if you are afraid, give more.
if you are alive, give more now.
everybody here has seams and scars.
so what. level up.
La
gente rumoreggiava. Il 221B di Baker Street aveva trovato un nuovo
inquilino. Si trattava di una giovane donna minuta, graziosa e dai modi
accomodanti.
Sherlock taceva. Molly era a tutti gli effetti una giovane
donna dalle indubbie attrattive e dai modi che, tuttavia, lui avrebbe
definito elastici più che arrendevoli. (Non avrebbe
offeso l’intelligenza di lei, esponendoli in modo diverso. Molly
aveva sempre avuto l’intelligenza di capire ciò che andava
fatto per il meglio. Non si era mai tirata indietro, anche quando
significava sporcarsi le mani.)
Ma questo era stato prima.
Nel dopo che era ora, Molly era una giovane donna spezzata e inquieta,
i cui occhi vagavano nello spazio senza realmente osservarlo,
disattenti alla realtà che la circondava, vuoti specchi
deformanti di ciò che riflettevano.
Aveva avuto un sorriso e uno sguardo, Molly, che non aveva più.
Non era rimasta che l’ossatura sporgente e aguzza degli zigomi;
nulla della morbidezza.
Molly non parlava. Non ingeriva cibi solidi. Prima di cedere al sonno
per sfinimento, fissava per ore il soffitto senza battere ciglio. Si
rifiutava di dormire senza una fonte di luce di complemento –
doveva essere blu. Non azzurra, non gialla, non bianca. Cominciava a urlare altrimenti.
(“Le cose non possono continuare così. Ti rifiuti di guardare in faccia la realtà.”
Erano tutti lì, stretti nello spazio esiguo della cucina del 221A.
Mrs. Hudson – scavata e con qualche capello bianco. Appuntamento dal parrucchiere saltato.
Lestrade – aveva preso l’abitudine di bere un bicchiere di
scotch ogni sera, prima di andare a letto. Il vizio gli aveva
già appesantito la linea della mascella.
Mary – Annie disturbava il riposo notturno per le poppate.
John - ingrigito, stanco, con cerchi viola sotto le palpebre.
Conservava il cipiglio, il timbro di voce e il portamento marziale.
“Molly ha bisogno di assistenza e delle cure mediche adeguate. Ha
subito un trauma e così tu, anche se ti rifiuti di ammetterlo.
Non che serva. Basta guardarti. Hai un aspetto orribile.”
Era lui il portavoce.
Molly ha bisogno di me. Le parole gli rimasero intrappolate in gola. Un pensiero banale, così come lo fu il seguente. Glielo devo.
Mary stringeva Annie tra le
braccia, la testa fragile e minuscola poggiata contro la sua spalla,
una mano a carezzarle la schiena e a sorreggere la nuca. Non aveva
fatto commenti. Non era da lei sprecare il fiato e le parole.
Sollevò il viso e lo guardò. Soltanto uno sguardo, ma fu
abbastanza.
Mary Watson, la donna che accettava a priori.
John Watson, l’uomo che capiva e passava oltre, ma che aveva
bisogno del tempo e degli spazi adeguati per riuscire a farlo. Che
perdonava, ma non dimenticava.
“No”, disse Sherlock.
Fu l’inizio della fine.)
*
Molly Hooper scomparve il 20 marzo 2014 alle 16 e 57.
La telecamera a circuito chiuso dell’obitorio si oscurò per tre minuti. Bastarono.
Lui l’avrebbe ritrovata una settimana più tardi, dopo aver
risolto la caccia agli indizi che Moriarty aveva disseminato per
Londra.
Il primo giorno, Sherlock si spostò velocemente in un auto in
borghese della polizia, impartendo ordini scritti a John tramite sms,
un auricolare all’orecchio.
All’altro capo, con voce suadente, Moriarty raccontava una storia che Sherlock non ascoltava. (“Nella mitologia persiana, Jamshid, il re della Persia, ascese al trono in questo giorno, lo sapevi? Non ti sembra degno di me?”)
Era impegnato a cogliere i rumori in sottofondo, la voce di donna che gridava, il rumore della frusta.
Contò le frustate.
“L’equinozio. Hai solo
questo giorno, Sherlock. Poi per Molly-Mouse comincerà una lunga
notte da incubo, di quelle polari che durano mesi e mesi e mesi. E tu
non vuoi questo per il piccolo topolino, vero? Certo che no.
Perché lei conta più di chiunque altro.”
Sherlock trovò Molly Hooper nel bunker sotterraneo di una
magione abbandonata nella campagna, a sette miglia da Lancaster.
Aveva lividi e piaghe medicate con cura. (“Non sono un tipo
abitudinario, ma quando trovo un nuovo giocattolo cerco di non romperlo
subito, di far durare il divertimento più che posso.”)
La verità era che non sapeva cosa Moriarty le avesse fatto. Ogni
indizio della scena del crimine era stato portato via o lavato. Per
lasciarlo crogiolare nell’incertezza, nell’indeterminato,
con lo scopo di farlo impazzire.
Ogni oggetto poteva essere stato usato - era stato usato – e poi ripulito.
Sherlock aveva il compito di ricostruire i peggiori scenari. Peggio: di
immaginarli, anche se avrebbero potuto non essere reali.
Era stata torturata.
Era stata legata con corde e manette e catene, nei modi più
fantasiosi che una mente squilibrata potesse concepire. Su un letto di
spine, su una tavola inchiodata, sul muro di pietra di una cella
attrezzata in modo da essere riproduzione fedele di una medievale.
Era stata chiusa in un sarcofago insieme ai topi, una Vergine di Ferro senza spuntoni.
Era stata marchiata a fuoco. Era stata, poteva essere stata.
Solo una cosa era certa: non era stata drogata. Era stata lucida tutto il tempo. Sette giorni.
Quando infine la trovò, (troppo tardi. No, non era mai troppo tardi.)
John gli era alle calcagna, espresse con un verso di orrore tutto
quello che nel suo caso gli restò imprigionato in gola. Era
un verso animalesco e rabbioso, quasi grottesco, ma esprimeva bene
l’irrealtà del contesto.
Molly, nuda, era riversa in un lago di sangue rosso rubino. Sangue non suo, (il rapporto ematocrito degli elementi corpuscolati del sangue rispettava valori indicativi per un maschio adulto sano) ma John non osservava,
vedeva soltanto e subito la esaminò alla ricerca di ferite che
spiegassero l’emorragia, le tastò la pelle martoriata da
una costellazione variopinta di lesioni ed ecchimosi.
(Tre dita fratturate, un polso slogato, una spalla lussata, quattro – no, cinque costole ammaccate. Capelli tagliati alla paggio per sfregio e per puro, meschino autocompiacimento.)
Molly, bianca e con gli occhi velati come quelli di una bambola di porcellana, immobile morta vivente.
John mormorava parole rassicuranti (bugie. Non sarebbe andato bene.
Tutto era stato guastato ormai, marcio, perduto. Nulla sarebbe mai
potuto realisticamente andare bene d’ora in avanti. Non dopo
questo.). C’era una ferocia nel suo
sguardo, qualcosa che fece riavere Molly dal suo stato catatonico, che
le fece arricciare le labbra come se fosse sul punto di piangere, le
fece artigliare le dita nel vuoto in cerca di appigli, qualcuno a cui
aggrapparsi.
E fu il particolare che spinse Sherlock a spostarsi, che lo fece
scattare. Scansò malamente John. “Ferite superficiali.
Chiama Mary e dille di andare a Baker Street, che noi stiamo
arrivando.” Si tolse il cappotto e coprì Molly.
Ci sarebbe stato sangue sui suoi vestiti dopo, ma non era ciò a
cui pensò in quel momento. Pensava a quanto il corpo che
trasportava fosse disgregato e freddo. A quanto tremasse tra le sue
braccia, nella cosa più simile a un abbraccio che avesse mai
scambiato con lei da quando la conosceva.
“Molly.”
Molly batté le palpebre, si rimpiccolì contro il suo
petto, esalò un sospiro che sembrava di sollievo e pena insieme.
Sherlock dovette contrarre i muscoli delle braccia per non serrargliele attorno con troppa forza. L’aveva trovata.
Spezzata. Ferita. Ma viva. Viva.
Molly Hooper era viva.
E lui poteva tornare a respirare.
*
È colpa tua. Tutta colpa tua, lo sai, vero?
Era quello che si diceva, guardandola dormire. Le palpebre di lei
fremevano secondo i guizzi di sogno – ricordi delle torture? -
che disturbavano il suo riposo. La osservò: smagrita e
addolorata, in qualche modo disperata.
Non sapeva – non poteva saperlo - che loro due fossero specchi gemelli.
*
“Hai un aspetto terrificante, fratellino. Sembri un fantasma orrido e pallido.”
Sherlock non si diede pena di rivolgergli lo sguardo, neppure
l’ombra tagliente del sorriso urticante, il migliore, che
riservava alle occasioni in cui Mycroft decideva di omaggiarlo della
sua presenza ingombrante, del suo teatrino di rimostranze e pretese.
“È la descrizione a cui il termine fantasma
corrisponde”, si limitò a far presente, indolente.
Piegò la mano in modo che le nocche, curvate contro la tempia,
gli nascondessero la vista sgradevole del fratello maggiore e
dell’analisi accurata con cui lui stava già perlustrando
l’appartamento. “Se mai dovessi incontrare un fantasma
abbronzato e in salute, ritieniti libero di informarmi.”
Il silenzio di Mycroft era di un tipo insopportabile. Era un silenzio
che giudicava e calcolava l’esatta portata di notti che lo
avevano visto insonne, a sfidare i mostri che popolavano gli incubi
della donna distrutta che si spegneva sotto il suo stesso tetto;
soppesava l’inappetenza e la frenesia brulicante che lo facevano
smaniare dal desiderio di avere qualcosa da fare. Qualcosa che gli
occupasse la mente, qualcosa di diverso dal colorito di Molly, la voce
di Molly, il sorriso-spettro di Molly, gli occhi vacui e opachi di
Molly, Molly, Molly, Molly.
“Perché sei qui?” domandò. Non era andato per
offrirgli l’escamotage di un caso. Lo aveva saputo sin da quando
aveva messo piede nell’appartamento.
“Fare da balia a Miss Hooper ti ha privato di ogni
capacità cognitiva?” ribatté Mycroft, gelido e
pungente. Passò con ostentata lentezza un dito sul ripiano del
tavolino da tè. Lo strato di polvere (un millimetro e mezzo. Accumulato in due settimane. Era da allora che non permetteva a Mrs. Hudson di salire.)
rimase attaccato al polpastrello. Effetto da contatto. Energia
elettrostatica. Mycroft strofinò pollice e indice tra loro con
una smorfia di repulsione. “Oltre a quelle motorie,
s’intende. Dubito che nelle condizioni in cui sei, riusciresti a
mettermi alla porta con la tua usuale eleganza.”
“Sai che odio ripetermi. Perché. Sei. Qui.” Sherlock
scandì ogni parola, tamburellando l’altra mano sul
bracciolo della poltrona, intanto serrando la bocca.
Mycroft non batté ciglio. “La prendo con me.”
Sherlock sussultò con uno scatto fulmineo che quasi gli costò un gemito. “Non oseresti.”
“Oso, posso e lo farò”, replicò Mycroft. “Ne ho piena facoltà.”
“Non provare a-”
“Guardati, Sherlock e guarda a lei come al più grande
fallimento della tua miserabile esistenza. Ricorda come lei era e
ciò che per causa tua le è stato fatto. Dannati
l’anima, ma non costringere quella di lei a seguirti
nell’inferno che ti sei scelto come dimora.” Mycroft aveva
uno sguardo implacabile. “Ora”, sospirò con enfasi,
“se tu fossi così gentile da indicarmi dove sono i suoi
effetti personali, conto di lasciarti a te stesso entro i prossimi
dieci minuti.”
Sherlock tacque. La testa di suo fratello per una sigaretta.
Bill Il Teschio, sulla mensola, sogghignava del suo disappunto, si faceva gioco della sua disfatta.
“Sarà al sicuro”, affermò Mycroft. “Non
esiste posto più protetto in tutta l’Inghilterra. Rimanere
con te a Baker Street è infattibile. Alimenta il pericolo, fa di
lei un bersaglio. Avrà tutto ciò che le occorre e ho
predisposto le migliori stanze, quelle a ponente che si affacciano
–”
“Sul giardino delle rose”, concluse Sherlock per lui,
incrociandone lo sguardo per la prima volta, deliberatamente.
“Ciò che occorre a entrambi è rimettervi in sesto in modo autonomo. Ognuno sulle proprie gambe.”
Sherlock lo sapeva, lo aveva sempre saputo in verità.
Ciò che serviva a Molly era che lui si tenesse alla larga da
lei, in confini sicuri ed estremi, ai margini della sua vita.
*
Molly
riemerse dalle personali ombre che la affliggevano nelle sembianze di
un superstite. Nel periodo in cui Sherlock l’aveva avuta sotto la
sua custodia, non aveva riacquistato le forze. Era debilitata per i
troppi pasti rifiutati e se già prima de I Sette Giorni Di Buio
il suo fisico era stato filiforme, ora aveva troppe rientranze e
infossamenti.
“Tutto ciò che viene a contatto con te è destinato
a guastarsi, soffrire le pene dell’inferno e bruciare. Voleva che
te lo dicessi.”
Erano le prime parole che Molly Hooper gli rivolgeva dopo settimane di
silenzio, dove le uniche occasioni in cui aveva sentito la sua voce
erano state ascoltandola gridare fino a diventare rauca e consumarsi.
Sherlock si limitò a trovare la forza di non voltare la testa
dall’altro lato, di lasciarsi scivolare dentro quelle parole,
farsi scrutare dagli occhi incavati di lei che avevano subito tanto
orrore, che lo portavano inciso in ogni ciglio e pigmento
d’iride. (Gli occhi di Molly in passato erano stati spesso
malinconici, consapevoli, piacevolmente briosi e spensierati. Il
contrasto era penoso in modi che non si potevano descrivere. Solo
sentire, per una sorta di contrappasso, acutamente.)
Guarda dove ti ha portato il tuo amore per me, Molly. Guarda cosa ti ho fatto.
Molly era sempre stata
imperscrutabile, ma adesso era addirittura impenetrabile. Soltanto la
sofferenza era palpabile, ma la rabbia, lo sconforto, l’odio, se
li provava (e doveva provarli. Chiunque altro li avrebbe provati. Ma
lei era Molly, non chiunque altro.), erano custoditi con gelosa cautela dietro un paravento di vuoto desolante.
“Andiamo, Miss Hooper. Non c’è niente che lei possa
fare qui.” Mycroft, a poca distanza, assomigliava a un mastino.
Sembrava voler ricordare a entrambi che le porte dell’inferno
andavano richiuse, se non desideravano essere inghiottiti nelle sue
profondità. Decidete da che parte stare.
Molly si riscosse, il volto rimase inespressivo e snervato.
Accennò passi lenti, affaticati verso la soglia
dell’appartamento.
Mycroft le porse il cappotto, ma quando lei non si mosse per prenderlo (non aveva la forza di sollevare il braccio), si fece avanti per poggiarlo lui stesso sulle sue spalle.
Molly tremò, si morse le labbra, sfuggì il suo sguardo
quando ogni parte di lei – era talmente evidente –
sussultava per il raccapriccio del contatto fisico indesiderato.
Sherlock sapeva che avrebbe voluto urlare, rintanarsi
nell’abbraccio sicuro del suo letto, nell’ombra
confortevole e azzurra della sua camera che era stata il suo nido nel
corso dell’ultimo mese e mezzo.
Molly avanzò nella sua discesa alla luce senza favorirlo di un secondo sguardo o di una parola di saluto, di gentilezza.
Non che lui li meritasse.
Il suo ritorno ai vivi abbandonò Sherlock al suo destino di rimorso e al tormento delle sue numerose colpe da espiare.
*
Sherlock
procedeva su un prato che dava l’impressione fasulla di essere
incustodito. Contò sei, no, sette telecamere di sorveglianza tra
le fronde degli alberi, sui rami contorti degli olmi. Non lo
considerò uno spreco o un eccesso.
Nessuna misura di sicurezza sarebbe mai stata abbastanza se messa a tutela di Molly.
L’ambiente era tutto ciò che ci si sarebbe potuto aspettare da Mycroft.
Esteticamente era ineccepibile. Aveva pannelli chiari alle pareti,
sedili morbidi su cui sedersi, un’ampia finestra a tre battenti a
cui affacciarsi. Suppellettili varie, libri, quadri – una
riproduzione del ‘Wild Roses’ di Van Gogh -, cuscini,
coperte e un abat-jour completavano l’aspetto confortevole
dell’appartamento.
E lei era esattamente dove aveva pensato di trovarla, non inattiva o
seduta accanto alla finestra con il libro lasciato a spaginare sulle
sue gambe, ma di ritorno dal giardino, con una bracciata di rose che
spandevano un profumo invitante e vaporoso. L’aveva aspettata
seduto sulla poltroncina di fianco alla piana d'appoggio della
finestra, su cui figuravano altri libri e un bicchiere con una talea di
edera. Non si era tolto il Belstaff.
Molly indugiò un attimo, i suoi passi si interruppero sulla
porta prima che lei entrasse, si sciogliesse con una mano il cappello
di paglia e lo poggiasse insieme ai fiori sul letto.
La sua espressione non subì mutamenti, ma qualcosa nel profondo
dei suoi occhi lo fece. Qualcosa si spense, qualcosa si accese.
Sherlock non seppe decidere se ritenerlo un buon o un cattivo segno.
Molly prese un vaso che era sulla scrivania e andò a riempirlo
d’acqua, nel bagno attiguo. Quando tornò, cominciò
a disporvi dentro i fiori, senza dargli le spalle, ma senza neanche
mostrare segni che indulgessero in piacere o dispiacere per la sua
presenza lì.
“Stai… bene.”
Sherlock avrebbe voluto riposte, ma per averle era necessario porre domande e non ne era in grado.
Molly annuì, ancora rifiutava di incrociare lo sguardo
penetrante con cui Sherlock non la abbandonava. “Mi sento meglio.
Grazie.”
Non si dissero altro. Nessuna aggiunta fuorviante. Nessuna parola incomoda. Nessuna fascinazione o manipolazione.
Così com’era venuto, Sherlock fu rapido ad andarsene, non
prima di aver preso nota del radicale cambiamento che quelle poche
settimane avevano operato su di lei. Appuntò mentalmente che
aveva recuperato parte del peso perduto, che il suo colorito non era
più quello di uno dei suoi cadaveri. Non sorrideva, pareva
inavvicinabile e quando le passò accanto, registrò con
sentimento il sussulto delle spalle, come un brivido interno. Profumava
delle rose che aveva colto.
Troppo presto, fu quel che si disse, che già aveva saputo prima di vederla. Era troppo presto per ricominciare una nuova storia.
Non quando la vecchia doveva ancora finire.
La lasciò senza voltarsi indietro.
*
Un
pomeriggio, dopo un caso particolarmente difficile nell’Isola di
Wight che lo aveva trattenuto e invischiato nel suo raggiro per quasi
un mese, Sherlock si ritrovò a ricalcare passi inquieti nel
giardino delle rose. Non sapeva perché fosse lì. Non lo
sapeva davvero.
Con un senso di dejà vu impellente, che risaliva a una sera di
quasi quindici anni prima, Sherlock si accese una sigaretta. Ne
fumò una dopo l’altra ed era all’ultima del
pacchetto quando sentì dei passi leggeri. Li riconobbe subito.
Si voltò per incrociare per la prima volta dopo mesi e mesi gli
occhi di Molly. Ed erano occhi vivi, non spenti, non bruciati. Erano
gli occhi di Molly Hooper. Gli occhi che aveva cercato per mesi nella
folla che lo attorniava, senza trovarli.
Indossava un vestito di cotone ed era rosa, tra i fiori rosa e rossi e
bianchi e gialli della serra, nitida e quieta. I suoi occhi erano
amorevoli e rassicuranti e altre mille cose che lui non meritava.
Lasciò cadere la sigaretta e la pestò con insolita energia.
Molly si avvicinò, silenziosa e calma sotto la trapunta del
crepuscolo che accendeva il cielo come un fuoco, aldilà del
soffitto di vetro sopra le loro teste.
Aveva i capelli sciolti, ai lati del collo. Erano cresciuti. Le
sfioravano la curva della gola, la linea affusolata delle spalle.
Molly non sorrideva con la bocca, ma i suoi occhi, oh, i suoi
occhi avevano un sorriso che era solo per lui. Gli poggiò la
mano sul petto. Entrambi fremettero al contatto. L’aria
sfrigolò.
Sherlock non la sfiorò in alcun modo. I suoi occhi lo fecero per
lui, la accarezzarono in modi che non era possibile fraintendere. Tutto
era intenso e profumato e lui –
“Sai di mare”, disse Molly e arricciò il naso, lo
annusò senza ritegno. “E aglio e… polvere da
sparo.”
“Ti infastidisce?”
Molly fece cenno di no. “Spero che sia stato un bel caso.”
Sherlock era decisamente tentato. In passato non aveva mai trascurato
il racconto dei suoi casi. Molly li aveva sempre ascoltati di prima
mano da lui, ben prima che John li facesse diventare di pubblico
dominio sul suo blog. La pratica era rimasta immutata anche in seguito,
onorata da entrambi, nelle lunghe giornate lavorative in cui Molly
aveva il turno di notte, nel silenzio immobile dell’obitorio.
Sherlock fece per iniziare quello che intendeva rendere un racconto
entusiasmante e avvincente, che la coinvolgesse, quando Molly fece una
delle cose più straordinarie a cui gli fosse mai capitato di
assistere e con intraprendente presa d’animo si alzò sulle
punte e lo baciò.
Lui era troppo stupito per reagire con la dovuta prontezza, ma quando
la sentì ritrarsi, riprese il controllo e con un verso
inconfondibile di furia e smania la afferrò per le spalle e se
la tirò contro.
La baciò fino a quando entrambi ebbero fiato e quando lei si
apprestò a cedere, esausta, sotto le sue dita, ammorbidirsi,
aprirsi con fiducia alla maniera dei fiori che li assediavano, Sherlock
si tirò indietro di scatto e la lasciò andare come se
fosse un comburente e lui il combustibile. Si allontanò e lei
rimase ferma, stropicciata e con le labbra gonfie per i baci che si
erano scambiati, le guance arrossate.
Dapprima la luce negli occhi di Molly rimase soffusa, ma poi,
repentinamente, quel chiarore si smorzò, estinguendosi in un
lampo ferito.
Non guardarmi così, Molly. Ogni cosa che tocco brucia e incenerisce. Quanto dovrai bruciare prima di capirlo?
Qualcosa di quei pensieri doveva
essere trapelato perché Molly smise quell’aria tradita.
Era ancora confusa, ma si avvicinò di nuovo, con maggiore
sicurezza.
Gli posò ancora una volta la mano sul petto e senza averne
l'intenzione, Sherlock la coprì con la propria. Occorse un
attimo perché si accorgesse che era lui e non lei, che si
trattava di lui. Il tremore era soltanto suo.
Molly era morbida, tenera e sarebbe stato assolutamente delizioso, in
modo terrificante e spaventoso, perdersi nella sua dolcezza. Lo avrebbe
cambiato per sempre. Non sapeva se era quello che voleva. Non sapeva se
poteva permetterselo. Diventare un uomo sociale, affezionarsi,
diventare preda di impulsi e dell’istinto, non era quello la
causa di tutti i mali? La maledizione che per anni, più di un
decennio, si era assicurato di scansare?
“Lasciati amare, Sherlock”, disse Molly. Non sorrideva. Non
sorrideva, ma - dannazione - la luce nei suoi occhi era talmente
luminosa da accecarlo e stordirlo.
Molly. Molly prometteva mille sorprendenti novità, mutamenti.
Molly non era l’origine del male, ma la sua cura, la sua assoluzione.
“Non è qualcosa che io meriti.” Ed era vero, suonava del tutto vero, giusto.
Molly non ribatté e per un istante Sherlock temette e
sperò che lei gli desse ragione. Dopo tutto quel male, come
poteva essere altrimenti? Come avrebbe potuto amarlo?
Molly gli prese con decisione i lati del volto, lo afferrò con
urgenza. “Questo lascia che sia a deciderlo”,
dichiarò con un cipiglio fiero. “Credo di essermene
guadagnata ogni diritto.”
A quello Sherlock non poté che assentire e baciarla con trasporto. E sì, anche gratitudine.
*
Occorsero molti mesi per venire a patti con il demone di se stesso.
L’ennesimo drago che sterminò era una creatura
mastodontica, un colosso che pareva indistruttibile. Lo sradicò
dalla propria mente e dal proprio cuore, con la convinzione che i
sorrisi di Molly, quando fossero tornati, lo avrebbero ripagato della
battaglia.
Esattamente una settimana dopo la fine della
battaglia, sgusciò nella sua camera come un’ombra della
notte. Si infilò sotto le coperte, nel suo letto, e
lasciò che l’incoscienza del sonno le impedisse di vedere
l’espressione con cui la guardava. Il sonno di lei gli permetteva
di stringerla come aveva voluto, di respirare il profumo di vaniglia e
rosa dalla sua pelle.
Molly non si agitò nel suo abbraccio. Il suo respiro era pacifico, rilassato.
Sherlock studiò ogni particolare di lei. Gli zigomi, il tratto
del naso, l’arco delle sopracciglia sottili, la linea capillare e
seducente delle labbra che in passato aveva denigrato, la curva della
mandibola.
Le sfiorò l’attaccatura dei capelli fini con un bacio gentile.
Quando la sentì muoversi, dopo un periodo di tempo
incalcolabile, si spostò per concederle il tempo di abituarsi
alla sua presenza.
Lei reagì con sorpresa nel trovarlo. Sbatté le palpebre.
“Sei reale?” chiese a bassa voce, trepidante.
Sherlock sollevò un angolo di bocca. “Abbastanza reale. Controlla tu stessa se non mi credi.”
Molly non si fece attendere e come lui voleva, si era aspettato, gli si
appressò, gli passò una mano tra i capelli. Lui le
accarezzò un fianco.
“Ti ho sognato. Ogni notte.”
“Bei sogni, spero.”
Lei lo guardò intensamente. Il riflesso della luce notturna balenò nei suoi occhi, tremula. Perché domandi quando conosci già la risposta?
Già, la conosceva bene. I sogni erano andati a trovare anche
lui. Incubi neri, insanguinati e cupi, grondanti disperazione.
Ti aspettavo, dicevano gli occhi scuri di lei, luminosi di luce riflessa. Perché non sei venuto prima? E più di tutto: Mi sei mancato.
“Prendi la vestaglia, Molly.” Sentiva di non poter
resistere accanto a lei un secondo di più senza stringerla a
sé. “Scommetto che non hai ancora avuto modo di osservare
il giardino, di notte.”
“È uno spettacolo!” esclamò lei in tono
sognante, sollevando il viso pallido e malinconico al cielo notturno.
“La luna è così bella stanotte.”
“È sempre la stessa,” replicò Sherlock, distante.
Molly si girò ad osservarlo, inclinò la testa su un lato,
con le braccia piegate dietro la schiena. “Percezioni”,
disse con un sorriso impertinente. Ma era Molly e si trattava del
sorriso di Molly e che fosse pure insolente se voleva, bastava che ci
fosse, che fosse tornato. “È tutta una questione di
percezioni, giusto? Puramente soggettiva.”
Sherlock si fermò, costringendo lei a fare lo stesso. “Molly.”
Molly scosse la testa con foga, lo guardò con fermezza. Il
sorriso era già appassito. L’illusione di una fioritura
precoce. “So cosa stai per dire e te lo dico: non azzardarti. Non
ti escluderò dalla mia vita. Non sono pronta a rinunciare a te.
Non voglio.”
Non si era aspettato niente di diverso. Aveva rischiato di perderla e cosa sarebbe servito per farle capire che non poteva perderla? Non sapendo che era successo per causa sua?
“Molly”, disse di nuovo e c’era un tono di angoscia,
inquietudine, difetto nella sua voce che lei colse, ma che non
intaccò la convinzione che risplendeva, meravigliosa, nel suo
viso.
“È sano, Sherlock. È giusto. Quello che
provo per te è la cosa più reale e vera che mi sia
capitata. Nessuno potrà mai convincermi del contrario”,
dichiarò, indurendo gli occhi che richiamavano la brillante
compattezza dei germinati a rosa di ferro. “Non importa se non
provi lo stesso”, continuò Molly, testarda. “Non si
ama per essere riamati. Non è così che funziona. Amarti
mi ha quasi distrutto, ma non amarti mi è impossibile. Non posso
neanche spegnere i miei sentimenti. Ho sperato che si
affievolissero.” Le tremò la voce. “Ho tentato,
Dio solo sa se ho tentato, di andare avanti, dimenticare, ma non ci
sono riuscita. Lasciarti, tenerti al di fuori del mio cuore, non
è mai stata realisticamente una possibilità. Amarti, il
desiderio di rivederti e tornare da te, è questo
che mi ha spinto a rialzarmi. Ti amo e non esiste nulla che potrebbe
convincermi o costringermi a non amarti. Te incluso. Perciò te
lo dico un’ultima volta, Sherlock Holmes. Non osare dirmi cosa
devo provare o cosa dovrei fare o -”
Sherlock non la lasciò finire. Quando vide le lacrime, la prese
tra le braccia e tutte le migliori intenzioni scomparirono, tramortite
dalla forza dirompente dei suoi sentimenti per questa donna
dall’aspetto fragile e delicato. Ma in Molly non c’era
nulla di debole. I sentimenti non erano una falla nel sistema, nel caso
di lei, ma le componenti dell’armatura che si era costruita.
“Shh, Molly. Shh.”
Molly piangeva, per la prima volta piangeva di fronte a lui. “Ti amo.”
“Lo so.” Sherlock non poté evitare che un sorriso
gli affiorasse alle labbra, premute contro la tempia di lei. “Lo
so da molto tempo ormai.”
“Ho creduto di impazzire. Lui voleva indurmi a credere
cose… a dare a te la colpa di tutto.” Molly parlava a
scatti, febbrile. “Ho mentito e ho detto frasi a cui non credevo,
solo perché il dolore smettesse, ma non erano reali. Non ho mai
creduto a nessuna delle cose che ho detto.”
Sherlock le massaggiò la schiena con ampi movimenti circolari,
rassicuranti. “Chiunque altro avrebbe ceduto ben prima. Sei stata
coraggiosa e forte.”
“Ha cercato di convincermi che non ti importasse nulla di me, che
non contassi e che fossi una mera comparsa nella tua vita, ma mentiva.
Tu mi hai trovata. Mi hai salvata.”
“Ti sei salvata da sola, Molly. Non sei il tipo di persona che
abbia bisogno di eroi. Sei l’eroe di te stessa.” Sherlock
la scostò quel che tanto che bastava per rivolgerle
un’occhiata di rimprovero. “Inoltre credevo che avessimo da
tempo chiarito questo punto, Molly. Mi sei indispensabile.”
Molly si alzò sulle punte e gli poggiò un bacio rapido sulla guancia. “Mi sei mancato.”
“Non sono potuto venire prima.”
“Non te lo hanno permesso?” domandò Molly,
aggrottando le sopracciglia e strofinando la fronte contro la sua
spalla.
“Da quando in qua mi curo di ottenere permessi? Non sono venuto
prima perché non riuscivo.” Sherlock ripercorse il
contorno delle sue labbra con il pollice.
“Perché?” chiese Molly a bassa voce, voltò il
viso in modo che potesse poggiarlo contro il palmo della sua mano,
aperta per accoglierlo.
“Paura.”
Molly sgranò gli occhi in un’espressione che era impressionata. “Avevi paura di me?”
“Non di te, Molly. Mai di te. Temevo quello che avrei trovato nel
tuo sguardo, che tu avessi perso la tua fiducia in me.”
“Sono stata arrabbiata, Sherlock,” ammise lei, “ma
mai, neppure una volta, ho dato la colpa a te. Quello che mi è
successo non è giusto, ma sarebbe potuto capitare a chiunque
altro.”
“Mi dispiace, Molly.”
“Dispiace anche a me. Mi ci vorrà del tempo per superare
questo del tutto, ma andrà bene. Già va meglio.”
La notte concedeva a entrambi l’anonimato nel parco della tenuta.
Molly gli allacciò le braccia dietro il collo, sospirò
con un sollievo sentito contro il suo petto. “Portami a casa,
Sherlock.”
“Sempre”, promise lui con trasporto, baciandole le ciglia umide, un angolo di bocca. “Sempre.”
N/A:
http://viennateng.bandcamp.com/track/level-up
Un tentativo mandato in porto, finalmente, dopo infiniti attraccaggi senza risultato.
Spero che sia comprensibile, che la lettura sia stata tutto sommato
piacevole, di non aver deformato i personaggi e che tutto suoni almeno
verosimile.
(Dopo che Molly accetta di seguire Mycroft, Sherlock rifiuta di
incontrarla. Teme che lei lo reputi responsabile per quanto ha subito.
Pensiero abbastanza sciocco trattandosi di Molly e Molly stessa non
manca di farglielo notare tra le righe, nel suo discorso.)
Un abbraccio fortissimo a tutti! Che dire, mi è mancato scrivere
di loro e temo di essermi alquanto arrugginita, sembrano trascorsi eoni
xD