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Autore: Deirbhile    14/05/2014    1 recensioni
Un piccolo locale squallido e dall'odore di alcol stantio, un barista un po' acido e un gruppo di diciottenni pieni di sogni e senza speranza. Un gruppo musicale, qualche amore, fumo di sigaretta e di chissà cos'altro, esperienze da fare e da dimenticare.
Ludovica, la bassista ermetica e irraggiungibile, suo fratello gemello Enrico, dislessico e in conflitto col mondo, Marta, l'aspirante scrittrice bisognosa di sicurezze, Giorgio, il dongiovanni senza radici. Gli anni Novanta e una grande voglia di evadere da tutto, con i sentimenti che si mescolano a vecchie canzoni rock.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Time and again I've longed for adventure,
Something to make my heart beat the faster.
What did I long for? I never really knew.
Finding your love I've found my adventure,
Touching your hand, my heart beats the faster,
All that I want in all of this world is you
.”

Ella Fitzgerald, “All things you are”

Schizzò fuori dal letto come una scheggia, gettando di lato le coperte aggrovigliate disordinatamente e camminando scalza verso la cucina, grattandosi la fronte, lì dove una zanzara l’aveva punta. Trotterellò lungo il corridoio canticchiando una vecchia canzone di Ella Fitzgerald che le era venuta in mente la sera prima.

-Enri, buongiorno!- urlò, colpendo la sua porta e proseguendo quasi a saltelli, stiracchiandosi di tanto in tanto e facendo grossi sbadigli. Non aveva mai dormito così bene come quella notte e mai sogni più sereni l’avevano accolta e consolata fra le loro braccia seducenti e oblianti. Non che ora avesse bisogno di essere consolata, tutt’altro. Aveva bisogno di prendere l’auto, mettere della buona musica, possibilmente qualcosa che le trasmettesse quell’iperattività frenetica che sentiva nelle vene dalla sera precedente, e correre per la città suonando a tutto spiano, svegliando tutti quelli che ancora dormivano a quell’ora di domenica mattina, passare di fronte alla chiesa del quartiere e gridare al cielo un bel vaffanculo! solo per il gusto di beccarsi gli sguardi scioccati delle anziane signore che sciamavano in piazza per la messa di mezzogiorno. Ovviamente, tutto questo sarebbe stato più divertente se fatto con Marta al suo fianco.

-Cristo mio, Ludo, ma che cazzo bussi che sono le otto e mezza?- biascicò infastidito Enrico dalla stanza, con la voce ovattata di chi è si è appena addormentato dopo una notte di divertimenti più sfrenati. Probabilmente, la sbornia era stata più devastante del previsto. Tutta colpa di quella roba che Tamara aveva messo dentro gli alcolici a loro insaputa. Ora che ci pensava, anche Ludovica non credeva di aver smaltito completamente quella sottospecie di droga sintetica che quella pazzoide aveva lasciato cadere nella sua birra, ma si diresse volteggiando verso la cucina senza farci caso. Antonia sedeva placidamente sul divanetto arancione, guardando il notiziario mattutino con occhi distratti, bonari.

-Buongiorno cara- mormorò fra un sorso e l’altro di caffè, volgendole uno sguardo sorridente. Ludovica rispose con un sorrisone, versandosi anche lei del caffè e addentando una delle ciambelle che sua madre comprava, premurosamente, tutte le domeniche mattina.

-A te-

Mangiò con avidità, sentendo lo stomaco, inacidito dalle porcherie che aveva ingerito la notte precedente, brontolare grato al primo pasto decente dell’intero fine settimana. Nascose per bene coi capelli quella macchietta rosa che Marta le aveva lasciato sul collo appena dopo la loro conversazione sul tetto, piegando la testa di lato sperando che sua madre non la notasse, e ingollò il caffè, non riuscendo a stare ferma sulla sedia. Tutto quello che era successo la sera prima, dio, l’aveva resa elettrica. Agguantò Tabasco, costringendolo a farsi fare le coccole ed evitando per poco una sua zampata poco amichevole.

-Comincio a pensare che ti odi, Ludo- ridacchiò Antonia,cambiando canale per vedere il notiziario delle undici e mezza. Lei alzò le spalle, gettando al gattone un’occhiata piena di astio e mescolando ora i cereali nel latte. Aveva una fame da paura.

-Questo è il compenso per averti salvato dal metronomo, bravo Tabasco!- lo redarguì e sentì lo sguardo sconcertato di sua madre su di sé. Probabilmente aveva gli occhi ancora un po’ rossi, colpa delle canne che si era fumato Walter. Ovviamente, aveva dovuto prenderne due boccate, tanto il garage già aleggiava di marijuana, tanto valeva...

-Ma si, Tabasco ha paura del metronomo. Disgraziato- sibilò, quando il gatto si piazzò di fronte a lei, fissandola con quegli occhi ipnotici per indurla a lasciargli un po’ di latte.

-Come dici tu- concesse Antonia, cautamente. La televisione trasmetteva le ultime notizie e Ludovica ascoltò con interesse le prime indiscrezioni sugli esami di stato di quell’anno.

-Dici che quest’anno è latino o greco?- domandò. Antonia storse la bocca, pensierosa.

-L’anno scorso è stato greco, quindi immagino sarà latino. In qualunque caso andrai bene, questo è certo-

Ludovica fece di sì con la testa, gongolando leggermente. In latino tutto sommato se la cavava, anche se era Marta la regina indiscussa delle subordinate ciceroniane e delle ellissi di Tacito. Le avrebbe chiesto aiuto, avrebbero ripassato insieme. O forse no, non era il caso. Il caldo di giugno avrebbe giocato brutti scherzi. Si divertì ad immaginarsi con lei in spiaggia, poche settimane dopo la prova scritta, a brindare al suo cento, perché Marta era una ragazza così brillante che non c’erano dubbi sulla sua buona riuscita. Forse la matematica non era il suo forte, ma sarebbe stata più che volenterosa ad aiutarla con le equazioni goniometriche. Quando Marta non riusciva in una cosa, comunque, era insopportabile. Borbottava fra sé, ignorava chiunque le stesse intorno, e come una caricatura se ne usciva con le esclamazioni più patetiche e drammatiche possibili. Mio dio, che palle! Era capitato di pensare a Ludovica. Ma questo quando facevano solo sesso. Ora era sicura di aver sempre adorato anche quel suo lato spaventosamente maniacale. In qualunque caso, le faceva disconnettere il cervello. Pensò alla notte prima e un brivido prepotente le attraversò la schiena come se fosse ancora lì su quel tetto, con Marta addosso.

-Ludo, ci sei?-

Si girò verso sua madre, sospirando di si. Finì di mangiare i cereali mentre Tabasco si leccava le zampe, altezzoso, e gli lanciò più volte sguardi di sfida. Che se lo venisse a prendere con le sue zampe, il latte! Probabilmente Antonia stava pensando di far un test del palloncino ad entrambi i figli, visto che Enrico si era appena trascinato in cucina con la faccia più bianca di sempre, ma Ludovica non se ne curò poi tanto. Doveva uscire al più presto, prendere la macchina e sgommare per le strade.

-Erni, mi accompagni se faccio un giro in macchina?- gli chiese, ma suo fratello non diede segni di vita, limitandosi a fissare la sua tazza di cereali accanto alla mamma, sul divano. Tabasco gli era saltato addosso e ora stava leccando tutto il bordo della sua colazione, mentre sembrava non accorgersene. Seppur stava avendo una minima percezione di ciò che gli accadeva attorno, non sembrava importargliene poi molto, dietro un paio di occhi appannati e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni.

-Ma si, fare un giro è una buona idea. Non hai una buona cera stamattina- disse apprensiva Antonia, passandogli una mano sulle guance per appurare se avesse la febbre o meno e cercando di lisciargli due ciocche che, ai lati della fronte, sembravano le orecchie di Tabasco, tanto erano irte e rosse. Alla fine, la povera donna, gettando uno sguardo apprensivo ai suoi gemelli, dovette concludere che avevano semplicemente trovato un modo per aprire la porta di casa senza far rumore, ritirandosi alle tre del mattino o anche oltre, perché non poteva esserci altra spiegazione.

-Mai più tardi come ieri sera, sia inteso- li rimproverò allora, alzandosi per andare a sistemare il lavello. E per sottolineare il concetto, quando Ludovica grugnì, passandole la tazza vuota e facendole segno di posarla per lei, se ne andò stizzita in salotto intimandole di usare le sue di gambe, se ancora funzionavano. Enrico semplicemente annuiva senza cognizione e continuò a fissare il pavimento, come se stesse ascoltando una muta ramanzina di sua madre, per i cinque minuti successivi. Prima di sparire nella sua stanza in quel turbino di buoni sentimenti che quella mattina la animavano, Ludovica si rivolse di nuovo a suo fratello, urlandogli quasi nelle orecchie.

-Allora? Allora?-

Enrico puntò su di lei gli occhi mezzi socchiusi, nello stesso modo in cui aveva fatto il suo gattone poco prima. Solo che, si augurava Ludovica, Tabasco non aveva ingurgitato quasi due litri di birra con tanto di cicchetti del whisky di pessima qualità che Tamara teneva nascosto sotto la sua poltrona dal lenzuolo multicolore.

-Allora fottiti, Ludo!- scandì bene le parole, dimostrando che non aveva ancora perso la facoltà di parlare. Non del tutto.

-Che scorbutico. Ti è forse morto il gatto?-

Tabasco alzò lo sguardo dalla tazza di Enrico, con gli occhi dilatati dalla paura, come se avesse colto l’insinuazione. Ludovica, uscendo dalla cucina con le mani alzate, si chiese quale dei due esseri fosse più intelligente. Quella palla di pelo rossa che aveva ricominciato a bere il suo latte o il gatto.

-Scusa coso- concluse, rivolgendosi forse a tutti e due.

*************************************

-E quindi, insomma, tu e Marta state assieme?-

Dede non la smetteva di cantilenare, con gli occhi dolci, la stessa frase da quando era arrivato al garage di Walter, dove si erano riuniti per provare qualche canzone per la jam session della sera successiva all’Hurly Burly. Walter accordava in tranquillità Erin, dall’altro lato della stanza piena di poster fino al soffitto, e se anche aveva capito di cosa stavano confabulando, probabilmente aveva deciso di non infierire ulteriormente sull’orgoglio già provato di Ludovica. Una delle bacchette della batteria volò verso di lui, andando tanto così dal colpirlo proprio dritto in mezzo alla fronte. Ludovica, borbottando contro la sua mira pessima, si rifiutò comunque di rispondere.

-Andiamo, prima o poi ce lo dovrai dire! Che succede se uno di noi due vuole provarci con lei? E’ una questione di correttezza!- protestò, facendole un gestaccio per quel tentato omicidio. Walter grugnì, forse in segno di assenso, mentre dava un’occhiata alle sue partiture. Ludovica si limitò a legarsi i capelli in una crocchia disordinata, mostrando il viso dal profilo sottile e, sbadatamente, il suo collo. A Dede quel piccolo puntino rosso, proprio sotto la mascella, sembrò non sfuggire.

-AH!- saltò su allora, rizzandosi con la schiena e rotolando quasi giù dal vecchio divano rosso pieno di toppe sul quale spesso si era addormentato, nei lunghi pomeriggi d’estate.

-Guarda, Walter, il segno del misfatto! Ci sono prove troppo evidenti, madame, lei è colpevole!-

Le indicò con un gesto plateale il collo, intimandole  di scostarsi lo scollo della camicetta grigia che avrebbe avuto il compito di nasconderlo, mentre lei lasciava cadere debolmente i capelli come se stesse davvero mettendo giù un paio di pistole cariche dopo esser stata colta in fallo. Walter, a quelle parole, sembrò interessarsi alla faccenda più che alla lucidatura della sua chitarra acustica (il che era un avvenimento alquanto raro), avvicinandosi ai due roteando sulla sedia girevole, con Erin ancora in grembo.

-Fa’ vedere- disse, col tono di un ispettore sospettoso nell’atto di esaminare la scena del crimine. Ludovica sbuffò allora più pesantemente, come un gatto infuriato, minacciando di non avvicinarsi troppo. Aveva le orecchie rosse e cercava di non mettersi a ridere. Se la copertura doveva saltare così miseramente, almeno le rimanesse un po’ del suo orgoglio femminile!

-Non ti faccio vedere proprio nulla, cominciamo a provare che è tardi- sentenziò, allontanandosi verso la scrivania dove intendeva appollaiarsi col suo basso. Raramente suonavano in piedi, forse solo durante le loro esibizioni, nonostante per Ludovica sarebbe stato più professionale cantare senza piegarsi col busto in avanti. Ma a nessuno era mai importato, in tutti quegli anni. Si lasciò quindi cadere a gambe incrociate, lasciandone una penzolare mollemente da un lato all’altro, fissando gli occhi sull’accordatura del suo strumento pur di non soccombere ancora a quell’infima presa in giro. Stupida camicetta. Stupida Marta che si divertiva a torturarle sempre la stessa zona di pelle. Stupida lei che glielo lasciava fare ogni volta. Stupido fondotinta troppo scuro di sua madre!

-Manca Pier Davide- le ricordò allora Federico, seppur avvicinandosi docilmente alla batteria al centro della stanza. Walter alzò le spalle, informandoli che ormai era una questione di minuti. Il suo motorino di certo non era in condizioni migliori del bolide di Dede, che strisciava per le strade della città con la marmitta pericolosamente piegata verso l’asfalto.

-Aspettiamolo, va bene- concesse Ludovica, sempre con una mano ermeticamente attaccata al collo. Federico le lanciò un’occhiatina divertita.

-E smettetela di ridacchiare, okay? Mi fate salire i nervi quando fate così!- sbottò.

-Ti facciamo salire i nervi sempre e comunque- rettificò Federico, con il volto angelico dietro i ciuffi biondi dei suoi lunghi capelli. Walter annuì con aria saggia, facendo tintinnare le sue mille catenelle e ciondoli.

-E’ per questo che ci adori- aggiunse. Dall’espressione funerea di Ludovica, dedussero fosse meglio lasciar perdere e la conversazione deviò sull’ultima conquista di Walter, con patetici accenni alla desertica vita sentimentale di Federico, che proprio non riusciva a capire dove sbagliasse ogni volta. Ludovica, sorridendo fra sé e lasciandosi un po’ andare, gli consigliò di essere più impulsivo. Come aveva fatto lei il giorno prima, baciando Marta senza preavviso. Come aveva fatto sul tetto di Tamara, lasciando finalmente uscire fuori tutte quelle parole che aveva sempre voluto dirle. Aprendo uno scrigno ormai arrugginito, forse mai neanche considerato, sepolto dentro di lei come un tesoro mille leghe sottoterra, trovato da un abile cacciatore. Che senso avrebbe avuto tenerlo chiuso ancora, sotto il tocco esperto e carezzevole di Marta? Era solo una questione di tempo, come il ritardo di Pier Davide, prima che anche lei fosse costretta ad affrontare i suoi sentimenti. Non poteva scappare per sempre. E allora, sì, la sua impulsività, la sua rabbia repressa forse per una volta avevano giocato un ruolo positivamente decisivo, spingendola oltre quella linea di confine che lei e Marta fissavano con gli occhi appannati dalle lacrime da un po’ troppo tempo. Da quando avevano sorpreso i loro corpi in reazioni anomale, da quando si erano lasciate andare a queste senza la minima considerazione razionale, pretendendo di poterne affrontare le conseguenze, il giorno dopo, sempre con lo stesso cipiglio cinico. Era solo un passatempo. Tutte bugie. Era come se avesse fatto pulizia nella propria anima, gettato via cartacce e scartoffie piene di righe vuote, di parole che le ingombravano solo la mente senza lasciarla libera di vagare in più innocenti fantasie. E ora fosse libera, avesse scoperto dentro di sé un’immensa pianura dove si respirava un’aria sublimata, senza quella sensazione di scoppiare che le opprimeva il petto ogni volta che scivolava via dalle coperte di Marta e dalle sue braccia. Sentì che il cuore prendeva a batterle con un ritmo diverso e un po’ se ne vergognò, perché non era abituata a mostrare così palesemente i suoi stati d’animo. Era sempre riuscita a controllare la ben che minima reazione, perché aveva paura di mostrare il fianco e venir pesantemente pugnalata, se avesse lasciato le sue sensazioni trasparire oltre la sua stessa pelle. Eppure non poteva impedire che il cuore in petto le balzasse sempre più coraggiosamente, come a dirle di non avere paura, che le sue emozioni non erano qualcosa da combattere. Erano la sua stessa forza. Il motivo per cui quella mattina si era svegliata così allegra, per cui ora sorrideva mentre accordava le corde arrugginite del basso, per cui l’indomani sarebbe andata a scuola senza pensieri negativi per la testa, ma avrebbe camminato per le strade vuote, alle sette e mezza del mattino, solo per accompagnare Marta nella sua passeggiata mattutina. Avrebbe voluto che fosse lì con lei a darle sicurezza, lo avrebbe voluto tanto. Era così difficile accettare quell’elettrica condizione di non avere più nulla sotto controllo. Difficile ed eccitante nello stesso momento, come correre su una strada vuota, ad alta velocità, coi freni poco oleati. Pier Davide li raggiunse poco dopo e tirò fuori la sua chitarra già accordata, scusandosi per il ritardo. Come sospettavano, il suo povero mezzo di trasporto lo aveva lasciato a piedi nel mezzo del viale principale e aveva dovuto trascinarselo fino al meccanico più vicino per fargli dare finalmente un’occhiata. Ludovica intercettò uno sguardo sornione fra Dede e Walter, ma non sembrò importarsene più di tanto. Alzò le spalle sconfitta, in modo che fosse visibile per tutti e tre che oramai si era arresa.

-Quindi tu e Marta state assieme?- saltò su Pier Davide, quando gli sembrò di aver capito l’oggetto della discussione muta. Ludovica fece cadere pesantemente la testa sul petto, sospirando in modo teatrale. Si alzò dalla scrivania, si tolse la tracolla del basso, poggiandolo a terra con cautela, e si fermò al centro della stanza con aria solenne.

-Ahimè, ragazzi, compagni in questa lunga avventura di libertà, temo di essere stata presa all’amo anche io. Per cui, niente più commenti sconci sulle tipe che vengono a guardarci suonare. Mai più- declamò, con tanto di mano sul petto. Walter ne sembrò sinceramente felice, forse perché calcolava che così avrebbe avuto ancora più ragazze con gli occhi puntati su di lui (Ludovica aveva sempre avuto il suo fascino, su questo non si discuteva). Pier Davide sembrò illuminarsi come se solo ora avesse capito il significato di tanti, piccoli dettagli slegati fra di loro. Poco mancava che alzasse il dito indice, esclamando Eureka! Federico fu l’unico ad alzarsi dal suo posto, lasciando sulla batteria le sue bacchette, per darle un buffetto sui capelli rossi e tentare di abbracciarla per congratularsi. Ludovica si trattenne dal mollargli l’ennesimo ceffone, perché quel ragazzo era così tenero.

-Si, lo so. Grazie, grazie. Sono una grande, ho preso la ragazza migliore in circolazione, non c’è bisogno di dirlo- sdrammatizzò, ma dentro di lei sapeva che non era vero. Lei aveva preso la ragazza migliore che potesse esserci per lei, in assoluto. Marta, la sua ragazza. 

************************************************

Si trovarono quella sera, dopo i compiti per il giorno dopo, nel vicoletto dopo la strada di Marta, dove aveva il suo piccolo garage. Ludovica era uscita a piedi, con solo indosso la sua t-shirt grigia dal collo largo che indossava quando era a casa e il suo paio di jeans strappati in più punti. La dannata camicetta l’aveva gettata sul fondo dell’armadio. Non faceva ancora caldo, quella primavera si mostrava più restia a concedere a loro poveri studenti un po’ di sana vitamina A, ma l’aria della sera era sufficientemente tiepida e Ludovica se ne beava placidamente, mentre camminava lungo le vie semi deserte. C’era solo il macellaio, in fondo alla sua strada, che si accingeva a chiudere bottega, e un paio di muratori a languire ai tavolini del piccolo bar della rotonda dopo il loro duro turno giornaliero. Camminava con le mani in tasca perché se le sentiva sudare ad ogni passo di più e cercava di asciugarsele alla bell’e meglio senza farsi prendere dal panico. Trovò Marta che ciondolava fuori sui gradini di pietra dura, con la bicicletta nera smaltata di traverso sulle gambe mentre stava sistemando i freni ormai andati. Aveva i capelli scuri a coprirle il viso, qualche macchia nera sulla camicia di jeans e quell’aria da donna pratica che proprio non le si addiceva. Cercava goffamente di ricollegare un tubicino nero al manubrio, a terra aveva lasciato una varietà di chiavi inglesi e altri arnesi che Ludovica non immaginava come avrebbero potuto aiutarla. Le si avvicinò con un sorrisino, aveva bisogno di una mano. Quando glielo chiese, Marta rispose stoicamente che ce la faceva da sola.

-Questa bici peserà il doppio di te, con tutte le marce che ci hai fatto montare sopra … da’ qua- le intimò bonariamente, piegandosi sulle ginocchia per arrivare all’altezza del suo viso. Quando Marta alzò lo sguardo dal suo indegno lavoro manuale, i suoi occhi gialli alla luce della sera si fissarono nei suoi come due pietre, immobili. Ludovica in seguito non poté dire se vi avesse letto qualcosa, se avesse avuto l’occasione di presentire da quello sguardo il bacio che poi ne seguì, perché il tempo fu breve, ma a lei sembrò fluire come curiosamente solidificato sulla sua pelle. Come se si stesse morbidamente affossando in delle calde, accoglienti sabbie mobili pronte ad inghiottire ogni parte di lei. In effetti, era quella l’impressione che le aveva sempre dato Marta. E il fatto che non fosse ancora riuscita a toccare il suo fondo, l’impossibilità che aveva di risalire da quello spirito immenso, era una delle cose più meravigliose. Le labbra di Marta furono lievi sulle sue, non si curò nemmeno se qualcuno le stesse guardando, dalle finestre dei palazzi circostanti. Fu troppo breve. Nessuno avrebbe potuto coglierne nemmeno l’ombra. Era un qualcosa di esclusivamente loro e Ludovica lo capì subito, per questo rimase immobile, lasciando a lei l’arbitrio di dosare quel gesto.

-Ce la faccio anche da sola, grazie- replicò candidamente, scostandosi una ciocca dal viso e ripiegandosela, con un gesto così delicato che Ludovica fu tentata di insistere ancora. Aveva delle mani così delicate, la pelle del dorso sempre morbida, le dita lunghe e le unghie ben curate come quando suonava il pianoforte, da bambina. Anche il suo viso era pulito, lucente, rifletteva a pieno i suoi modi eleganti, posati. Ludovica si sedette senza parlare accanto a lei, giocherellando coi fili.

-Vedi, questo va qui- le indicò comunque, guidando il suo sguardo verso l’altro capo del manubrio –altrimenti non funzioneranno mai, questi freni-

Marta si accigliò leggermente, dandosi della sciocca. Il sole stava ritirando il suo ultimo raggio, dietro i tetti rossi di fronte a loro, e lo guardarono mentre chiudeva il suo sipario nella luce rarefatta, uscendo di scena come un celebre attore avvezzo alle glorie.

-Bello quando comincia a tramontare tardi, vero? Ci siamo quasi- sospirò Marta, col naso all’insù.

-Per l’estate dici?-

-Per l’estate, per l’aria soffocante del pomeriggio, per le sere fresche. Questa sembra una sera d’estate-

Ludovica fu d’accordo. La primavera aveva già i suoi araldi appostati sui rami delle magnolie del viale, potevano sentire il frusciare delle fronte e qualche rondine che già stormiva, mentre tornava al suo nido.

-Fra poco escono le stelle. Rimani con me?- le chiese. Marta sorrise, con quel suo rossore sempre ad accompagnare ogni gesto con cui si rivolgeva a Ludovica.

-Solo se mi indichi le costellazioni, genio-

Ludovica le diede uno spintone e quella, ridendo, per poco non capitolò sotto il peso della bicicletta.

  
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