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Autore: Ai Khanum    26/05/2014    3 recensioni
Questo racconto è arrivato 7° al Contest Letterario Bookshelf - Solanum XXIV
La guerra si è conclusa, e con essa un capitolo importantissimo della vita terrestre. A farne le spese sono coloro che non hanno i mezzi economici per poter sognare un’esistenza migliore. Ma a questo si deve ridurre la felicità? Esistono ancora i meravigliosi tratti umani che ci differenziano dagli animali? Domande a cui solo due personaggi completamente diversi, e al contempo del tutto complementari, possono dar risposta.
Genere: Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'Arte del Cambiamento

L’Arte del Cambiamento

 

 

 

 

Anno 2720.

Le Memorie di Angelica, 7 marzo.

 

Sono trascorsi sette mesi dall’ultima volta in cui ho partecipato ad un raid insieme al gruppo.  Sette mesi in cui ho patito la fame, la sete, le malattie. Purtroppo per me sono una dei reietti, come ci definiscono i civili ancora integri.
Non ho vissuto la fine della guerra, è successo quasi vent’anni fa. Cina e America si scontrarono alla ricerca di ben più felici lidi di quello terrestre, in sperdute regioni interspaziali dove la corruzione umana ancora non aveva attecchito.
Avvenne tutto in pochi anni, le due potenze si bersagliarono con le più potenti armi batteriologiche esistenti, perché ormai i bombardamenti atomici erano ritenuti decisamente all’antica, barbare manifestazioni di potenza. L’ultima moda del momento era il virus KRVI, Kronicol Radium Sesto, un aggressivo agente patogeno che si impossessava prima dei tessuti, quindi delle cellule neurali, masticandole e riducendole a brandelli nel giro di qualche settimana. Unico intoppo: non muori. O meglio, è solo una fase di transizione. Dopo il decadimento cellulare avviene una morte apparente che dura circa tre giorni, la quale crea una metamorfosi nelle cellule neurologiche e le possiede, letteralmente, facendo agire i soggetti affetti secondo principi non ancora studiati, ma con efferata violenza e istinto di cannibalismo. Inutile dire che quest’arma, di provenienza cinese, batté non solo l’arma americana ma impedì agli scienziati di trovarvi rimedio. La corsa alla patria paradisiaca spaziale doveva continuare e quando le autorità cinesi, insieme ad un gruppo d’elitè, presero il volo per non far più ritorno sulla Terra, tutti coloro che potevano permetterselo, americani e non, li seguirono.
Il resto è storia.

 

Caldo, caldo soffocante. Era questa la sensazione che sentiva. Angelica si trovava in uno degli imponenti magazzini abbandonati, all’ombra di una grande saracinesca aperta per metà in senso obliquo. Era accovacciata nell’ombra notturna, madida di sudore. Si grattò la pelle della guancia sinistra, al di sotto della benda. Quando si guardò le dita le vide rosse di sangue, con piccoli brandelli di pelle tra le unghie. Merda. Il motivo per cui si trovava da sola, per cui nessuno voleva averla accanto…
“Svelti, prima che la zona diventi pericolosa!” l’urlo di un uomo volitivo, evidentemente un capobanda.
Angelica lasciò perdere i suoi cupi pensieri e si preparò a correre. Avrebbe seguito a distanza ravvicinata il gruppo, per poter beneficiare delle loro scorribande senza essere vista. Vide da sotto la saracinesca i piedi di più di una trentina di persone che si spostavano velocemente, alla ricerca di viveri e medicine. Attese qualche istante prima di correre dietro la piccola folla, quindi si slanciò, per quanto l’ingombro di stracci che la ricopriva glielo permettesse. Ai suoi lati palazzoni diroccati dalle finestre rotte, insegne pubblicitarie in continuo loop, che parlavano di tempi sereni, di profumi e di bellezza. Altre urla concitate davanti a lei, scalpiccio di piedi e rumori metallici, di armi sistemate a tracolla, di mirini puntati. A testa bassa la ragazza si aggregò alle altre persone, i lunghi capelli ondulati bianchi che le scendevano ai lati del viso, a coprire le bende che vi dimoravano sopra. Alle mani ci pensavano i guanti dalle dita tagliate, nonostante le lesioni cutanee stessero prendendo il sopravvento.
Eccoli i preziosi viveri, la benedetta acqua. Angelica corse a perdifiato, virando verso un angolino del supermercato ancora inesplorato dalla folla, preoccupata di accaparrarsi le rare medicine e cerotti che ancora si potevano trovare in giro. L’albina aveva le tasche pesanti e già stava pensando di sgattaiolare via con due-tre bottiglie d’acqua, quando sentì una presa quasi ferina stringerle spasmodicamente le spalle e il ventre. Abbassò lo sguardo e vide mani terribilmente magre, dalla pelle sfilacciata e corrosa fino all’osso in più punti, che stringevano. Istintivamente si mise a gridare.
Uno, due, tre spari. Rantoli raccapriccianti. Angelica alzò lo sguardo dritto innanzi a sé e vide il capobanda puntarle il fucile addosso, mentre urlava qualcosa alla gente che correva a perdi fiato dietro di lui, lontano dal supermercato, verso la salvezza. La fanciulla sentì ancora un rantolo, prima di percepire quelle luride mani tirarle le bende dal viso e i capelli. No!
Alla ricerca di un ultimo appiglio prima di cadere indietro,  il non morto si era portato a terra perfino una ciocca candida e serica. Colpito e trapassato al cranio, aperto tanto quanto bastava a vedere l’attaccatura tra i due occhi e il cervello. Angelica rimase immobile, le bottiglie ai suoi piedi, le tasche ancora piene di scatolette di cibo. Tremava. L’uomo di fronte a lei la bersagliava ancora con il fucile, con gli occhi sgranati e il sudore ad imperlargli la fronte. “Schifosa zombie, adesso siete diventati intelligenti?! Ammazzerò anche te, figlia di puttana!” Angelica sentì mancarle il fiato mentre l’uomo si preparava a colpire. Chiuse gli occhi, attese.
Silenzio. Perché non accade nulla? Aspettò uno, due secondi. Niente. Con cautela si decise ad aprire gli occhi, quasi con quel gesto potesse decidere della propria sorte. Ciò che vide fu strano, e le diede l’impressione di guardare la scena in terza persona. Una figura era davanti a lei, il braccio sinistro puntato verso l’uomo, che ora aveva le braccia portate al collo, gli occhi strabuzzati. Si accasciò a terra con un tonfo. Angelica spostò gli occhi dall’individuo armato al suo salvatore. Ebbe appena il tempo di vedere freddi occhi meccanici, in un’espressione priva di sentimenti, che svenne.

 “Perché mai avrebbe dovuto scegliere un semplice fante, dico io-o-o…” Frush, frush. “Perché non il più forte paladino di Francia! E poi, se lo sc-c-eglie anche ferito…” frush, frush.
Angelica aprì gli occhi di scatto, ma nel farlo sentì un bruciore fortissimo che la obbligò a richiuderli subito. Sentì ancora il rumore di pagine sfogliate e con un altro scatto, gli occhi lacrimanti, si mise a sedere e girò la testa verso la figura che parlava.
“Tu!” Esclamò mentre la vista le si annebbiava per il movimento istantaneo. Diamine, non vedo più nulla! Imprecò la ragazza tra sé e sé mentre si stropicciava gli occhi per rimettere a fuoco ciò che le stava intorno il più in fretta possibile. “Ladro, ridammi il libro!” esclamò quando riuscì a riaprirli. Di fianco a lei stava accovacciata una figura robotica, di sembianze umanoidi, impolverata e ammaccata, ma perfettamente funzionante. La guardava con espressione neutra, l’unica che potesse esprimere, e quando parlò la sua voce era vagamente metallica ed andava in loop per alcuni nanosecondi, per poi riprendersi: “Non sono-o-o un ladro, questo libro si trovava lì. Quindi tecnicamente se non stava addosso a te-e, non è di nessuno, giusto?” indicò un angolo dall’altro lato di Angelica, accanto al materasso su cui sedeva. Un comodino privo di cassetto e tarmato ospitava una bottiglia d’acqua aperta. La ragazza si guardò attorno. Si trovava nel suo covo personale, una cantina abbandonata nella periferia della città, con la solita lampadina che ad intermittenza lampeggiava e il ronzio di un frigorifero ormai vecchio che nonostante tutto funzionava quel che bastava per mantenere i cibi freschi per due o tre giorni.
Angelica si girò nuovamente verso il robot ed esclamò ancora: “Come… Come ci troviamo qui?”
“Eri svenuta ed ho pen-n-n-sato che sarebbe stato meglio portarti in un luogo sicuro. Ho effettuato una scansione delle tue cellule cerebrali ricercando la parola-chiave casa. Voi-i-i umani la chiamate così, giusto?”
“Una scansione del mio cervello?!” Angelica sgranò gli occhi. Aprì la bocca per ribattere ancora ma si trattenne. Non aveva senso sgridarlo, in fondo le aveva salvato la vita. Invece continuò: “Se fosse possibile, preferirei che non mi scansionassi più la testa, mi inquieta un po’. Come mai sei rimasto qui?”
Il robot richiuse il libro e lo porse ad Angelica, nel frattempo rispose: “Non succederà più-ù-ù. Tuttavia, in quella scansione ho visionato alcune situazioni di pericolo. E tu non sei una-a-a di quelle creature che hanno contratto il virus KRVI. Sono stato creato per assistere la vostra razza in caso di difficoltà. E tu lo sei.” La semplicità di quel discorso fu un pugno in pieno stomaco per Angelica, che deglutì ed inspirò profondamente. Prima che potesse rispondere, però, il robot continuò: “Se non tieni a bada la lebbra, morirai. La malattia sta avanzando, il tuo viso ne è solo uno degli esempi.” L’albina posò istintivamente le dita alle guance, scarnificate e dolorose in quella sensazione di prurito continuo. “Non è così semplice come pensi.” Sussurrò a testa bassa. “Le medicine non sono abbondanti di questi tempi, la gente va alla ricerca di queste invece che di cibo ed io non faccio più parte dei gruppi che circolano per la città. Non potrei nemmeno, mi scambiano per una di quelle bestie senza senno. Anche il ragazzo che amavo mi ha emarginata per questo.” Tornò a guardare il robot con le lacrime agli occhi e questo la sorprese con il suo gesto: allungò la mano destra con delicatezza e gliele asciugò. Non poteva sorridere, né cambiare espressione. Quando parlava le labbra si muovevano solo su e giù, tuttavia l’i.a. di cui era predisposto faceva sì che la modulazione del suono risultasse quanto più vicina alla riproduzione dei sentimenti umani. “Non piangere, Angelica del Catai, Orlando penserà a te d’ora in poi.”

 Il tempo passava in uno stato di tranquillità quasi utopica. Orlando si muoveva velocemente e riusciva a portare dei pesi considerevoli, mentre Angelica poteva dedicarsi alla sua salute e al suo hobby preferito: il giardinaggio. La casa che aveva scelto come covo, di cui utilizzava solo la cantina per sicurezza, era recintata da un’alta palizzata in legno imbiancato ormai scrostato, e all’interno vi era un piccolo giardinetto lasciato andare alle erbacce. Grazie alle ricetrasmittenti ad energia solare e a segnale satellitare che Orlando aveva trovato in un’altra casa poco lontana, la ragazza poteva contattare l’androide in caso di necessità. Angelica si prendeva cura delle piante e ne aggiungeva ogni qualvolta l’automa ne trovava delle altre, e nel frattempo i due parlavano di tutto ciò che gli passava per la testa.
“Ma perché hai scelto proprio Orlando? Medoro è così romantico nei confronti di Angelica!” stava ribattendo la ragazza ad una discussione assai lunga che aveva avuto luogo fin da quando si erano conosciuti. “E perché mai dov-v-rei scegliere un povero saraceno che con un colpo di fortuna si porta via l’eroina quando ho il più forte paladino di Francia che ha in sé tutte le qualità per essere il candidato ideale per una principessa-a-a?” La voce di Orlando si sentiva gracchiante ma chiara nella ricetrasmittente. Angelica l’aveva appesa alla cintura, mentre stava accovacciata accanto una pianta che stava curando sotto il tiepido sole invernale. “Sì ma la storia non va così!”  reiterò l’albina, ridendo.
“Vi facevo meno limitati voi umani. Chi dice che non ci si può ricamare sopra ad una storia già costruita? In realtà anche Rinaldo mi piace come personagg-g-g-io, ma dato che tu ti chiami Angelica non potevo scegliere di chiamarmi altrimenti.”

Se noi umani siamo limitati, tu sei un megalomane! Ti vai a scegliere solo gli eroi più forti! Anche nell’Iliade ti rivedevi in Aiace, e nell’Odissea avevi dato una chance ad Ulisse solo perché gli è stato dedicato un poema, guarda un po’!” la ragazza si sistemò le bende sulla fronte, così che le escoriazioni non le bruciassero per il freddo. “Dovrei paragonarmi a Paride? Chi ti ha portato il l-l-letto in cantina con una mano sola? Attendere prego…”
Angelica abbassò lo sguardo sulla ricetrasmittente. Sentì dei rumori strani, delle urla e degli spari. Si mise in ginocchio e sganciò la ricetrasmittente dalla cintura, per poi avvicinarla alle orecchie. Dei battiti metallici le segnalarono che Orlando aveva cominciato a correre, quindi sentì graffiare sul metallo, e infine silenzio.
“Orlando?” chiamò la ragazza con voce preoccupata, e premette al lato della ricetrasmittente per alzare il volume. “Orlando, ci sei ancora?” Nessuna risposta. Deglutì, e ripeté: “Orlando rispondi. E’ tutto okay?”
Una presa da dietro le spalle la fece sobbalzare e l’esclamazione successiva le fece scaturire un urlo stridulo. “Buuh!”
Angelica si girò di scatto, con il cuore in gola, e vide Orlando a chiazze rosse sulla lamiera sporca già di suo che la salutava con la mano. “Ma sei impazzito?! Stupida lattina, non lo fare mai più!!!” Urlò la ragazza, mentre le lacrime le scendevano per il viso e il cuore batteva ancora forte. Istintivamente diede una pacca sul petto provvisto di sportello del robot e imprecò per il dolore. “Dannazione, sei una lattina stupida e dura per di più!”
“Non succederà più. Volevo farti un-n-a sorpresa. Quelli che chiami zombie, però, sono nella zona. Ci conviene scendere in cantina per un po’.” Allungò la mano verso quella indolenzita di Angelica, che intanto lo guardava da capo a piedi. “Quanto sangue, cosa è successo? Ho sentito delle urla.”
“A due chilometri da qui circolava uno dei gruppi di profughi e li ho seguiti. Hanno trovato un altro magazzino con delle riserve di viveri e medicine, sol-l-lo che gli zombie gli hanno teso un’imboscata. Uno di loro mi ha scambiato per un umano e mi ha attaccato. No, non tocca-a-armi a mani nude. Il virus si diffonde tramite il contatto con la saliva o il sangue.” La ragazza annuì e si alzò.
Angelica mise i guanti in lattice che le aveva portato Orlando così da poterlo pulire senza incorrere nel rischio che le proprie piaghe si mescolassero al sangue infetto. Le piaceva prendersi cura della “sua lattina”, come amava definire l’automa. Aveva trovato un essere con cui condividere qualcosa, che la riteneva talmente importante da doverla proteggere.
Ormai la cantina era stata rivoluzionata. Le straordinarie caratteristiche di Orlando gli permettevano anche di avere conoscenze istantanee di ogni cosa che leggeva. Quindi arredamento, pittura, impianti elettrico ed idraulico, tutto era stato rimodernato a misura di due persone, perché era così che Angelica pensava al robot. Sfortunatamente l’unica cosa a cui Orlando non poteva provvedere era la malattia della giovane albina. La cura era stata trovata già da qualche secolo, ma non era mai stato, purtroppo per lei, un caso clinico talmente diffuso da rendere necessaria la messa in commercio del farmaco. Lei poteva solo sperare che le condizioni di vita migliorate le garantissero un periodo di vita più lungo.
“Orlando, non ti ho ancora chiesto qual è il tuo nome.” Disse mentre guardava l’automa, ora totalmente pulito.
“Perché me lo chied-d-di?” domandò Orlando mentre si guardava allo specchio ed ammirava, quasi con vanità, la propria immagine riflessa.
“So tanto di te, di ciò che hai visto, dei cambiamenti che hai vissuto dalla tua creazione. Però mi sono sempre chiesta come ti chiami. Voglio dire, prima che adottassi il nome Orlando.”
Il robot si girò verso Angelica e le si fece vicino, sedendosi sul divano accanto a lei. “E’ strano che tu me lo chieda, ness-s-s-uno si era mai interessato. C’è una cosa che non ti ho mai detto fino ad ora, ed è il motivo per cui sono sopravvissuto più a lungo di tutti quelli che erano come me. Non sono stato creato in serie, con una scadenza nel mio processore. C’è stato un uomo circa trecento anni fa che si ispirò ad un altro uomo, vissuto alla fine del secondo millennio A.D., che era biochimico e scrittore. Fui creato con il nome IA2400. Le iniziali corrispondono ad Isaac Asimov, il numero è il mio anno di nascita. Con me volle sviluppare una tecnologia in grado di mantenersi da sola e mi diede-e-e le conoscenze necessarie che mi avrebbero permesso di potermi riparare in qualsiasi situazione e di sopravvivere nel tempo.”
Angelica non rispose, rimase semplicemente a fissare il robot con espressione rapita.
“Ma tu non pensare a questo, preferisco essere chiamato Orlando. Mi fa sentire più vicino a chi mi ha creato e a te, Angelica del Catai.” Le prese le mani nelle sue, fredde e metalliche, e strinse leggermente. La ragazza annuì e, sciogliendo l’intreccio delle mani, abbracciò l’automa. “Grazie di esistere mio paladino di Francia”.

 Un anno. Era passato un anno da quando Angelica e Orlando si erano conosciuti. Ed era come se fosse una vita intera, una parentesi in cui il tempo si era fermato. Gli attacchi degli zombie non si erano mai spinti fino alla casa in periferia, ed avevano permesso ai due amici una vita tranquilla, inframmezzata dalle incursioni dell’androide per la città, alla ricerca del benessere per la propria protetta. Ormai la giovane albina si muoveva poco dal letto. Nonostante Orlando non si vergognasse di lei, Angelica aveva preteso ed ottenuto di essere ricoperta di bende sulle numerose piaghe che ormai le ricoprivano tutto il corpo. Respirava a fatica, e muoversi le causava dolori in tutto il corpo. Il robot le stava sempre vicino e le ripeteva a memoria i romanzi che andava trovando in giro che aveva scansionato nel proprio hard disk. Le leggeva di tutto, anche di libri di storia, di geografia, le faceva vedere film vecchi e nuovi tramite la proiezione sullo schermo delle immagini.
“Orlando, vorrei ballare con te…” sussurrò la giovane mentre il robot le leggeva il capitolo ventitreesimo dell’Orlando Furioso. L’androide si fermò nella sua recitazione e le chiese: “Me lo chiedi proprio sul più bello?” Angelica sorrise ed annuì. “Cambiamo la trama del poema. Orlando trova Angelica accanto un albero che incide il proprio nome con quello del Paladino, mentre il nome di Medoro è stato appena cancellato.”
“Mio amor, ordunque è menzogna quella che v-v-vidi? Non ami tu Medoro, invero?” rispose il droide mentre prendeva per i fianchi la ragazza e le faceva mettere i piedi sopra i propri. Angelica strinse le braccia al collo del robot e rispose: “Mai, mai dolce eroe senza viltà, è a te che dono il mio cuor pulsante e colmo d’amor!” Lentamente Orlando cominciò a muoversi in un lento, mentre faceva partire una musica malinconica, guidata da una voce lirica femminile. Stettero in silenzio, in quel movimento rotatorio e dolce. Angelica scese per un attimo dai piedi di Orlando e seguì i movimenti del droide, lasciando che lui la facesse piroettare e quindi la riprendesse sopra i suoi piedi.
La musica ricominciò più e più volte, ma sempre meno erano i movimenti di Angelica.
Quando per l’ultima volta la musica terminò, Orlando prese in braccio la giovane e la stese a letto, pallida e  silenziosa. Seduto accanto a lei, stette a guardarla per ore, a osservare il suo sorriso violaceo, a tenerle la mano. Fu solo dopo giorni che si smosse da quella posizione, per prendere il libro che l’albina teneva sul comodino. Lo portò di fronte al volto e l’aprì. Un foglio di carta scritto cadde con un fruscio. Orlando lo prese e lesse, quindi riposò il foglio dentro il libro, ed il libro dentro lo sportello del suo torace. Si sdraiò accanto a lei e rimase immobile, a fissare il profilo della giovane.

 “Hai visto quel giardino? Sembra un’isola paradisiaca in mezzo al nulla! Scendiamo a vedere.”
La navicella puntò dritto verso una casa diroccata, con l’intonaco a pezzi. Attorno, desolazione e devastazione, rovine di altre case semi-distrutte, altre completamente rase al suolo. Ma non la casa del giardino. E presto i due uomini si accorsero del perché. La recinzione era ancora attiva.
“Incredibile, non credi? Secondo i registri di memoria dei satelliti sulla terra non c’è più vita umana da quattro secoli. Eppure qui funziona ancora la corrente.” Disse l’altro uomo. Usarono gli stivali a nanopropulsori per poter passare dall’altro lato del recinto. La vegetazione nel giardino non era curata, ma sopravviveva ancora. Uno degli astronauti rimase ad osservare quella scena, chiamato dopo un po’ dal suo collega. “Guarda cosa ho trovato, pazzesco!”
Scesero entrambi per le scale della cantina e trovarono una stanza adibita a monolocale, molto impolverata ma ancora intatta. Su un letto c’era un droide posto supino con lo sportello sul petto semiaperto, accanto a lui uno scheletro con addosso vestiti femminili ormai ridotti a brandelli. Gli astronauti aprirono lo sportello del droide e vi trovarono un libro dal titolo “L’Orlando Furioso, di Ludovico Ariosto”. Aprirono la copertina, che scricchiolò. Da questa cadde un foglio per terra. Entrambi gli astronauti si guardarono e uno di loro lo prese. Era scritto in una grafia tremolante, ma tuttavia elegante. Lessero.

 “ 2724, 28 aprile.

 Caro Orlando,

 Non ho il coraggio di parlare, dunque ti scrivo. Devo ringraziarti.
Grazie perché, per merito tuo, ora so che la speranza non può mai morire.
Le mie condizioni sono ciò che di più bello poteva capitarmi perché, grazie ad esse, ti ho trovato. Con te ho conosciuto le meraviglie che la vita può offrire e che una storia, per quanto immortale, può essere cambiata. Ho capito che la mia vita stessa può essere capovolta, resa la più avventurosa possibile. Mi sei stato amico, fratello, compagno.
Sai, avevi ragione tu. Perché mai Angelica avrebbe dovuto scegliere Medoro, quando Orlando le avrebbe potuto offrire tutto il mondo con un solo sorriso? Per fortuna ci abbiamo pensato noi a sistemare tutto!
Ti ringrazio per essermi stato accanto, di essere esistito così a lungo da avermi incontrata e salvata.
La tua principessa del Catai,

 Angelica”

 

 

 

 

 

Angolino dell’Autrice!

 Buondì a tutti! Non vedevo l’ora di pubblicare questa storia, Angelica e Orlando sono stati dei colpi di fulmine per me quando mi è balenata l’idea in testa!!
Ci tengo a portare alla luce ciò che mi ha ispirato per la composizione di questa storia: innanzi tutto il libro (e film) di Isaac Asimov “Io Robot”, da cui sono stata influenzata per la forma fisica di Orlando. “L’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto, da cui ho “rubato” letteralmente i nomi ma che ho stravolto nell’anima (spero l’Ariosto non si stia girando nella tomba per questo!!). Infine due sono le musiche che mi hanno accompagnata per tutto il tempo della realizzazione della storia: la più importante, che mi ha dato l’imput per scrivere, è Sacrifice di Lisa Gerrard (la cantante che ha partecipato alla realizzazione della colonna sonora del Gladiatore con Hans Zimmer, per intenderci); l’altra, importante quasi quanto la prima perché mi ha accompagnato mentre scrivevo e ne faccio diretto riferimento nel racconto, è la colonna sonora di Natural City, film la cui tematica è molto simile a quella di Blade Runner e al mio racconto stesso.
Okay, ora mi zittisco che l’angolo autrice sta diventando più lungo della storia :P. Spero, tuttavia, che vi sia piaciuta l’idea e ringrazio Bookshelf per avermi permesso di scrivere questo racconto!

  
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