“Time and again
I've longed for adventure,
Something to make my heart beat the faster.
What did I long for? I never really knew.
Finding your love I've found my adventure,
Touching your hand, my heart beats the faster,
All that I want in all of this world is you.”
Ella Fitzgerald, “All things you are”
Schizzò
fuori dal letto come una scheggia, gettando di lato le coperte aggrovigliate
disordinatamente e camminando scalza verso la cucina, grattandosi la fronte, lì
dove una zanzara l’aveva punta. Trotterellò lungo il corridoio canticchiando
una vecchia canzone di Ella Fitzgerald che le era venuta in mente la sera prima.
-Enri, buongiorno!- urlò, colpendo la
sua porta e proseguendo quasi a saltelli, stiracchiandosi di tanto in tanto e
facendo grossi sbadigli. Non aveva mai dormito così bene come quella notte e mai
sogni più sereni l’avevano accolta e consolata fra le loro braccia seducenti e
oblianti. Non che ora avesse bisogno di essere consolata, tutt’altro. Aveva
bisogno di prendere l’auto, mettere della buona musica, possibilmente qualcosa
che le trasmettesse quell’iperattività frenetica che sentiva nelle vene dalla
sera precedente, e correre per la città suonando a tutto spiano, svegliando
tutti quelli che ancora dormivano a quell’ora di domenica mattina, passare di
fronte alla chiesa del quartiere e gridare al cielo un bel vaffanculo! solo per il gusto di beccarsi gli sguardi scioccati delle anziane
signore che sciamavano in piazza per la messa di mezzogiorno. Ovviamente, tutto
questo sarebbe stato più divertente se fatto con Marta al suo fianco.
-Cristo mio, Ludo, ma che cazzo bussi che sono le otto e mezza?- biascicò
infastidito Enrico dalla stanza, con la voce ovattata di chi è si è appena
addormentato dopo una notte di divertimenti più sfrenati. Probabilmente, la
sbornia era stata più devastante del previsto. Tutta colpa di quella roba che Tamara
aveva messo dentro gli alcolici a loro insaputa. Ora che ci pensava, anche
Ludovica non credeva di aver smaltito completamente quella sottospecie di droga
sintetica che quella pazzoide aveva lasciato cadere nella sua birra, ma si
diresse volteggiando verso la cucina senza farci caso. Antonia sedeva
placidamente sul divanetto arancione, guardando il notiziario mattutino con
occhi distratti, bonari.
-Buongiorno
cara- mormorò fra un sorso e l’altro di caffè, volgendole uno sguardo sorridente.
Ludovica rispose con un sorrisone, versandosi anche lei del caffè e addentando
una delle ciambelle che sua madre comprava, premurosamente, tutte le domeniche
mattina.
-A te-
Mangiò
con avidità, sentendo lo stomaco, inacidito dalle porcherie che aveva ingerito
la notte precedente, brontolare grato al primo pasto decente dell’intero fine
settimana. Nascose per bene coi capelli quella macchietta rosa che Marta le
aveva lasciato sul collo appena dopo la loro conversazione sul tetto, piegando
la testa di lato sperando che sua madre non la notasse, e ingollò il caffè, non
riuscendo a stare ferma sulla sedia. Tutto quello che era successo la sera
prima, dio, l’aveva resa elettrica. Agguantò Tabasco, costringendolo a farsi
fare le coccole ed evitando per poco una sua zampata poco amichevole.
-Comincio
a pensare che ti odi, Ludo- ridacchiò Antonia,cambiando canale per vedere il
notiziario delle undici e mezza. Lei alzò le spalle, gettando al gattone
un’occhiata piena di astio e mescolando ora i cereali nel latte. Aveva una fame
da paura.
-Questo
è il compenso per averti salvato dal metronomo, bravo Tabasco!- lo redarguì e
sentì lo sguardo sconcertato di sua madre su di sé. Probabilmente aveva gli
occhi ancora un po’ rossi, colpa delle canne che si era fumato Walter.
Ovviamente, aveva dovuto prenderne due boccate, tanto il garage già aleggiava
di marijuana, tanto valeva...
-Ma si,
Tabasco ha paura del metronomo. Disgraziato- sibilò, quando il gatto si piazzò
di fronte a lei, fissandola con quegli occhi ipnotici per indurla a lasciargli
un po’ di latte.
-Come
dici tu- concesse Antonia, cautamente. La televisione trasmetteva le ultime
notizie e Ludovica ascoltò con interesse le prime indiscrezioni sugli esami di
stato di quell’anno.
-Dici
che quest’anno è latino o greco?- domandò. Antonia storse la bocca, pensierosa.
-L’anno
scorso è stato greco, quindi immagino sarà latino. In qualunque caso andrai
bene, questo è certo-
Ludovica
fece di sì con la testa, gongolando leggermente. In latino tutto sommato se la
cavava, anche se era Marta la regina indiscussa delle subordinate ciceroniane e
delle ellissi di Tacito. Le avrebbe chiesto aiuto, avrebbero ripassato insieme.
O forse no, non era il caso. Il caldo di giugno avrebbe giocato brutti scherzi.
Si divertì ad immaginarsi con lei in spiaggia, poche settimane dopo la prova
scritta, a brindare al suo cento, perché Marta era una ragazza così brillante
che non c’erano dubbi sulla sua buona riuscita. Forse la matematica non era il
suo forte, ma sarebbe stata più che volenterosa ad aiutarla con le equazioni
goniometriche. Quando Marta non riusciva in una cosa, comunque, era
insopportabile. Borbottava fra sé, ignorava chiunque le stesse intorno, e come
una caricatura se ne usciva con le esclamazioni più patetiche e drammatiche
possibili. Mio dio, che palle! Era
capitato di pensare a Ludovica. Ma questo quando facevano solo sesso. Ora era
sicura di aver sempre adorato anche quel suo lato spaventosamente maniacale. In
qualunque caso, le faceva disconnettere il cervello. Pensò alla notte prima e
un brivido prepotente le attraversò la schiena come se fosse ancora lì su quel
tetto, con Marta addosso.
-Ludo,
ci sei?-
Si girò
verso sua madre, sospirando di si. Finì di mangiare i cereali mentre Tabasco si
leccava le zampe, altezzoso, e gli lanciò più volte sguardi di sfida. Che se lo
venisse a prendere con le sue zampe, il latte! Probabilmente Antonia stava
pensando di far un test del palloncino ad entrambi i figli, visto che Enrico si
era appena trascinato in cucina con la faccia più bianca di sempre, ma Ludovica
non se ne curò poi tanto. Doveva uscire al più presto, prendere la macchina e
sgommare per le strade.
-Erni, mi accompagni se faccio un giro
in macchina?- gli chiese, ma suo fratello non diede segni di vita, limitandosi
a fissare la sua tazza di cereali accanto alla mamma, sul divano. Tabasco gli
era saltato addosso e ora stava leccando tutto il bordo della sua colazione,
mentre sembrava non accorgersene. Seppur stava avendo una minima percezione di
ciò che gli accadeva attorno, non sembrava importargliene poi molto, dietro un
paio di occhi appannati e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni.
-Ma si,
fare un giro è una buona idea. Non hai una buona cera stamattina- disse
apprensiva Antonia, passandogli una mano sulle guance per appurare se avesse la
febbre o meno e cercando di lisciargli due ciocche che, ai lati della fronte,
sembravano le orecchie di Tabasco, tanto erano irte e rosse. Alla fine, la
povera donna, gettando uno sguardo apprensivo ai suoi gemelli, dovette
concludere che avevano semplicemente trovato un modo per aprire la porta di
casa senza far rumore, ritirandosi alle tre del mattino o anche oltre, perché
non poteva esserci altra spiegazione.
-Mai più
tardi come ieri sera, sia inteso- li rimproverò allora, alzandosi per andare a
sistemare il lavello. E per sottolineare il concetto, quando Ludovica grugnì,
passandole la tazza vuota e facendole segno di posarla per lei, se ne andò
stizzita in salotto intimandole di usare le sue di gambe, se ancora
funzionavano. Enrico semplicemente annuiva senza cognizione e continuò a
fissare il pavimento, come se stesse ascoltando una muta ramanzina di sua
madre, per i cinque minuti successivi. Prima di sparire nella sua stanza in
quel turbino di buoni sentimenti che quella mattina la animavano, Ludovica si
rivolse di nuovo a suo fratello, urlandogli quasi nelle orecchie.
-Allora?
Allora?-
Enrico
puntò su di lei gli occhi mezzi socchiusi, nello stesso modo in cui aveva fatto
il suo gattone poco prima. Solo che, si augurava Ludovica, Tabasco non aveva
ingurgitato quasi due litri di birra con tanto di cicchetti del whisky di
pessima qualità che Tamara teneva nascosto sotto la sua poltrona dal lenzuolo
multicolore.
-Allora
fottiti, Ludo!- scandì bene le parole, dimostrando che non aveva ancora perso
la facoltà di parlare. Non del tutto.
-Che
scorbutico. Ti è forse morto il gatto?-
Tabasco alzò
lo sguardo dalla tazza di Enrico, con gli occhi dilatati dalla paura, come se
avesse colto l’insinuazione. Ludovica, uscendo dalla cucina con le mani alzate,
si chiese quale dei due esseri fosse più intelligente. Quella palla di pelo
rossa che aveva ricominciato a bere il suo latte o il gatto.
-Scusa coso- concluse, rivolgendosi forse a tutti e due.
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-E
quindi, insomma, tu e Marta state assieme?-
Dede non la smetteva di cantilenare,
con gli occhi dolci, la stessa frase da quando era arrivato al garage di
Walter, dove si erano riuniti per provare qualche canzone per la jam session della sera successiva all’Hurly Burly. Walter accordava in tranquillità Erin, dall’altro lato della stanza piena di poster fino al
soffitto, e se anche aveva capito di cosa stavano confabulando, probabilmente
aveva deciso di non infierire ulteriormente sull’orgoglio già provato di
Ludovica. Una delle bacchette della batteria volò verso di lui, andando tanto
così dal colpirlo proprio dritto in mezzo alla fronte. Ludovica, borbottando
contro la sua mira pessima, si rifiutò comunque di rispondere.
-Andiamo,
prima o poi ce lo dovrai dire! Che succede se uno di noi due vuole provarci con
lei? E’ una questione di correttezza!- protestò, facendole un gestaccio per
quel tentato omicidio. Walter grugnì, forse in segno di assenso, mentre dava
un’occhiata alle sue partiture. Ludovica si limitò a legarsi i capelli in una
crocchia disordinata, mostrando il viso dal profilo sottile e, sbadatamente, il
suo collo. A Dede quel piccolo puntino rosso, proprio
sotto la mascella, sembrò non sfuggire.
-AH!-
saltò su allora, rizzandosi con la schiena e rotolando quasi giù dal vecchio
divano rosso pieno di toppe sul quale spesso si era addormentato, nei lunghi
pomeriggi d’estate.
-Guarda,
Walter, il segno del misfatto! Ci sono prove troppo evidenti, madame, lei è colpevole!-
Le
indicò con un gesto plateale il collo, intimandole di scostarsi lo scollo della camicetta grigia
che avrebbe avuto il compito di nasconderlo, mentre lei lasciava cadere
debolmente i capelli come se stesse davvero mettendo giù un paio di pistole
cariche dopo esser stata colta in fallo. Walter, a quelle parole, sembrò
interessarsi alla faccenda più che alla lucidatura della sua chitarra acustica
(il che era un avvenimento alquanto raro), avvicinandosi ai due roteando sulla
sedia girevole, con Erin ancora in grembo.
-Fa’ vedere- disse, col tono di un
ispettore sospettoso nell’atto di esaminare la scena del crimine. Ludovica
sbuffò allora più pesantemente, come un gatto infuriato, minacciando di non
avvicinarsi troppo. Aveva le orecchie rosse e cercava di non mettersi a ridere.
Se la copertura doveva saltare così miseramente, almeno le rimanesse un po’ del
suo orgoglio femminile!
-Non ti
faccio vedere proprio nulla, cominciamo a provare che è tardi- sentenziò,
allontanandosi verso la scrivania dove intendeva appollaiarsi col suo basso.
Raramente suonavano in piedi, forse solo durante le loro esibizioni, nonostante
per Ludovica sarebbe stato più professionale cantare senza piegarsi col busto
in avanti. Ma a nessuno era mai importato, in tutti quegli anni. Si lasciò
quindi cadere a gambe incrociate, lasciandone una penzolare mollemente da un
lato all’altro, fissando gli occhi sull’accordatura del suo strumento pur di
non soccombere ancora a quell’infima presa in giro. Stupida camicetta. Stupida
Marta che si divertiva a torturarle sempre la stessa zona di pelle. Stupida lei
che glielo lasciava fare ogni volta. Stupido fondotinta troppo scuro di sua
madre!
-Manca
Pier Davide- le ricordò allora Federico, seppur
avvicinandosi docilmente alla batteria al centro della stanza. Walter alzò le
spalle, informandoli che ormai era una questione di minuti. Il suo motorino di
certo non era in condizioni migliori del bolide di Dede,
che strisciava per le strade della città con la marmitta pericolosamente
piegata verso l’asfalto.
-Aspettiamolo,
va bene- concesse Ludovica, sempre con una mano ermeticamente attaccata al
collo. Federico le lanciò un’occhiatina divertita.
-E
smettetela di ridacchiare, okay? Mi fate salire i nervi quando fate così!-
sbottò.
-Ti
facciamo salire i nervi sempre e comunque- rettificò Federico, con il volto
angelico dietro i ciuffi biondi dei suoi lunghi capelli. Walter annuì con aria
saggia, facendo tintinnare le sue mille catenelle e ciondoli.
-E’ per
questo che ci adori- aggiunse. Dall’espressione funerea di Ludovica, dedussero
fosse meglio lasciar perdere e la conversazione deviò sull’ultima conquista di
Walter, con patetici accenni alla desertica vita sentimentale di Federico, che
proprio non riusciva a capire dove sbagliasse ogni volta. Ludovica, sorridendo
fra sé e lasciandosi un po’ andare, gli consigliò di essere più impulsivo. Come
aveva fatto lei il giorno prima, baciando Marta senza preavviso. Come aveva
fatto sul tetto di Tamara, lasciando finalmente uscire fuori tutte quelle
parole che aveva sempre voluto dirle. Aprendo uno scrigno ormai arrugginito,
forse mai neanche considerato, sepolto dentro di lei come un tesoro mille leghe
sottoterra, trovato da un abile cacciatore. Che senso avrebbe avuto tenerlo
chiuso ancora, sotto il tocco esperto e carezzevole di Marta? Era solo una
questione di tempo, come il ritardo di Pier Davide, prima che anche lei fosse
costretta ad affrontare i suoi sentimenti. Non poteva scappare per sempre. E
allora, sì, la sua impulsività, la sua rabbia repressa forse per una volta
avevano giocato un ruolo positivamente decisivo, spingendola oltre quella linea
di confine che lei e Marta fissavano con gli occhi appannati dalle lacrime da
un po’ troppo tempo. Da quando avevano sorpreso i loro corpi in reazioni
anomale, da quando si erano lasciate andare a queste senza la minima
considerazione razionale, pretendendo di poterne affrontare le conseguenze, il
giorno dopo, sempre con lo stesso cipiglio cinico. Era solo un passatempo. Tutte bugie. Era come se
avesse fatto pulizia nella propria anima, gettato via cartacce e scartoffie
piene di righe vuote, di parole che le ingombravano solo la mente senza
lasciarla libera di vagare in più innocenti fantasie. E ora fosse libera,
avesse scoperto dentro di sé un’immensa pianura dove si respirava un’aria
sublimata, senza quella sensazione di scoppiare che le opprimeva il petto ogni
volta che scivolava via dalle coperte di Marta e dalle sue braccia. Sentì che
il cuore prendeva a batterle con un ritmo diverso e un po’ se ne vergognò,
perché non era abituata a mostrare così palesemente i suoi stati d’animo. Era
sempre riuscita a controllare la ben che minima reazione, perché aveva paura di
mostrare il fianco e venir pesantemente pugnalata, se avesse lasciato le sue
sensazioni trasparire oltre la sua stessa pelle. Eppure non poteva impedire che
il cuore in petto le balzasse sempre più coraggiosamente, come a dirle di non
avere paura, che le sue emozioni non erano qualcosa da combattere. Erano la sua
stessa forza. Il motivo per cui quella mattina si era svegliata così allegra,
per cui ora sorrideva mentre accordava le corde arrugginite del basso, per cui
l’indomani sarebbe andata a scuola senza pensieri negativi per la testa, ma
avrebbe camminato per le strade vuote, alle sette e mezza del mattino, solo per
accompagnare Marta nella sua passeggiata mattutina. Avrebbe voluto che fosse lì
con lei a darle sicurezza, lo avrebbe voluto tanto. Era così difficile
accettare quell’elettrica condizione di non avere più nulla sotto controllo.
Difficile ed eccitante nello stesso momento, come correre su una strada vuota,
ad alta velocità, coi freni poco oleati. Pier Davide li raggiunse poco dopo e
tirò fuori la sua chitarra già accordata, scusandosi per il ritardo. Come
sospettavano, il suo povero mezzo di trasporto lo aveva lasciato a piedi nel
mezzo del viale principale e aveva dovuto trascinarselo fino al meccanico più
vicino per fargli dare finalmente un’occhiata. Ludovica intercettò uno sguardo
sornione fra Dede e Walter, ma non sembrò
importarsene più di tanto. Alzò le spalle sconfitta, in modo che fosse visibile
per tutti e tre che oramai si era arresa.
-Quindi
tu e Marta state assieme?- saltò su Pier Davide, quando gli sembrò di aver
capito l’oggetto della discussione muta. Ludovica fece cadere pesantemente la
testa sul petto, sospirando in modo teatrale. Si alzò dalla scrivania, si tolse
la tracolla del basso, poggiandolo a terra con cautela, e si fermò al centro
della stanza con aria solenne.
-Ahimè,
ragazzi, compagni in questa lunga avventura di libertà, temo di essere stata
presa all’amo anche io. Per cui, niente più commenti sconci sulle tipe che
vengono a guardarci suonare. Mai più-
declamò, con tanto di mano sul petto. Walter ne sembrò sinceramente felice,
forse perché calcolava che così avrebbe avuto ancora più ragazze con gli occhi
puntati su di lui (Ludovica aveva sempre avuto il suo fascino, su questo non si
discuteva). Pier Davide sembrò illuminarsi come se solo ora avesse capito il
significato di tanti, piccoli dettagli slegati fra di loro. Poco mancava che
alzasse il dito indice, esclamando Eureka!
Federico fu l’unico ad alzarsi dal suo posto, lasciando sulla batteria le sue
bacchette, per darle un buffetto sui capelli rossi e tentare di abbracciarla
per congratularsi. Ludovica si trattenne dal mollargli l’ennesimo ceffone,
perché quel ragazzo era così tenero.
-Si, lo
so. Grazie, grazie. Sono una grande, ho preso la ragazza migliore in
circolazione, non c’è bisogno di dirlo- sdrammatizzò, ma dentro di lei sapeva
che non era vero. Lei aveva preso la
ragazza migliore che potesse esserci per lei, in assoluto. Marta, la sua ragazza.
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Si
trovarono quella sera, dopo i compiti per il giorno dopo, nel vicoletto dopo la
strada di Marta, dove aveva il suo piccolo garage. Ludovica era uscita a piedi,
con solo indosso la sua t-shirt grigia dal collo largo che indossava quando era
a casa e il suo paio di jeans strappati in più punti. La dannata camicetta l’aveva
gettata sul fondo dell’armadio. Non faceva ancora caldo, quella primavera si
mostrava più restia a concedere a loro poveri studenti un po’ di sana vitamina
A, ma l’aria della sera era sufficientemente tiepida e Ludovica se ne beava
placidamente, mentre camminava lungo le vie semi deserte. C’era solo il
macellaio, in fondo alla sua strada, che si accingeva a chiudere bottega, e un
paio di muratori a languire ai tavolini del piccolo bar della rotonda dopo il
loro duro turno giornaliero. Camminava con le mani in tasca perché se le
sentiva sudare ad ogni passo di più e cercava di asciugarsele alla bell’e
meglio senza farsi prendere dal panico. Trovò Marta che ciondolava fuori sui gradini
di pietra dura, con la bicicletta nera smaltata di traverso sulle gambe mentre
stava sistemando i freni ormai andati. Aveva i capelli scuri a coprirle il
viso, qualche macchia nera sulla camicia di jeans e quell’aria da donna pratica
che proprio non le si addiceva. Cercava goffamente di ricollegare un tubicino
nero al manubrio, a terra aveva lasciato una varietà di chiavi inglesi e altri
arnesi che Ludovica non immaginava come avrebbero potuto aiutarla. Le si
avvicinò con un sorrisino, aveva bisogno di una mano. Quando glielo chiese,
Marta rispose stoicamente che ce la faceva da sola.
-Questa
bici peserà il doppio di te, con tutte le marce che ci hai fatto montare sopra
… da’ qua- le intimò bonariamente, piegandosi sulle ginocchia per arrivare
all’altezza del suo viso. Quando Marta alzò lo sguardo dal suo indegno lavoro
manuale, i suoi occhi gialli alla luce della sera si fissarono nei suoi come
due pietre, immobili. Ludovica in seguito non poté dire se vi avesse letto
qualcosa, se avesse avuto l’occasione di presentire da quello sguardo il bacio
che poi ne seguì, perché il tempo fu breve, ma a lei sembrò fluire come
curiosamente solidificato sulla sua pelle. Come se si stesse morbidamente
affossando in delle calde, accoglienti sabbie mobili pronte ad inghiottire ogni
parte di lei. In effetti, era quella l’impressione che le aveva sempre dato
Marta. E il fatto che non fosse ancora riuscita a toccare il suo fondo,
l’impossibilità che aveva di risalire da quello spirito immenso, era una delle
cose più meravigliose. Le labbra di Marta furono lievi sulle sue, non si curò
nemmeno se qualcuno le stesse guardando, dalle finestre dei palazzi
circostanti. Fu troppo breve. Nessuno avrebbe potuto coglierne nemmeno l’ombra.
Era un qualcosa di esclusivamente loro e Ludovica lo capì subito, per questo
rimase immobile, lasciando a lei l’arbitrio di dosare quel gesto.
-Ce la
faccio anche da sola, grazie- replicò candidamente, scostandosi una ciocca dal
viso e ripiegandosela, con un gesto così delicato che Ludovica fu tentata di
insistere ancora. Aveva delle mani così delicate, la pelle del dorso sempre
morbida, le dita lunghe e le unghie ben curate come quando suonava il
pianoforte, da bambina. Anche il suo viso era pulito, lucente, rifletteva a
pieno i suoi modi eleganti, posati. Ludovica si sedette senza parlare accanto a
lei, giocherellando coi fili.
-Vedi,
questo va qui- le indicò comunque, guidando il suo sguardo verso l’altro capo
del manubrio –altrimenti non funzioneranno mai, questi freni-
Marta si
accigliò leggermente, dandosi della sciocca. Il sole stava ritirando il suo
ultimo raggio, dietro i tetti rossi di fronte a loro, e lo guardarono mentre
chiudeva il suo sipario nella luce rarefatta, uscendo di scena come un celebre
attore avvezzo alle glorie.
-Bello
quando comincia a tramontare tardi, vero? Ci siamo quasi- sospirò Marta, col
naso all’insù.
-Per
l’estate dici?-
-Per
l’estate, per l’aria soffocante del pomeriggio, per le sere fresche. Questa
sembra una sera d’estate-
Ludovica
fu d’accordo. La primavera aveva già i suoi araldi appostati sui rami delle
magnolie del viale, potevano sentire il frusciare delle fronte e qualche
rondine che già stormiva, mentre tornava al suo nido.
-Fra
poco escono le stelle. Rimani con me?- le chiese. Marta sorrise, con quel suo
rossore sempre ad accompagnare ogni gesto con cui si rivolgeva a Ludovica.
-Solo se
mi indichi le costellazioni, genio-
Ludovica
le diede uno spintone e quella, ridendo, per poco non capitolò sotto il peso
della bicicletta.