito se l'avesse sentita, considerando la desolazione che sentiva circondarlo in quel momento. Tutto, ti prego, ma non questo. Uscì lento dalla stanza da letto, terrorizzato dal suo stesso presagio, e dirigendosi prima in salotto e poi in cucina, balzò ai suoi occhi sul tavolo scuro un foglietto bianco. 
Le pensò tutte, nei pochi istanti di camminata che lo separavano dalla verità. Forse era andato a comprare la colazione, le sigarette, un cane, qualcosa, qualsiasi cosa. Afferrò brusco il piccolo pezzo di carta, notando che proveniva dal suo ricettario.
"Dottor Adrian Murray, psichiatra criminologo". Sospirò, andando oltre quei titoli inutili e leggendo le poche parole scritte con la sua spigolosa, ma elegante grafia.

Perdonami se puoi.

Tre parole. Si era guadagnato solo tre fottutissime parole. E un punto. E un pezzetto del suo ricettario, nemmeno fosse una malattia da debellare, nemmeno fosse un cancro. 
Improvvisamente scoppiò in una forte tosse. La rabbia era tanta in quel momento che a stento aveva respirato. Oh, lo avrebbe ucciso. 
Crollò seduto su una sedia e strappò furioso il foglietto in dozzine di pezzetti, singhiozzando all’improvviso disperato, ammettendo il suo problema, accettandolo, ma chiedendosi però se ‘stavolta sarebbe bastato versare qualche lacrima per risolvere il casino in cui si era andato a incastrare.
Probabilmente non c’era una via d’uscita, ‘stavolta. Complimenti, Lear.

   
 
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