L’Arte
del Cambiamento
Anno 2720.
Le Memorie
di Angelica, 7 marzo.
Sono
trascorsi sette mesi dall’ultima volta in cui
ho partecipato ad un raid insieme al gruppo.
Sette mesi in cui ho patito la fame, la sete, le malattie.
Purtroppo per
me sono una dei reietti, come ci definiscono i civili ancora integri.
Non ho vissuto la fine della guerra, è successo
quasi vent’anni fa. Cina e America si scontrarono alla
ricerca di ben più
felici lidi di quello terrestre, in sperdute regioni interspaziali dove
la
corruzione umana ancora non aveva attecchito.
Avvenne tutto in pochi anni, le due potenze si
bersagliarono con le più potenti armi batteriologiche
esistenti, perché ormai i
bombardamenti atomici erano ritenuti decisamente all’antica,
barbare
manifestazioni di potenza. L’ultima moda del momento era il
virus KRVI,
Kronicol Radium Sesto, un aggressivo agente patogeno che si
impossessava prima
dei tessuti, quindi delle cellule neurali, masticandole e riducendole a
brandelli nel giro di qualche settimana. Unico intoppo: non muori. O
meglio, è
solo una fase di transizione. Dopo il decadimento cellulare avviene una
morte
apparente che dura circa tre giorni, la quale crea una metamorfosi
nelle
cellule neurologiche e le possiede, letteralmente, facendo agire i
soggetti
affetti secondo principi non ancora studiati, ma con efferata violenza
e
istinto di cannibalismo. Inutile dire che quest’arma, di
provenienza cinese,
batté non solo l’arma americana ma
impedì agli scienziati di trovarvi rimedio.
La corsa alla patria paradisiaca spaziale doveva continuare e quando le
autorità cinesi, insieme ad un gruppo
d’elitè, presero il volo per non far
più
ritorno sulla Terra, tutti coloro che potevano permetterselo, americani
e non,
li seguirono.
Il resto è storia.
Caldo, caldo
soffocante. Era questa la sensazione
che sentiva. Angelica si trovava in uno degli imponenti magazzini
abbandonati,
all’ombra di una grande saracinesca aperta per
metà in senso obliquo. Era
accovacciata nell’ombra notturna, madida di sudore. Si
grattò la pelle della
guancia sinistra, al di sotto della benda. Quando si guardò
le dita le vide
rosse di sangue, con piccoli brandelli di pelle tra le unghie. Merda. Il motivo per cui si trovava da
sola, per cui nessuno voleva averla accanto…
“Svelti, prima che la zona diventi pericolosa!”
l’urlo
di un uomo volitivo, evidentemente un capobanda.
Angelica lasciò perdere i suoi cupi pensieri e si
preparò a correre. Avrebbe seguito a distanza ravvicinata il
gruppo, per poter
beneficiare delle loro scorribande senza essere vista. Vide da sotto la
saracinesca i piedi di più di una trentina di persone che si
spostavano
velocemente, alla ricerca di viveri e medicine. Attese qualche istante
prima di
correre dietro la piccola folla, quindi si slanciò, per
quanto l’ingombro di
stracci che la ricopriva glielo permettesse. Ai suoi lati palazzoni
diroccati
dalle finestre rotte, insegne pubblicitarie in continuo loop, che
parlavano di
tempi sereni, di profumi e di bellezza. Altre urla concitate davanti a
lei,
scalpiccio di piedi e rumori metallici, di armi sistemate a tracolla,
di mirini
puntati. A testa bassa la ragazza si aggregò alle altre
persone, i lunghi
capelli ondulati bianchi che le scendevano ai lati del viso, a coprire
le bende
che vi dimoravano sopra. Alle mani ci pensavano i guanti dalle dita
tagliate,
nonostante le lesioni cutanee stessero prendendo il sopravvento.
Eccoli i preziosi viveri, la benedetta acqua.
Angelica corse a perdifiato, virando verso un angolino del supermercato
ancora
inesplorato dalla folla, preoccupata di accaparrarsi le rare medicine e
cerotti
che ancora si potevano trovare in giro. L’albina aveva le
tasche pesanti e già
stava pensando di sgattaiolare via con due-tre bottiglie
d’acqua, quando sentì
una presa quasi ferina stringerle spasmodicamente le spalle e il
ventre.
Abbassò lo sguardo e vide mani terribilmente magre, dalla
pelle sfilacciata e
corrosa fino all’osso in più punti, che
stringevano. Istintivamente si mise a
gridare.
Uno, due, tre spari. Rantoli raccapriccianti.
Angelica alzò lo sguardo dritto innanzi a sé e
vide il capobanda puntarle il
fucile addosso, mentre urlava qualcosa alla gente che correva a perdi
fiato
dietro di lui, lontano dal supermercato, verso la salvezza. La
fanciulla sentì
ancora un rantolo, prima di percepire quelle luride mani tirarle le
bende dal
viso e i capelli. No!
Alla ricerca di un ultimo appiglio prima di cadere
indietro, il non
morto si era portato a
terra perfino una ciocca candida e serica. Colpito e trapassato al
cranio,
aperto tanto quanto bastava a vedere l’attaccatura tra i due
occhi e il
cervello. Angelica rimase immobile, le bottiglie ai suoi piedi, le
tasche
ancora piene di scatolette di cibo. Tremava. L’uomo di fronte
a lei la
bersagliava ancora con il fucile, con gli occhi sgranati e il sudore ad
imperlargli la fronte. “Schifosa zombie, adesso siete
diventati intelligenti?!
Ammazzerò anche te, figlia di puttana!” Angelica
sentì mancarle il fiato mentre
l’uomo si preparava a colpire. Chiuse gli occhi, attese.
Silenzio. Perché
non accade nulla? Aspettò uno, due secondi.
Niente. Con cautela si decise
ad aprire gli occhi, quasi con quel gesto potesse decidere della
propria sorte.
Ciò che vide fu strano, e le diede l’impressione
di guardare la scena in terza
persona. Una figura era davanti a lei, il braccio sinistro puntato
verso
l’uomo, che ora aveva le braccia portate al collo, gli occhi
strabuzzati. Si
accasciò a terra con un tonfo. Angelica spostò
gli occhi dall’individuo armato
al suo salvatore. Ebbe appena il tempo di vedere freddi occhi
meccanici, in
un’espressione priva di sentimenti, che svenne.
Angelica aprì gli occhi di scatto, ma nel farlo
sentì un bruciore fortissimo che la obbligò a
richiuderli subito. Sentì ancora
il rumore di pagine sfogliate e con un altro scatto, gli occhi
lacrimanti, si
mise a sedere e girò la testa verso la figura che parlava.
“Tu!” Esclamò mentre la vista le si
annebbiava per
il movimento istantaneo. Diamine, non
vedo più nulla! Imprecò la ragazza tra
sé e sé mentre si stropicciava gli
occhi per rimettere a fuoco ciò che le stava intorno il
più in fretta
possibile. “Ladro, ridammi il libro!”
esclamò quando riuscì a riaprirli. Di
fianco a lei stava accovacciata una figura robotica, di sembianze
umanoidi, impolverata
e ammaccata, ma perfettamente funzionante. La guardava con espressione
neutra,
l’unica che potesse esprimere, e quando parlò la
sua voce era vagamente
metallica ed andava in loop per alcuni nanosecondi, per poi
riprendersi: “Non
sono-o-o un ladro, questo libro si trovava lì. Quindi
tecnicamente se non stava
addosso a te-e, non è di nessuno, giusto?”
indicò un angolo dall’altro lato di
Angelica, accanto al materasso su cui sedeva. Un comodino privo di
cassetto e tarmato
ospitava una bottiglia d’acqua aperta. La ragazza si
guardò attorno. Si trovava
nel suo covo personale, una cantina abbandonata nella periferia della
città,
con la solita lampadina che ad intermittenza lampeggiava e il ronzio di
un
frigorifero ormai vecchio che nonostante tutto funzionava quel che
bastava per mantenere
i cibi freschi per due o tre giorni.
Angelica si girò nuovamente verso il robot ed
esclamò ancora: “Come… Come ci troviamo
qui?”
“Eri svenuta ed ho pen-n-n-sato che sarebbe stato
meglio portarti in un luogo sicuro. Ho effettuato una scansione delle
tue
cellule cerebrali ricercando la parola-chiave casa. Voi-i-i umani la
chiamate
così, giusto?”
“Una scansione del mio cervello?!” Angelica
sgranò
gli occhi. Aprì la bocca per ribattere ancora ma si
trattenne. Non aveva senso
sgridarlo, in fondo le aveva salvato la vita. Invece
continuò: “Se fosse
possibile, preferirei che non mi scansionassi più la testa,
mi inquieta un po’.
Come mai sei rimasto qui?”
Il robot richiuse il libro e lo porse ad Angelica,
nel frattempo rispose: “Non succederà
più-ù-ù. Tuttavia, in quella scansione
ho
visionato alcune situazioni di pericolo. E tu non sei una-a-a di quelle
creature che hanno contratto il virus KRVI. Sono stato creato per
assistere la
vostra razza in caso di difficoltà. E tu lo sei.”
La semplicità di quel
discorso fu un pugno in pieno stomaco per Angelica, che
deglutì ed inspirò
profondamente. Prima che potesse rispondere, però, il robot
continuò: “Se non
tieni a bada la lebbra, morirai. La malattia sta avanzando, il tuo viso
ne è
solo uno degli esempi.” L’albina posò
istintivamente le dita alle guance,
scarnificate e dolorose in quella sensazione di prurito continuo.
“Non è così
semplice come pensi.” Sussurrò a testa bassa.
“Le medicine non sono abbondanti
di questi tempi, la gente va alla ricerca di queste invece che di cibo
ed io
non faccio più parte dei gruppi che circolano per la
città. Non potrei nemmeno,
mi scambiano per una di quelle bestie senza senno. Anche il ragazzo che
amavo
mi ha emarginata per questo.” Tornò a guardare il
robot con le lacrime agli
occhi e questo la sorprese con il suo gesto: allungò la mano
destra con
delicatezza e gliele asciugò. Non poteva sorridere,
né cambiare espressione. Quando
parlava le labbra si muovevano solo su e giù, tuttavia
l’i.a. di cui era
predisposto faceva sì che la modulazione del suono
risultasse quanto più vicina
alla riproduzione dei sentimenti umani. “Non piangere,
Angelica del Catai,
Orlando penserà a te d’ora in poi.”
“Ma perché hai scelto proprio Orlando? Medoro
è così
romantico nei confronti di Angelica!” stava ribattendo la
ragazza ad una
discussione assai lunga che aveva avuto luogo fin da quando si erano
conosciuti. “E perché mai dov-v-rei scegliere un
povero saraceno che con un
colpo di fortuna si porta via l’eroina quando ho il
più forte paladino di
Francia che ha in sé tutte le qualità per essere
il candidato ideale per una
principessa-a-a?” La voce di Orlando si sentiva gracchiante
ma chiara nella
ricetrasmittente. Angelica l’aveva appesa alla cintura,
mentre stava
accovacciata accanto una pianta che stava curando sotto il tiepido sole
invernale. “Sì ma la storia non va
così!”
reiterò l’albina, ridendo.
“Vi facevo meno limitati voi umani. Chi dice che non
ci si può ricamare sopra ad una storia già
costruita? In realtà anche Rinaldo
mi piace come personagg-g-g-io, ma dato che tu ti chiami Angelica non
potevo
scegliere di chiamarmi altrimenti.”
“Se noi umani
siamo limitati, tu sei un megalomane!
Ti vai a scegliere solo gli eroi più forti! Anche
nell’Iliade ti rivedevi in
Aiace, e nell’Odissea avevi dato una chance ad Ulisse solo
perché gli è stato
dedicato un poema, guarda un po’!” la ragazza si
sistemò le bende sulla fronte,
così che le escoriazioni non le bruciassero per il freddo.
“Dovrei paragonarmi
a Paride? Chi ti ha portato il l-l-letto in cantina con una mano sola?
Attendere prego…”
Angelica abbassò lo sguardo sulla ricetrasmittente.
Sentì dei rumori strani, delle urla e degli spari. Si mise
in ginocchio e sganciò
la ricetrasmittente dalla cintura, per poi avvicinarla alle orecchie.
Dei
battiti metallici le segnalarono che Orlando aveva cominciato a
correre, quindi
sentì graffiare sul metallo, e infine silenzio.
“Orlando?” chiamò la ragazza con voce
preoccupata, e
premette al lato della ricetrasmittente per alzare il volume.
“Orlando, ci sei
ancora?” Nessuna risposta. Deglutì, e
ripeté: “Orlando rispondi. E’ tutto
okay?”
Una presa da dietro le spalle la fece sobbalzare e
l’esclamazione successiva le fece scaturire un urlo stridulo.
“Buuh!”
Angelica si girò di scatto, con il cuore in gola, e
vide Orlando a chiazze rosse sulla lamiera sporca già di suo
che la salutava
con la mano. “Ma sei impazzito?! Stupida lattina, non lo fare
mai più!!!” Urlò
la ragazza, mentre le lacrime le scendevano per il viso e il cuore
batteva
ancora forte. Istintivamente diede una pacca sul petto provvisto di
sportello
del robot e imprecò per il dolore. “Dannazione,
sei una lattina stupida e dura
per di più!”
“Non succederà più. Volevo farti un-n-a
sorpresa.
Quelli che chiami zombie, però, sono nella zona. Ci conviene
scendere in
cantina per un po’.” Allungò la mano
verso quella indolenzita di Angelica, che
intanto lo guardava da capo a piedi. “Quanto sangue, cosa
è successo? Ho
sentito delle urla.”
“A due chilometri da qui circolava uno dei gruppi di
profughi e li ho seguiti. Hanno trovato un altro magazzino con delle
riserve di
viveri e medicine, sol-l-lo che gli zombie gli hanno teso
un’imboscata. Uno di
loro mi ha scambiato per un umano e mi ha attaccato. No, non
tocca-a-armi a
mani nude. Il virus si diffonde tramite il contatto con la saliva o il
sangue.”
La ragazza annuì e si alzò.
Angelica mise i guanti in lattice che le aveva
portato Orlando così da poterlo pulire senza incorrere nel
rischio che le
proprie piaghe si mescolassero al sangue infetto. Le piaceva prendersi
cura
della “sua lattina”, come amava definire
l’automa. Aveva trovato un essere con
cui condividere qualcosa, che la riteneva talmente importante da
doverla
proteggere.
Ormai la cantina era stata rivoluzionata. Le
straordinarie caratteristiche di Orlando gli permettevano anche di
avere
conoscenze istantanee di ogni cosa che leggeva. Quindi arredamento,
pittura,
impianti elettrico ed idraulico, tutto era stato rimodernato a misura
di due
persone, perché era così che Angelica pensava al
robot. Sfortunatamente l’unica
cosa a cui Orlando non poteva provvedere era la malattia della giovane
albina.
La cura era stata trovata già da qualche secolo, ma non era
mai stato, purtroppo
per lei, un caso clinico talmente diffuso da rendere necessaria la
messa in
commercio del farmaco. Lei poteva solo sperare che le condizioni di
vita
migliorate le garantissero un periodo di vita più lungo.
“Orlando, non ti ho ancora chiesto qual è il tuo
nome.” Disse mentre guardava l’automa, ora
totalmente pulito.
“Perché me lo chied-d-di?”
domandò Orlando mentre si
guardava allo specchio ed ammirava, quasi con vanità, la
propria immagine
riflessa.
“So tanto di te, di ciò che hai visto, dei
cambiamenti che hai vissuto dalla tua creazione. Però mi
sono sempre chiesta
come ti chiami. Voglio dire, prima che adottassi il nome
Orlando.”
Il robot si girò verso Angelica e le si fece vicino,
sedendosi sul divano accanto a lei. “E’ strano che
tu me lo chieda, ness-s-s-uno
si era mai interessato. C’è una cosa che non ti ho
mai detto fino ad ora, ed è
il motivo per cui sono sopravvissuto più a lungo di tutti
quelli che erano come
me. Non sono stato creato in serie, con una scadenza nel mio
processore. C’è
stato un uomo circa trecento anni fa che si ispirò ad un
altro uomo, vissuto alla
fine del secondo millennio A.D., che era biochimico e scrittore. Fui
creato con
il nome IA2400. Le iniziali corrispondono ad Isaac Asimov, il numero
è il mio
anno di nascita. Con me volle sviluppare una tecnologia in grado di
mantenersi
da sola e mi diede-e-e le conoscenze necessarie che mi avrebbero
permesso di
potermi riparare in qualsiasi situazione e di sopravvivere nel
tempo.”
Angelica non rispose, rimase semplicemente a fissare
il robot con espressione rapita.
“Ma tu non pensare a questo, preferisco essere
chiamato Orlando. Mi fa sentire più vicino a chi mi ha
creato e a te, Angelica
del Catai.” Le prese le mani nelle sue, fredde e metalliche,
e strinse
leggermente. La ragazza annuì e, sciogliendo
l’intreccio delle mani, abbracciò
l’automa. “Grazie di esistere mio paladino di
Francia”.
“Orlando, vorrei ballare con te…”
sussurrò la
giovane mentre il robot le leggeva il capitolo ventitreesimo
dell’Orlando
Furioso. L’androide si fermò nella sua recitazione
e le chiese: “Me lo chiedi
proprio sul più bello?” Angelica sorrise ed
annuì. “Cambiamo la trama del
poema. Orlando trova Angelica accanto un albero che incide il proprio
nome con
quello del Paladino, mentre il nome di Medoro è stato appena
cancellato.”
“Mio amor, ordunque è menzogna quella che
v-v-vidi?
Non ami tu Medoro, invero?” rispose il droide mentre prendeva
per i fianchi la
ragazza e le faceva mettere i piedi sopra i propri. Angelica strinse le
braccia
al collo del robot e rispose: “Mai, mai dolce eroe senza
viltà, è a te che dono
il mio cuor pulsante e colmo d’amor!” Lentamente
Orlando cominciò a muoversi in
un lento, mentre faceva partire una musica malinconica, guidata da una
voce
lirica femminile. Stettero in silenzio, in quel movimento rotatorio e
dolce.
Angelica scese per un attimo dai piedi di Orlando e seguì i
movimenti del
droide, lasciando che lui la facesse piroettare e quindi la riprendesse
sopra i
suoi piedi.
La musica ricominciò più e più volte,
ma sempre meno
erano i movimenti di Angelica.
Quando per l’ultima volta la musica terminò,
Orlando
prese in braccio la giovane e la stese a letto, pallida e silenziosa. Seduto accanto a
lei, stette a
guardarla per ore, a osservare il suo sorriso violaceo, a tenerle la
mano. Fu
solo dopo giorni che si smosse da quella posizione, per prendere il
libro che
l’albina teneva sul comodino. Lo portò di fronte
al volto e l’aprì. Un foglio
di carta scritto cadde con un fruscio. Orlando lo prese e lesse, quindi
riposò
il foglio dentro il libro, ed il libro dentro lo sportello del suo
torace. Si
sdraiò accanto a lei e rimase immobile, a fissare il profilo
della giovane.
La navicella puntò dritto verso una casa diroccata,
con l’intonaco a pezzi. Attorno, desolazione e devastazione,
rovine di altre
case semi-distrutte, altre completamente rase al suolo. Ma non la casa
del
giardino. E presto i due uomini si accorsero del perché. La
recinzione era
ancora attiva.
“Incredibile, non credi? Secondo i registri di
memoria dei satelliti sulla terra non c’è
più vita umana da quattro secoli.
Eppure qui funziona ancora la corrente.” Disse
l’altro uomo. Usarono gli
stivali a nanopropulsori per poter passare dall’altro lato
del recinto. La vegetazione
nel giardino non era curata, ma sopravviveva ancora. Uno degli
astronauti
rimase ad osservare quella scena, chiamato dopo un po’ dal
suo collega. “Guarda
cosa ho trovato, pazzesco!”
Scesero entrambi per le scale della cantina e
trovarono una stanza adibita a monolocale, molto impolverata ma ancora
intatta.
Su un letto c’era un droide posto supino con lo sportello sul
petto semiaperto,
accanto a lui uno scheletro con addosso vestiti femminili ormai ridotti
a
brandelli. Gli astronauti aprirono lo sportello del droide e vi
trovarono un
libro dal titolo “L’Orlando Furioso, di Ludovico
Ariosto”. Aprirono la
copertina, che scricchiolò. Da questa cadde un foglio per
terra. Entrambi gli
astronauti si guardarono e uno di loro lo prese. Era scritto in una
grafia
tremolante, ma tuttavia elegante. Lessero.
Grazie perché, per merito tuo, ora so che la
speranza non può mai morire.
Le mie condizioni sono ciò che di più bello
poteva
capitarmi perché, grazie ad esse, ti ho trovato. Con te ho
conosciuto le
meraviglie che la vita può offrire e che una storia, per
quanto immortale, può
essere cambiata. Ho capito che la mia vita stessa può essere
capovolta, resa la
più avventurosa possibile. Mi sei stato amico, fratello,
compagno.
Sai, avevi ragione tu. Perché mai Angelica avrebbe
dovuto scegliere Medoro, quando Orlando le avrebbe potuto offrire tutto
il
mondo con un solo sorriso? Per fortuna ci abbiamo pensato noi a
sistemare
tutto!
Ti ringrazio per essermi stato accanto, di essere
esistito così a lungo da avermi incontrata e salvata.
La tua principessa del Catai,
Angolino
dell’Autrice!
Ci tengo a portare alla luce ciò che mi ha
ispirato per la composizione di questa storia: innanzi tutto il libro (e film) di Isaac Asimov “Io
Robot”,
da cui sono stata influenzata per la forma fisica di Orlando. “L’Orlando Furioso”
di Ludovico Ariosto,
da cui ho “rubato” letteralmente i nomi ma che ho
stravolto nell’anima (spero l’Ariosto
non si stia girando nella tomba per questo!!). Infine due sono le
musiche che
mi hanno accompagnata per tutto il tempo della realizzazione della
storia: la
più importante, che mi ha dato l’imput per
scrivere, è Sacrifice di Lisa
Gerrard (la cantante che ha partecipato alla
realizzazione della colonna sonora del Gladiatore con Hans Zimmer, per
intenderci); l’altra, importante quasi quanto la prima
perché mi ha
accompagnato mentre scrivevo e ne faccio diretto riferimento nel
racconto, è la
colonna sonora di Natural City, film
la cui tematica è molto simile a quella di Blade Runner e al
mio racconto
stesso.
Okay, ora mi zittisco che l’angolo autrice sta
diventando più lungo della storia :P. Spero, tuttavia, che
vi sia piaciuta l’idea
e ringrazio Bookshelf per avermi permesso di scrivere questo racconto!