Capitolo 2. La soluzione.
Si chiese perché
per l'ennesima volta. Si chiese perché non
poteva essere felice, perché non poteva mai andare come
voleva che andasse, cioè
nel modo più semplice. Si chiese anche, ma questo solo per
poco, perché diavolo
il proiettile che lo prese al tempo sulla spalla non l'avesse colpito
un po'
più su o un po' più al centro.
"Scheggia, lo so che non ti ubriachi nemmeno se ci fai il bagno in
quella
roba, ma credo che dovresti smetterla adesso. Non fosse altro
perché domani non
ho voglia di sopportarti depresso anche per questo..." Lear
alzò la testa dal bancone del
bar e si perse nello sguardo ambrato di Ryan. Che era lì, al
suo fianco, come
ogni volta in cui aveva bisogno di un sostegno. Sorrise piano a quel
pensiero.
"Sì, forse hai ragione."
"Non sarebbe una novità!" scherzò e si
passò una mano fra i lunghi
capelli neri, stranamente non raccolti nella solita rigida coda, ma
lasciati
liberi sulla schiena. "Te l'avevo detto: non imbarcarti in relazioni
insensate, Lear, o ne uscirai a pezzi. E tu che mi hai risposto?" Lear
sbuffò e tornò ad appoggiare la fronte al
bancone.
"Che avevi ragione, Ryan, e che non avrei fatto stupidaggini!"
borbottò. Adorava tremendamente Ryan. Era il suo partner a
lavoro, il migliore
amante che avesse avuto a letto e l'amico più premuroso mai
sceso in terra.
Forse anche più di Aaron.
Oh, Aaron. Doveva chiamarlo e fargli sapere che stava
bene. Dopo
l'incidente era stato troppo impegnato a fantasticare su quel bastardo
di
Adrian e il resto gli era passato di mente.
"Mi fa piacere che almeno in quanto a memoria ci siamo, scheggia...
è per
quel che riguarda l'amor proprio che hai qualche mancanza." Ryan bevve
la
birra e gli accarezzò dolcemente i capelli biondi,
confortante e mai
pretenzioso. A Lear venne di nuovo voglia di piangere, ma
preferì
concedersi una testata al bancone piuttosto.
"Visto? Mancanza di amor proprio, è questo il tuo problema,
Lee."
"Ti odio, Ryan."
"Perché?" Domandò indifferente.
"Perché hai ragione." brontolò Lear e l'altro
rise piano, bonario.
Era bello sentirlo ridere, ma presto il biondo si
ritrovò a paragonare la
sua risatina a quella che una settimana fa sentiva uscire fuori dalle
labbra,
perfette, del bastardo.
Cercò di scacciare via quel pensiero, esausto dal costante
scappare dai pochi bei ricordi che aveva di Adrian. Fortunatamente
stavolta la
battaglia col cuore spezzato la vinse lui, complice anche l'entrata in
scena in
quel bar di Afrodite. O comunque una che ci assomigliava
decisamente.
Il tubino nero e stretto scendeva morbido sui fianchi larghi e quando
la dea in
questione, che era bionda come il grano - un po' come lui -, si sedette
proprio allo sgabello
accanto a quello di Lear, il bordo del vestito scoprì la
coscia tornita e
abbronzata. Di istinto Lear si girò a vedere la reazione di
un po' tutto il
locale, ma soprattutto quella di Ryan, che la guardava di profilo, con
la coda
dell'occhio, cercando di mantenere una stoicissima compostezza e di non
mostrarsi per il palese bisex che era. Gli tirò di istinto
un pugno nelle
costole, facendolo sobbalzare.
"Fai pena a dissimulare" borbottò divertito e tranquillo,
facendo di
nuovo ridere il collega. Non era un tipo geloso, Lear. Ryan non era suo
e tanto
meno lui era di Ryan. Proprio in virtù di questo la loro
relazione era perfetta
così com'era.
Il problema, però, era che quella sera era
mercoledì e per la prima volta dopo
settimane, non aveva visto il bastardo alle dodici e trentacinque. Per
questo,
improvvisamente triste, poggiò la testa al braccio di Ryan.
Aveva
davvero, davvero bisogno di lui.
Rimase quindi così, sentendo l'amico rilassarsi e per niente
a disagio nel
silenzio complice che si era creato.
Nelle loro vicinanze, intanto, la bionda rappresentazione femminile
dell'erotismo era al terzo Martini a stomaco vuoto. Forse essere
così perfetti
non era sempre un beneficio, pensò Lear, e buttò
gli occhi in direzione della
signora, che stava guardando proprio nella loro direzione. Sorrideva
malinconica,
mostrando i denti perfetti circondati dal rossetto rosso.
"Siete una bella coppia..." mormorò, quasi
nostalgica. Dio, che
rabbia, rifletté, aveva anche la voce di una dea!
"Mi ricordate tanto
me e mio marito... oh, beh, il mio ex marito." Tirò su col
naso, mentre gli
occhioni blu si riempivano di lacrime. Lear alzò di scatto
la testa dalla
spalla di Ryan e la guardò dispiaciuto, poggiando due dita
sul polso di lei in
segno di solidarietà. Da quel momento avrebbe ribattezzato
mentalmente quel
locale come il bar dei cuori spezzati e no, non ci sarebbe
più tornato,
fortunosamente.
"Per quel che vale, mi dispiace da morire..." mugugnò. "Se
ti ha
lasciata, deve essere davvero un idiota." Probabilmente il poveretto in
questione, invece, non lo era, ma in quel momento si sentì
davvero in sintonia
con quella bellissima donna e il suo lato gentleman prese il
sopravvento.
"Di essere un idiota lo era sicuramente!" squittì lei,
asciugandosi
con sfacciata raffinatezza un occhio truccato. "Solo che devo
ammetterlo:
fra i due, la stupida stavolta sono stata io. Me lo sono fatto
scivolare dalle mani, ho
messo davanti al nostro rapporto il mio lavoro, le mie ambizioni e
più gli anni
passavano, più lui aveva bisogno di cose che io
semplicemente non volevo
dargli." Bevve e svuotò il quarto Martini, riprendendo poi
il racconto,
tra una lacrima ribelle e l'altra. "Voleva un figlio, ma non ero
disposta
a rinunciare alla mia carriera per averne uno... e lo sapevo, lo sapevo
bene
che l'unica cosa che lo avrebbe tenuto stretto a me era il suo naturale
istinto
paterno. Così gli ho detto che ero incinta, ma lui non era
felice lo stesso.
Non lo voleva più un bambino, almeno non da me, ed io non ce
la facevo più a
continuare questa ipocrisia, tanto lo avrebbe scoperto lo
stesso..."
Lear rimase immobile ad ascoltare, ma sentì dietro la
schiena la mano grande e
calda di Ryan che conoscendolo sapeva sarebbe probabilmente svenuto da
un
momento all'altro. Nella sua carriera, prima di agente e poi di
detective nella
squadra omicidi, Lear non aveva mai creduto alle coincidenze. Sono roba
da
favoletta, diceva, c'è sempre una ragione logica,
c'è sempre una prova
schiacciante, razionale. Al momento, però, non poteva
credere alle sue
orecchie. Quante probabilità c'erano di ritrovarsi a
consolare quella che a
conti fatti era la sua rivale in amore?
"Gli ho mentito, non ero incinta per davvero e lui mi ha sbattuto in
faccia i documenti del divorzio in... non lo so, quanto? Tre ore? Poi
ha fatto
le valigie e se ne è andato via..." scosse il capo. "Solo
quando ha
sbattuto la porta di casa mi sono finalmente detta la
verità: stupida, stupida
Kate, ripetevo..." abbassò il capo per un po', ma lo
rialzò subito dopo,
mostrandosi mortificata. "Oddio, perdonami... perdonami, davvero, ti ho
raccontato cose di cui decisamente non te ne importa. Scusa."
Non rispose, Lear. A dire il vero non avrebbe comunque saputo cosa
dire.
Semplicemente balzò giù dallo sgabello, scuotendo
il capo, e scattò verso la
porta.
"Lee! Aspetta, ehi!" Ryan lasciò qualche banconota sul
bancone e
prese a rincorrere Lear. Una scena piuttosto usuale per loro, fra
l’altro, e
molto più da film di quanto si rendessero conto.
"No, non aspetto, no… i-io…" balbettò,
ma rallentò, lasciando che
l’altro lo prendesse per le spalle.
"Scheggia, ti prego. Non è così che devi reagire
adesso… hai sentito delle
cose spiacevoli ed è stata una lunga settimana. Devi solo
riprenderti la tua
vita e… no, ti prego, non fare così…"
Ryan sospirò, mesto, e lo abbracciò,
stringendoselo impotente al petto. "Non puoi piangere per lui, non se
lo
merita…”
Lear singhiozzò sommesso e si affondò gli
incisivi nel labbro, per cercare di
trattenersi, di nascondere tutto sotto il tappeto, come sempre.
"Se… se
Kate non è incinta…" esalò dopo
qualche minuto di pianto. "Perché
allora non è tornato da me? Perché allora non ha
dimostrato di amarmi come
diceva? Dio, c’è così tanto bisogno di
scappare da me?!" alzò il viso e
cercò lo sguardo confortante di Ryan.
"Naturalmente no. E’ che è un vigliacco bastardo,
ecco tutto. Non merita
niente di tuo, Lee."
"Eppure ci dev’essere qualcosa di sbagliato in me!
Non… oh, merda, perché
non potevo innamorarmi di un bravo ragazzo? Uno con la testa sulle
spalle, che
mi stia accanto?" si nascose contro la spalla di Ryan e quel rifugio
sembrò andargli bene per qualche altro minuto. Da quanti
anni non si sentiva
così insicuro? Così ferito, solo, distrutto? E
per cosa, poi, per qualche bacio
di troppo da parte di un semi-sconosciuto? O per il sorriso perfetto,
l’odore
del profumo costoso, il nodo Windsor alla cravatta e tutte quelle
dolorose
minuzie che componevano l’immagine di Adrian?
Si odiò in quel momento e non si riconobbe più.
Piuttosto provò a frugare tra
le macerie di se stesso, ma per ora il bollettino gridava
niente
superstiti.
"Ryan, ti prego, scusami, ma… ho bisogno di stare da solo
‘stanotte."
Si alzò sulle punte per raggiungere, almeno per quanto
possibile, la guancia
dell’amico. La baciò tenero e sciolse la stretta,
asciugandosi gli occhi e
tornando più o meno calmo a camminare nella direzione di
prima. Voleva solo
andarsene a casa e seppellirsi sotto una montagna di merda.
****
Niente, non riusciva a
chiudere occhio. Sospirò e si strofinò
gli occhi gonfi. Di solito non piangeva, ma quando stava davvero male
era
abbastanza rigenerante farlo e no, non la trovava una cosa da
femminuccia.
Piangere lo aiutava ad accettare un problema, a riconoscerne
l'esistenza.
Versare lacrime per qualcosa rendeva inevitabilmente reale quel dolore
e al
momento riusciva a sentire fin troppo bene l'abbandono di Adrian. Come
poteva una
storia rovinata ancor prima di cominciare fare così
male?
Incrociò le mani dietro la nuca, rivoltandosi fra il piumone
e le lenzuola. Una
parte di lui si chiese quanto tempo ci avrebbe messo a dimenticarlo.
L'altra
sua metà, invece, più realisticamente, si chiese
'se' sarebbe riuscito a
toglierselo dalla testa. Che cazzo di problema.
Lasciò che le palpebre si facessero pesanti, a quel punto.
Domani sarebbe stata
una lunga giornata e voleva essere al top a lavoro. Anche
perché, tecnicamente,
l'unica volta che non lo era stato gli avevano sparato, gettandolo
così nel
mare di melma in cui sentiva di affogare.
****
Dormì, dunque.
Non seppe dire per quanto e in effetti poteva
essere stato per molto poco, come anche per intere ore. L'unica cosa
che
l'istinto da agente addestrato gli diede modo di riconoscere fu il
bussare
frenetico della porta d'ingresso. Si alzò dal letto e
afferrò la pistola dal
comodino, levando la sicura. Chi diavolo poteva essere a quell'ora?
Ryan,
forse? Ma lui aveva le chiavi di casa, che senso c'era nel svegliarlo
così?
Respirò profondamente e giunto all'ingresso aprì
la porta. Oh, eccome se gli
sarebbe servita la pistola.
"Lear..." l'interessato rabbrividì nel sentire di nuovo
quella voce
melliflua, quel suo stupidamente sexy modo di chiamarlo per nome e
ancora quel
nodo Windsor, le labbra sottili, il profumo costoso...
"Che accidenti vuoi? Non voglio parlarti, pensavo fosse chiaro che
io...
aspetta, che stai facendo?! Non entrare!"
Si vergognò, allora. Si vergognò come un ladro.
Se solo avesse voluto, avrebbe
tranquillamente potuto stenderlo in un secondo e mandarlo via a calci
con una
denuncia per violazione di domicilio. Se solo avesse voluto, certo. Il
problema
era che non volevo e istintivamente rimise la sicura alla pistola.
"Mi devi ascoltare, ti prego..." Lear sospirò. Quanta poca
fortuna
poteva convogliarsi in una persona sola? Era troppo chiedere in
prestito la
buona stella di qualcun altro?
"Che vuoi, sentiamo."
"Voglio te..."
"Oh, per favore! Te ne esci sempre con queste frasi del cazzo! Cosa ti
sembro, una donnina di paese?"
"Se fossi stato una donna, io non avrei problemi e al momento starei
pensando solo a scoparti." Inarcò un sopracciglio. Ecco una
parte di
Adrian che gli era davvero sconosciuta: la sua sessualità.
"Però non lo
sei. Non sei una donna, sei un uomo e..." Adrian sbuffò,
visibilmente
provato. "E che io sia dannato, ma non potresti essere più
perfetto di
così."
Che maledetto figlio di puttana,
pensò Lear. Ecco la fregatura di innamorarsi del proprio
(manipolatore)
psichiatra. Come era già successo nel precedente
mercoledì, lo stava
abbindolando con le sue parole. Chi più di lui aveva capito
quanto insicuro si
sentisse dietro la maschera del super detective spericolato? A parte
Ryan, e
prima di lui Aaron, non aveva mai avuto il coraggio di esporsi
completamente, e
in teoria non lo aveva fatto nemmeno con Adrian. Però il
fattore
figlio-di-puttana di cui quest'ultimo era provvisto risultò
essere un'incognita
che lo indebolì.
"Perché mi dici queste cose? Insomma... Adrian, tu hai
scelto tua
moglie."
"No, io ho scelto mio figlio. Figlio che non avrò
perché era tutta una
bugia." Lear sobbalzò appena, scuotendosi sgomento. Non era
per come
l'aveva detto e a dire il vero non era nemmeno per ciò che
aveva detto, visto che
la stessa Kate aveva provveduto a informarlo ampiamente. Era per gli
occhioni
tristi che tirò fuori, era per il lampo di insicurezza che
avvertì nel suo
sguardo generalmente limpido. Per un istante, allora, si
ritrovò a cercare di
mettersi nei panni di Adrian. Un tuo paziente in qualche mese ti
sconvolge
l'esistenza e si prende ogni cosa di te: la professionalità
lavorativa, la tua
etica, il desiderio sessuale, la fedeltà matrimoniale. Forse
non era
completamente colpevole. Forse, come diceva sempre sua madre da
piccolo, si
litiga davvero sempre in due.
"Adrian, io... mi dispiace per tuo figlio, ma non so che farci. Ci
siamo
detti delle cose e credo che abbiamo esagerato entrambi. C'erano dei
ruoli da
rispettare e..." Non sapeva nemmeno lui dove esattamente volesse andare
a
parare e per questo si interruppe sotto lo sguardo severo dell'altro.
Dio, si
sentiva di nuovo a scuola in quel momento.
"Qualunque sia la domanda che so ti stai ponendo, la risposta
è sempre la
stessa..." Lo attirò fra le braccia e lo baciò.
Anzi, lo divorò. Più
avanti negli anni, poi, nella classifica mentale del biondo, quel bacio
avrebbe
decisamente vinto il primo premio fra i secondi-baci-riappacificatori.
Nell'immediato presente, invece, fu la scintilla che li fece scatenare.
In pochi secondi si ritrovarono in camera di Lear e in meno ancora a
rotolarsi
fra le lenzuola. Non c'era niente che non andasse bene,
perché in quei momenti
Lear trovò davvero Adrian. Lo poté osservare
mentre impacciato cercava di
capire come dare piacere a un altro uomo, e si beò dei suoi
sospiri soddisfatti
quando Lear gemeva per lui.
Fra le molte cose, fu la prima volta, quella, in cui non
sentì la necessità di
paragonare un proprio amante a Ryan. Non perché Adrian fosse
migliore - sii
onesto, Lear, si disse -, ma perché era così
perfetto farlo con chi amavi che
non c'era prestazione sessuale più eccelsa. E poi era
così carino, Adrian.
Scoprì in breve quanto fosse sensibile sul collo e fu
lì che Lear si concentrò,
mentre gli toglieva la camicia e artigliava le sue spalle quando lo
sentì
premere la sua erezione contro la propria.
Rimasero presto entrambi nudi e il biondo si concesse
un’altra soddisfazione.
Passò le dita fra i capelli lisci dell’altro e gli
venne quasi da gemere di
piacere per quanto morbidi erano al tatto. Dovette ammetterlo, la
sensazione
che provò a toccarlo non fu come aveva sempre immaginato, fu
ancora meglio.
"Lear, io…"
“Shhh… zitto, ti prego… voglio solo
fare l’amore con te." Adrian annuì
lento, baciandolo ancora, vorace, e quando si staccò Lear si
rese conto di
quanto spaesato si stesse sentendo. Lo vide nei suoi occhi, sempre
più
preoccupati, insicuri. Diede dunque un colpo di reni e
ribaltò le posizioni, finendo su
di lui.
Intento a baciare l'addome piacevolmente piatto di Adrian e a leccare
fra i
mugolii di entrambi l'accenno vago di addominali, Lear si
sentì tirare i
capelli.
"Lee... io non... non l'ho mai fatto con un uomo."
"Ma non mi dire, dottore... chi l'avrebbe mai detto."
Ridacchiò,
cercando di stemperare l’aria tesa, tirandogli un affettuoso
morsetto sul
fianco.
"E non ho una protezione." Rise più forte,
‘stavolta di sano
divertimento, e si sollevò sulle ginocchia, mettendoglisi a
cavalcioni.
"E chi ti dice che comanderai tu?"
"I diciassette sogni inventati in cui ti fai scopare da un uomo moro?
Devi
ammettere che sono un'ottima fonte di ispirazione." Spaventato, certo,
ma
non stupido. Lear sorrise.
"Beh... touché." Si piegò piano su di lui,
baciandolo. "Però li
hai contati..."
"Solo per vedere quanto ci avresti messo a inserire anche me."
Un'altra risata di Lear, che nel frattempo si sistemò meglio
su di lui. Nella
sua testa non si vergognava ad ammettere di non aver bisogno di
preparazione,
né lubrificante, per una semplice questione: era abituato
alla penetrazione e
gli piaceva di più quando faceva un po’ male
all’inizio.
"Per questa volta sto sopra io..." la voce si fece roca e calda,
mentre Adrian gemeva sorpreso nel ritrovarsi improvvisamente dentro di
lui,
dentro un uomo. Lear si inarcò, mordendosi le labbra,
accogliendolo tutto
dentro di sé con una smorfia. "Per favore" gemette
sofferente,
socchiudendo gli occhi. "… prenda appunti, dottore."
****
"Mhh..."
mugolò Lear, dando uno schiaffo alla maledetta sveglia.
Aprì gli occhi
comunque, sospirando e godendosi il tepore delle coperte per qualche
altro
minuto. All'improvviso poi i ricordi della notte trascorsa con Adrian
lo
investirono, ricordandogli di aver appreso un'interessante sua
caratteristica:
imparava in fretta. Molto in fretta, a giudicare dal tanto desiderato
mal di
schiena che finalmente si ritrovava. Forse ancora ce l'aveva una buona
stella.
Sorrise, domandandosi oziosamente se gli andasse di farlo ancora.
Così si girò,
aspettandosi di ritrovarsi davanti quello spettacolo della natura che
era
Adrian nudo.
Al suo posto, tuttavia, trovò solo lenzuola stropicciate. Si
mise seduto,
tendendo le orecchie: poteva essere che fosse in bagno, ma niente, solo
un
silenzio tombale. Scese dunque dal materasso, mettendo i boxer della
sera
prima. Non c'erano nemmeno i suoi vestiti. Si passò esausto
le mani sul volto e
in un ultimo disperato gesto provò a chiamarlo:
"Adrian?".
Non ci fu eco, ma non si sarebbe stupito se l'avesse sentita,
considerando la
desolazione che sentiva circondarlo in quel momento. Tutto, ti prego,
ma non questo. Uscì
lento dalla stanza da
letto, terrorizzato dal suo stesso presagio, e dirigendosi prima in
salotto e
poi in cucina, balzò ai suoi occhi sul tavolo scuro un
foglietto bianco.
Le pensò tutte, nei pochi istanti di camminata che lo
separavano dalla verità.
Forse era andato a comprare la colazione, le sigarette, un cane,
qualcosa, qualsiasi
cosa.
Afferrò brusco il
piccolo pezzo di carta, notando che proveniva dal suo ricettario.
"Dottor
Adrian Murray, psichiatra
criminologo". Sospirò,
andando oltre quei titoli inutili e leggendo le poche
parole scritte con la sua spigolosa, ma elegante grafia.
Perdonami se puoi.
Tre parole. Si era guadagnato solo tre fottutissime parole. E un punto.
E un pezzetto del
suo ricettario, nemmeno fosse una malattia da debellare, nemmeno fosse
un
cancro.
Improvvisamente scoppiò in una forte tosse. La rabbia era
tanta in quel momento
che a stento aveva respirato. Oh, lo avrebbe ucciso.
Crollò seduto su una sedia e strappò furioso il
foglietto in dozzine di
pezzetti, singhiozzando all’improvviso disperato, ammettendo
il suo problema,
accettandolo, ma chiedendosi però se ‘stavolta
sarebbe bastato versare qualche
lacrima per risolvere il casino in cui si era andato a incastrare.
Probabilmente non c’era una via d’uscita,
‘stavolta. Complimenti,
Lear.