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Autore: Cruel Heart    25/05/2014    4 recensioni
C'è sempre un modo per raccontare le storie tristi.
C'è chi vuole addolcirla, come se si trattasse di una tazzina da caffè un po' amara, o c'è chi vuole renderla ancora più tragica di quanto lo sia già.
Sarebbe bello narrare di due adolescenti che si sono innamorati improvvisamente, magari al liceo.
Ma non è la verità, o, per lo meno, non lo è di questa storia.
I piccoli segreti sono ovunque.
Sto parlando di segreti non del tutto svelati, di argomenti tenuti nascosti e di scheletri troppo grandi per essere rinchiusi in un armadio.
E se tutto quello in cui lui credeva, si rivelasse una mera finzione?
E se tutto quello che lei riteneva impossibile, fosse la dura realtà?

Ecco: questa è la verità che voglio raccontarvi.
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little secrets - Missing Moments'
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Salve a tutti!

Mi dispiace per non aver aggiornato prima, ma non ho potuto farlo per due motivi importanti.

1.      LA SCUOLA. Mi sta uccidendo. Sembra che i professori si siano svegliati solo adesso e abbiano tutti fretta di interrogarci o di fare compiti in classe. Ho fatto sei compiti in una settimana e, come poche volte nella mia vita, sono seria.

2.      IL CAPITOLO È STATO UN PARTO. Anche qui, non scherzo. Proprio non voleva essere scritto. Ma la fine… *-* Ok, ok, non dico niente. *si tappa la bocca*.

 

Ultima cosa: spero che le foto vi piacciano, da ora in poi le metterò accanto ad ogni “Pov”.

Have a good day. <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

 

***

 

Birdy - People Help The People [Originally performed by Cherry Ghost]

 

 

***

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Napanee, Ontario, Canada, 4 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

Non credevo di essermi mai sentita così.

No, non intendevo la classica sensazione che provi quando hai la bocca impastata dall’alcool o quando cerchi di pronunciare delle parole senza senso.

Così, mi ci ero sentita tante volte, e quella non poteva essere di certo l’ultima.

Invece, mi riferivo ad un’altra e strana sensazione.

Quella di essere felice, mentre avevi la perfetta consapevolezza che una tristezza infinita ti avvolgeva fin dentro.

Ecco, era un po’ così che mi sentivo, mentre attraversavo l’ennesima soglia dell’ennesimo bar, in cerca degli ennesimi cinque dollari da poter buttare via per un ennesimo drink.

«Ehi, ho già detto ennesimo?» biascicai, sorridendo ad un barista biondino che stava asciugando un bicchiere. O forse due baristi biondini, non ne ero molto certa.

 

«Se ti riferisci alla frase “Ehi, chi sarà questo ennesimo figo che mi ritrovo davanti?”, allora sì.» mi rispose, guardandomi con un sorrisino ebete. Un suo collega – anche la parola “armadio” andava bene, talmente era alto e grosso –, che lo stava aiutando, alzò gli occhi al cielo.

 

Misi a fuoco la sua figura. No, adesso ero certa che si trattasse di un solo barista.

Aveva i capelli biondi e due occhi color ghiaccio, mentre, scendendo un po’ con lo sguardo, potevo vedere il suo fisico asciutto sotto la maglietta nera aderente.

 

«Mmh, mi piaci, Evan D.» Mi sedetti sullo sgabello di fronte alla sua postazione, incuriosita dal nome sulla sua divisa da barman. «O preferisci che ti chiami “ebete supermontato”?» Il ragazzo accanto a lui emise un grugnito divertito, ma il biondino lo fulminò con lo sguardo e lui se ne andò, mormorandogli un «Scusa» davvero molto poco convincente e alzando le spalle, ancora sorridente.

 

«Allora… cosa vuoi che ti porti?» disse, sbuffando e voltandosi verso gli analcolici.

 

«Long Island.» gli risposi, con finta noncuranza. Il Long Island era un cocktail alcolico a base di vodka, gin, tequila, rum bianco e triple sec. [N.d.A. Il triple sec è un liquore aromatizzato all’arancia.] Una bomba, insomma. Nonostante la mia ubriachezza, mi ricordavo ancora che quel drink era vietato ai minori di 21 anni. Sperai che non mi chiedesse documenti o rogne del genere.

 

«Ehi, non sarai troppo piccola per questo tipo di cose?» “Come non detto…”

 

«E tu non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?» replicai, un po’ più lucida.

 

«Mmh.» disse, rivolgendomi un’occhiata di sufficienza e prendendo le bottiglie.

 

Decisi che la tattica migliore era quella di cambiare argomento, nel caso avesse avuto ancora qualcosa da ridire.

«Dimmi, per cosa sta quella D? David Letterman?» [N.d.A. Famoso conduttore americano.]

L’”armadio” ripassò dalle nostre parti e grugnì di nuovo, mentre veniva ancora fulminato. Mi sembrava un déjà vu.

 

«Aspetta, com’era? Ah, già… Tu non sarai troppo grande per non farti i cazzi tuoi?» mi rispose, imitando la mia voce. In altri momenti avrei anche potuto ridere, ma non sapevo se fosse l’alcool o l’irritazione nel sentire la sua voce a trattenermi.

«E anche per non essere simpatica, aggiungerei, ma non voglio offendere un’esponente dell’altro sesso.» Poi, come se nulla fosse, mi porse il mio drink e riprese a pulire bicchieri.

 

«Mai pensato che potresti appena averlo fatto?» dissi, sbattendo il mio bicchiere sul bancone e avvicinandomi ai suoi occhi di ghiaccio.

 

Posò lo strofinaccio vicino al mio bicchiere, avvicinò le sue mani alle mie sul bancone e mi fissò, di rimando, con intensità. «Mai pensato che potrebbe non fregarmene un cazzo?»

 

«Deficiente.» ribattei, riprendendomi il drink e andandolo a sorseggiare ad un tavolo libero.

 

«Stronza.» sussurrò, riprendendo a pulire.

 

«Ti ho sentito!» gli urlai, mentre mi sedevo distante da lui.

 

Stando attenta a non versare il liquido per il mio scarso equilibrio, mi sistemai meglio, per trovare una posizione comoda su quello sgabello alto.

O forse, il problema era proprio che fosse troppo alto.

Non che ci volesse molto, comunque.

Non nascondevo di essere una tappetta di centocinquantotto centimetri, accettati da me con grande dignità e menefreghismo.

Certo, fino all’anno scorso.

Infatti, durante tutti i miei primi quindici anni di vita, non avevo fatto altro che lamentarmi di quanto Madre Natura fosse stata un po’ bastarda con la sottoscritta.

“Alle galline vanno tette e culo, alle intelligenti cervello e lungimiranza.” recitava la maglietta che indossavo quella sera.

Altro che solidarietà femminile…

Ma, comunque, venivo prontamente consolata.

“Tutte le ragazze più graziose sono basse, amore.”  

 

“Già, facile a dirsi, quando tua madre è più alta di te di venti centimetri.” le rispondevo stizzita ogni volta.

 

Risi amaramente e abbassai lo sguardo, fissando il Long Island e girandolo con una cannuccia.

Forse non era proprio il momento di pensare a mia madre.

Né a lei, né al comportamento che avevo assunto oggi pomeriggio nei suoi confronti.

Mi resi conto che stavo piangendo solo quando vidi delle goccioline d’acqua spuntare dalla superficie liscia e patinata del tavolo.

Le lasciai cadere. Era una bella sensazione sentire due rivoli di lacrime freschi sul viso accaldato.

 

Un’ora di pensieri sulla mia infanzia dopo, sospirai ed ebbi la raffinata eleganza di dire:«Che serata di merda.»

 

«Che c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come me?»

 

 

***

 

Evan's pov

 

 

“Dio, che mal di testa…” pensai, mentre il chiacchiericcio di sottofondo del Sabato sera mi riempiva le orecchie.

Guardai la sala e scoprii che il locale era pieno, come al solito.

Mi soffermai con lo sguardo su ogni uomo o donna che stava seduto ai tavolini. Potevo distinguere a vista d’occhio per quale motivo erano venuti qui. S’imparava a riconoscerli, col tempo.

C’erano le persone sole, che non avevano nessun altro con cui passare il tempo se non un bicchiere di vodka.

C’erano le persone tristi, che piangevano in silenzio, perché la loro vita non meritava neanche un po’ di rumore.

C’erano le persone deboli, che consideravano questo bar come la loro casa, perché non potevano o non volevano tornarci.

E poi, c’erano le persone sorridenti. Quelle erano le più pericolose, perché riuscivo a vedere la menzogna e l’illusione trasudare dai loro occhi. Non potevi mai essere felice se sceglievi di ubriacarti.

Tutte volevano dimenticare qualcosa.

Tutte sembravano dei tramonti che morivano lentamente sulla cresta del mare.

 

Poi, però, mi ricordai che anch’io avevo qualcosa da dimenticare.

Così, preso dalla frustrazione, iniziai a strofinare un bicchiere di vetro sempre più velocemente.

Al solo pensiero di quello che mi aspettava domani, avrei voluto lanciarlo sulla parete e vederlo rompersi in mille pezzi.

Kevin mi aveva avvisato che a casa ci sarebbero stati ospiti e che mio padre aveva già fatto preparare le stanze migliori.

“Vedrai, tu e Evan andrete d’accordo con le nuove arrivate.” gli aveva detto.

Avevo analizzato questa frase svariate volte e avevo scoperto che contenevano tre fattori importanti che mi mandavano letteralmente in bestia.

 

Punto primo: Perché bisognava andare per forza d’accordo con le persone che s’incontravano per la prima volta?

Per perbenismo?

Per buona educazione?

E dov’erano il perbenismo e la buona educazione quando la gente si mandava a fanculo, alle Hawaii?

Io adoravo quando mi mancavano di rispetto, perché così potevo essere maleducato e cafone quanto volevo.

Punto secondo: Se anche avessi provato ad andarci d’accordo, sarebbe andata a finire male.

L’imminente urgenza di mio padre di far trovare la villa pulita e ordinata, peggio di una pubblicità di prodotti per casalinghe, mi induceva a pensare che questi “ospiti” si sarebbero fermati per molto tempo.

Come diceva quel vecchio detto?

L’ospite è come il pesce; dopo tre giorni, puzza.

E cosa si faceva col pesce che puzzava? Lo si buttava.

Per cui, avevo già in mente un paio di modi per far spaventare e far fuggire queste povere malcapitate.

Punto terzo: Già, malcapitate. Mio padre aveva usato il femminile. Quindi, se anche non fossero fuggite di loro volontà, le avrei defenestrate ben volentieri io.

Avere la casa invasa da lucidalabbra e da riviste di gossip era inammissibile e assolutamente inaccettabile.

 

I miei pensieri furono bruscamente bloccati dalla vista della ragazza bionda di prima.

Un secondo prima rideva, un secondo dopo eccola lì che lasciava cadere le sue lacrime.

Bipolare? Forse.

O forse aveva grossi problemi alle spalle.

Era sicuramente una ragazza sola e debole, e anche la tristezza, che lasciava scivolare sulle sue guance, sottoforma di lacrime, era chiaramente visibile.

Però… prima, quando avevamo scambiato civilmente le nostre opinioni, non aveva dato tanti segni di malessere.

Rientrava in tutte le quattro categorie che avevo stilato nel corso degli anni.

Per non parlare, poi, del fatto che fosse terribilmente acida e arrogante.

“È proprio il tipo di persona con cui mi dovrei distrarre.” decisi.

 

Mi avvicinai piano, stando attento a non spaventarla, e arrivai giusto in tempo per sentire la sua bocca pronunciare la frase “Che serata di merda.”

 

«Che c’è, signorina, non gradisce la compagnia di un barman gentile come me?» le chiesi.

 

Alzò lo sguardo, quasi impaurita, e mi guardò con dei grandissimi occhi azzurri. Non me ne ero accorto prima.

Tentò di asciugarsi le lacrime con una mano, ma fece cadere la cannuccia sul pavimento.

Cercai di soffocare una risata, mentre gliene porgevo un’altra da un tavolo vicino.

Tutta la sua sicurezza di poco prima era sparita. Sembrava… buffa.

«Ecco, tieni. »

 

«Grazie.» mi rispose imbronciata, iniziando a bere piano il drink e distogliendo lo sguardo dal mio.

 

Aspettai un secondo, poi dieci, poi venti, fino a quando, scrollando le spalle, le dissi: «Va bene, visto che non m’inviti tu a sedermi, lo farò io.»

Impostando la voce per renderla simile alla sua, dissi:«Ehi, vuoi sederti?»

Poi, risposi alla mia stessa domanda con il mio tono di voce:«Ma certo, affascinante sconosciuta che non ho mai visto prima.»

E così, con una disinvoltura – e la modestia – degna di un grande attore di Hollywood, mi sedetti sullo sgabello accanto al suo.

La osservai attentamente, in cerca di una qualche crepa nella maschera di indifferenza che si era creata. Niente. Possibile che quella ragazza non ridesse mai?

Arricciò leggermente le labbra e, come se fosse disgustata, si allontanò leggermente da me. 

Alzai un sopracciglio, stranito. «Cosa c’è, adesso? Perché mi guardi così?»

 

Mi fulminò con lo sguardo, ma almeno era tornata a guardarmi. Era già qualcosa. «È soltanto una curiosità. Sei venuto a parlare con me e a fare questa bella scenetta perché non ci sono altre tipe da rimorchiare?»

 

Mmh, vediamo… cosa potevo dedurre da questa domanda?

Sicuramente, aveva una bassa autostima, se pensava di essere la seconda scelta in fatto di ragazze.

Increspai le sopracciglia e incrociai le mani sul tavolino. «Il fatto che io ti abbia rivolto la parola non implica assolutamente il fatto che ti voglia rimorchiare. A meno che io non sia un gancio e tu una macchina. Ma, tralasciando questa improbabile trasformazione in Transformer, sono convinto che la solitudine sia venuta a bussare troppe volte alla tua porta. E nessuno merita mai di stare da solo, in qualsiasi circostanza. Per cui…» dissi, allargando le braccia. «Eccomi qua.»

 

«Dio, se mi avessero detto che avrei trovato un barman rompicoglioni, allora sarei andata da un’altre parte.» mi rispose, alzando le sopracciglia e continuando a bere.

«Desolato di aver tradito le tue aspettative. Comunque, ti va se ci presentiamo, come farebbero due persone normali? »

 

«Tu non sei una persona normale.»

 

«Solo perché sono venuto a parlare con una ragazza che beve il suo drink tutta sola?» Le porsi la mano destra, ma lei continuava a squadrarmi con diffidenza. «Andiamo, non mordo mica.»

 

Roteò gli occhi, ma alla fine me la strinse.

«Il mio nome, come puoi notare dalla mia splendida targhetta, è Evan. Il tuo?»

 

Un lampo di divertimento passò per i suoi occhi. «Ramona.» mi rispose.

 

Sollevai un sopracciglio, ancora. Non rientrava di certo nei nomi che mi ero immaginato. «Ramona?»

 

«Ramona.» confermò e scoppiò a ridere per dieci minuti buoni.

 

«Puoi smetterla di ridere soltanto per un secondo, dannazione?»

 

«S-sì… scusa.» disse, asciugandosi le lacrime che le erano uscite.

 

«Bene. Ora che hai ripreso il quasi controllo di te stessa, potresti parlarmi seriamente?»

 

«Perché dovrei farlo? Era una bellissima serata, fino a quando sei arrivato tu, e io voglio continuare a divertirmi.»

 

«Tu lo chiami divertimento, questo? Sveglia, non sei al Luna Park. E poi, dovresti farlo perché voglio darti una mano con il tuo problema.» ribattei.

 

Il sorriso che stava cercando di bloccare se ne andò al solo sentire della mia voce. «Problemi? Io non ho problemi.» sussurrò.

 

Risi di gusto. «Cosa? Oh, andiamo. Pensavo che la tua maglietta avesse ragione riguardo alla tua intelligenza e lungimiranza.» Feci un cenno alla sua T-shirt e mi strinsi nelle spalle. «Qui tutti hanno problemi, Ramona, e sono problemi che un Long Island non può risolvere. Ma, forse, una semplice chiacchierata potrebbe farlo.»

 

«Beh, non capisco perché dovrei discuterne proprio con te.»

 

«Le persone si aiutano di solito, non te l’ha mai detto nessuno?»

 

Mi guardò un attimo, sorpresa. L’avevo presa in contropiede. «Ma… potresti essere un maniaco sessuale… o un assassino psicopatico.»

 

Le sorrisi. «Beh, c’è sempre quella possibilità. Ma non approfitterei mai di una ragazza ubriaca. Che razza di barman gentile sarei?» La guardai, serio. «Coraggio, sfogati.» 

 

«Beh, vede, signor David Letterman…» mi rispose, mentre io m’infastidivo sempre di più. «L’alcool è una delle poche cose che rendono felici le persone. Soldi? Innamoramenti? Amicizie? Solo stronzate… l’alcool è l’unica cosa che resta.» Fu interrotta da un singhiozzo, ma poi riprese. «Ho bisogno dell’alcool nelle vene….perché… i pensieri si fanno meno fitti… e… mi sento meglio. Capisci cosa intendo?» mi chiese, dopo aver fatto una grande sorsata.

 

 «Sì. L’alcool, per quanto strano possa sembrarti, ti schiarisce le idee, e così sei più lucida da ubriaca, invece che da sobria. Tutto qui.»

 

 Annuì leggermente.

Mi raccontò tutto: la vita che conducevano qui, il nuovo lavoro della madre e la loro litigata.

E pensare, però, che la Pennsylvania non era così male, dopotutto.

 

Dopo che ebbe finito il suo racconto, incrociai le mani sul tavolino e la guardai, dritto negli occhi. «La cosa migliore che tu possa fare in questo momento, è lasciare quel fottuto drink e andartene.»

 

Sembrò non notare il mio tono da rimprovero, anzi, se ne fregò altamente di quello che avevo appena detto e bevve quel poco di liquido che restava nel bicchiere.

 

«E perché dovrei farlo?» mi chiese, ridendo.

 

Incrociai le braccia e strinsi i pugni, forte. Non me la potevo prendere con una ragazza sbronza. «Devi fare pace con tua madre, ecco perché.»

 

Scoppiò in una risata sguaiata. «Ah, sì? E come ci arrivo a casa, se non sono neanche capace di reggermi in piedi?»

 

Come se volesse darmi la prova che stesse dicendo la verità, prese uno slancio esagerato e saltò dallo sgabello. Spinto dalla consapevolezza del suo precario equilibrio, della forza di gravità e del pavimento, scesi dal mio e la afferrai per le spalle, giusto un attimo prima che si potesse fare male.

Sentii le sue mani piccole aggrapparsi alle mie braccia e una fulminea sensazione di piacere mi avvolse, giusto il tempo di vederla allontanarsi da me e sussurrare, con gli occhi bassi per la vergogna, un «Grazie.»

 

Capii immediatamente cosa c’era bisogno di fare.

Mi allontanai di qualche metro, a passo di carica. Non sapevo per quale motivo, ma sentivo solamente rabbia dentro di me. Poi, improvvisamente, mi bloccai e mi morsi il labbro. Forse dopo avrei dovuto pentirmene, ma non ci pensai molto quando le chiesi:«Se ti dico di aspettare qui, al tavolino, mentre vado a parlare con il mio capo, lo faresti?»

 

Venne verso di me, barcollando un po’, e scosse la testa.

Emisi uno sbuffo, infastidito, e roteai gli occhi. «Ovviamente no.» sussurrai a me stesso.

 

«Che cosa stai facendo?» mi chiese.

 

«Cerco di darti una mano.» le risposi.

 

 

Lei mi seguì e io mi avvicinai all’ufficio del signor Barrington, il proprietario, e le sussurrai:«Mi raccomando, stai dietro di me.»

Annuì in silenzio. Poi, bussai allo stipite: la porta era aperta. «Scusi signore, posso parlarle?»

 

Alzò lo sguardo dalle scartoffie che stava firmando. «Oh, Evan. Ma certo, dimmi pure.»

Era quasi inquietante il modo in cui quell’uomo dai capelli castani poteva metterti in soggezione; noi lo chiamavamo il “Generale D’Armata”.

Mi sistemai ancora un po’ verso sinistra, per coprigli, almeno in parte, la visuale di Ramona.

 

«Vorrei avere il suo permesso per allontanarmi dal locale, giusto per una mezz’ora. Sempre se per lei non è un problema.»

 

«Con lei?» mi chiese, facendo un cenno proprio allo spazio che stavo cercando di coprire.

Annuii soltanto. Sapevo come la pensava il mio capo su queste cose e strinsi forte i pugni, nella speranza che ci lasciasse andare in fretta.

«E questa chi è, Taubenfeld? La tua nuova ragazza?» replicò invece lui.

 

La sentii trattenere il fiato, ma non disse niente.

Ecco perché volevo che, prima, rimanesse accanto al tavolo. Il signor Barrington era particolarmente incline a non farsi mai i cazzi propri. Sospirai. «No, signore, non è la mia ragazza.»

 

«Beh, è davvero un peccato. Un gran bel peccato.» Si accese una sigaretta e, aspirando, continuò a squadrarla.

 

Diventai irrequieto. Non mi piaceva quando usava quello sguardo sulle ragazze.

Mi schiarii la voce. «Non mi ha risposto, signore.» Lo guardai ancora più intensamente, dritto in quei suoi occhi color marrone chiaro. «Posso andare?»

 

Non distoglieva lo sguardo da Ramona e tutto ciò cominciava a darmi sui nervi. Poteva fare di tutto, era vero. Poteva chiamare mio padre e dirgli che mi aveva buttato fuori a calci, o peggio, dirgli che avevo boicottato la visita delle “ospiti” per aiutare una ragazza che avevo conosciuto da appena un’ora e mezza. Riflettei su quell’ultima frase e scoprii che no, il pensiero del boicottaggio non mi dispiaceva affatto.

Si strinse nelle spalle. «Va bene, fa’ come vuoi, l’importante è che torni qui vivo.» Poi, strinse gli occhi. «Non voglio avere rogne.»

 

“Con mio padre.” stavo per aggiungere io, ma non lo feci. Mi era andata bene e non volevo fargli cambiare idea.

Lo ringraziai con un cenno del capo e, dopo essermi infilato giubbotto e sciarpa, trascinai Ramona per un braccio fuori dal locale.

 

«Ehi, piano, piano, mi stai facendo male.» mi disse. «Sarò anche sbronza, ma la mia percezione del dolore funziona ancora bene.»

 

Allentai un po’ la presa, ma non la lasciai andare del tutto.

Raggiungemmo la mia moto e le lanciai il casco, dopo aver allacciato il mio.

 

«Tieni, prendilo. Salta su e andiamo.»

 

«Perché dovrei ascoltarti?» mi chiese brusca.

 

«Perché lo dico io. Forza.» la incitai, mentre mettevo in moto.

 

Roteò gli occhi e allargò le braccia. Sembrava infastidita. «Sai che c’è? Io non voglio venire con te.» Se non fosse stato per il fatto che stesse gridando, il doppio senso sarebbe stato divertente. Prima ti comporti come un coglione, poi mi vieni a parlare e fai tutto il carino e adesso vuoi che io obbedisca. Potresti essere davvero un assassino psicopatico. Sei lunatico!»

 

Sgranai gli occhi, furioso. «Ah, sarei io quello lunatico?»

 

«Sì!»

 

Dio santo, quella ragazza era incredibile. «Beh... allora tu sei un’ingrata. Lo sai, il mio capo potrebbe denunciarmi per assenza sul posto di lavoro, e tu che fai? Ti lamenti perché non vuoi tornare a casa e non vuoi fare pace con tua madre.» Scossi la testa, ridendo istericamente. «Assurdo.»

 

 

«Assurdo? E perché sarebbe assurdo, sentiamo! Tu non mi conosci, non sai niente di me e io non ti devo nessuna spiegazione.»

 

«Già, è vero. Io non ti conosco e non voglio entrare nella tua vita. Ma sai perché ho lasciato il bar e perché sto rischiando che quello stronzo mi denunci, eh?»

Sentivo una miscela di rabbia e delusione montarmi dentro. Non sapevo neppure che sentimento fosse davvero; sapevo solo che ce n’era tanto e che avrei voluto tirarle uno schiaffo dritto in faccia per la chance che stava buttando all’aria.

«Perché non voglio che sprechi la possibilità di riconciliarti con tua madre!»

Feci un profondo respiro, rendendomi conto di quanto la stessi spaventando. «Almeno tu, ne hai una.» sussurrai.

Non sapevo nemmeno io se mi stessi riferendo alla madre o alla possibilità. In tutti e due i casi, a me non erano state concesse.

«Ma hai ragione, sono stato un coglione. Va’ pure dentro ad ubriacarti, vedrai che tua madre sarà fiera di te.» finii, freddo.

Chi ero io per immischiarmi nella sua vita? Nessuno.

E, pertanto, come Nessuno dovevo essere trattato.

Avvicinai le mani per slacciare il casco, ma sentii la sue piccole dita toccarmi sulla spalla sinistra.

Stavolta non si ritrasse e assaporai quella sensazione per un attimo.

 

«Aspetta.» mi disse, bloccandomi. «Vengo con te.»

Poi montò sulla moto e partimmo per il buio.

Ricordavo poco del viaggio: la via dove abitava, le sue braccia strette alla mia vita e il suo naso che si strofinava sulla mia maglietta, prima che mi dicesse: «Comunque, sei uno stronzo. Però hai un buon profumo.»

 

Alla fine costeggiai accanto ad una villetta. Aveva i classici tetti spioventi rossi per la neve ed un giardino non molto curato all’esterno.

La finestra al piano terra era rotta, ma nel complesso l’abitazione non sembrava malridotta.

Non era grande come la mia, certo.

Nessuna casa lo era.

 

La chiamai, girandomi un po’ verso di lei: «Ramona.»

Nessuna risposta.

«Ramona!» dissi, più forte.

Niente. Sentivo soltanto i grilli frinire per coprire il silenzio circostante.

A quel punto, scesi dalla moto con un balzo e, mentre mi toglievo il casco, mi girai, per gridarle contro.

Mi stava facendo perdere tempo e Barrington mi aveva concesso solo mezz’ora.

Ma poi, mi accorsi che era accaduto il peggio.

Si era addormentata.

Per due minuti non feci altro che imprecare.

Me ne stavo lì, sul ciglio della strada, immobile, e vomitavo parolacce su parolacce.

Lei emise un gemito, appena percettibile, ma fu abbastanza per farmi scuotere e riprendere.

 

Le tolsi il casco e sistemai tutti i capelli biondi che le ricadevano sul viso. Poi, la presi in braccio e la sentii inspirare sul mio collo, mentre mi avvicinavo alla porta della casa.

«Ramona.» sussurrai. «Svegliati.»

 

Sussultò, ma solo per un attimo. «Non ora, mamma… altri cinque minuti e poi vado scuola.» farfugliò.

 

Risi. La situazione diventava ogni secondo più tragica. «No, non sono tua madre.»

 

Aprì un poco gli occhi e sembrò mettermi a fuoco. «Chi sei, Evan?»

 

Annuii. «Bingo. Devo portarti dentro casa. Che faccio, suono?»

 

Scosse la testa, confusa. «No, c’è… c’è mia madre, sta dormendo… non la voglio svegliare.»

 

«Non hai le chiavi?» Scosse ancora quella piccola testolina bacata che si ritrovava. «Sei incredibile. In senso negativo, ovviamente.»

 

Mi squadrò, offesa. «E tu sei poco pratico. Ho già pensato ad un’idea.»

 

«Che sarebbe?»

Invece di rispondermi, si morse il labbro e abbassò lo sguardo.

Alzai la voce e ripetei:«Che sarebbe?»

 

Mi fissò, con aria di sfida, e mi rispose:«Passare attraverso la finestra, salire le scale e portarmi in camera mia senza che mia madre si accorga di niente.» Incrociò le braccia. «Ecco, te l’ho detto.»

 

Per poco non la lasciai cadere sull’asfalto dalla sorpresa. «COSA?!» gridai. «Non ho ancora il potere di trasformarmi in fantasma e di attraversare i muri, in caso non l’avessi notato.»

 

«Peccato, forse te ne saresti un po’ più zitto. Non quella del primo piano, cretino. Quella del piano terra. È rotta, vedi?»

 

«Sì, vedo, ma… come faccio a saltarci con te in braccio?»

 

Si strinse nelle spalle, come se non fossero fatti suoi. «Hai i muscoli, no? Beh, usali.»

 

Era stupefacente come riuscisse a farmi imprecare più volta in soli cinque minuti.

Non so neanch’io come feci, ma presi lo slancio adatto e riuscimmo ad entrare.

Mi graffai soltanto un po’ sulla mano destra, ma non aveva importanza.

 

«Dovreste farla riparare. In questo modo potrebbe intrufolarsi chiunque e voi non ve ne accorgereste neppure.» sussurrai.

 

«Tante grazie, Capitan Ovvio.»

 

Sospirai, mentre iniziavo a salire le scale. «Dimmi, sei così acida con tutte?»

 

Mi fece la linguaccia. «Solo con chi mi sta antipatico.»

 

Scossi la testa, sorridendo. Avevo fatto tutto questo per lei e guarda un po’ come venivo ripagato…

 

«Ecco, adesso svolta a destra e ci sei.»

 

Mi ritrovai di fronte ad una porta mezza socchiusa. La aprii senza troppe cerimonie e, facendo attenzione, appoggiai con delicatezza Ramona sul letto.

 

«Beh, credo di meritarmi appena un...»

 

Si alzò sulle ginocchia e mi baciò sulla guancia. Poi, mi sussurrò:«G-grazie.»

 

Notai che stava tremando e le diedi la mia sciarpa. «Non posso darti il mio giubbotto, quello mi serve, ma credo che questa andrà bene lo stesso.»

 

Se la mise intorno al collo e inspirò l’aria per un attimo.

 

«Allora... ciao.» dissi, sorridendole.

 

Le voltai le spalle e feci per uscire dalla camera, ma la sua voce arrivò flebile alle mie orecchie. «Ci rivedremo?»

 

Pensai a tutto quello che mi aspettava domani: alle valigie che dovevo ancora preparare, al viaggio, al rivedere mio padre e Kevin.

«Credo di no.» le sussurrai. Poi, tornai indietro, le posai un bacio sui capelli biondi e feci al contrario il percorso di prima.

 

Uscii all’aria fresca, sfregandomi le mani, e saltai in sella alla mia moto.

 

’Notte.” pensai.

Mi rinfilai il casco e ripartii, mentre sentivo, per la seconda volta in quella sera, i grilli che popolavano la notte.

 

 

***

 

 

God knows what is hiding, in that world of little consequence.
Behind the tears, inside the lies,
a thous
and slowly dying sunsets.
God knows what is hiding in those weak and drunken hearts.
I guess the loneliness came knocking.
No one needs to be alone. Oh, save me.
People help the people,
and if your homesick, give me your hand, and I'll hold it.
People help the people,
and nothing will drag you down.

 

 

Dio sa cosa quel mondo di poca importanza nasconde.

Dietro le lacrime, dentro le bugie,

un migliaio di tramonti lenti che muoiono.

Dio sa cosa quei cuori deboli e ubriachi nascondono.

Immagino che la solitudine venga a bussare.

Nessuno merita di stare da solo. Salvami.

Le persone si aiutano,

e se hai nostalgia di casa, dammi la tua mano, e io la stringerò.

Le persone si aiutano,

e niente ti trascinerà verso il basso.

 

~ Birdy – People Help The People

   
 
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