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Autore: Ely79    26/05/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 34
34

«Occorrerà un controllo della contrattualistica alla luce del Decreto Coloniale n° 10.071 circa le formule standard per gli accordi con i fornitori. Alcuni documenti stilati con precedenti fornitori potrebbero non risultare perfettamente congrui. In diversi casi poi i timbri e le firme sono illeggibili, ciò potrebbe…»
«Basta» mormorò Charlotte abbandonando la matita tra i fogli.
Il suono della voce di Thomas la nauseava, non ne poteva più. Era stanca di passare in rassegna valanghe di carte inchiostrate col solo risultato di non capire più cosa stesse guardando. Erano le diciannove e dalle sette di quella mattina aveva perduto il conto dei fascicoli che era stata costretta a prendere, consultare, riporre e riprendere daccapo. Ormai confondeva le bolle di ricevimento merce con i dépliant pubblicitari, sbagliava i conteggi più semplici e a malapena riusciva a fornire risposte coerenti ai clienti che chiamavano. Quella figura scura e incombente risucchiava ogni stilla d’energia con la sua sola presenza. In certi momenti, aveva l’impressione che inghiottisse aria e luce, creando una sorta di sottovuoto.
«Come ha detto?»
«Ho detto basta, signor Hammond» sibilò alzandosi a spalle chine.
Vedeva alcune ciocche sfuggite all’acconciatura oscillare verso la scrivania.
«C’è molto da fare e lei deve ancora…» riprese lui imperterrito, sfogliando senza interesse un plico di fatture.
Charlotte levò lo sguardo arrossato, sfilando gli occhiali che le avevano lasciato profondi segni ai lati del naso e sotto gli occhi. In quegli ultimi giorni era più pallida del solito, per via della carica sempre più esigua che riusciva a trasferire al cuore artificiale.
«Mettiamo in chiaro le cose una volta per tutte, signor Hammond, le va? Questa è la “Legedary Customs”, proprietà di Clayton Lomann e Alexadra Stuart. Io sono la loro segretaria e assistente. E per quanto trovi cortese e generoso il suo capo, il signor Ostap Avelan, io e ripeto: io! non sono alle sue dipendenze ventiquattr’ore al giorno» precisò, mostrandogli l’ennesimo cumulo di cartellette. «Lei forse ha scordato che qui abbiamo un’attività da mandare avanti a prescindere da questa geniale trovata della corsa d’inaugurazione e io faccio parte di questa, questa! realtà. Hanno bisogno di me per poter continuare a mantenere la massima efficienza e produttività, e ciò significa che devo essere presente! Non basta si sappia che sono qui, devono vedermi, sentirmi, avere la prova di ciò che faccio per loro e con loro. Grazie a questo incarico siamo stati torchiati tutti quanti oltre misura e ci deve essere qualcuno che verifichi che le cose procedono nel migliore dei modi. E quella persona sono io. Ho delle responsabilità verso quei tecnici, prima che verso di lei o verso il signor Avelan o verso il signor Goundoulakis o chicchessia!»
Le ultime parole le erano sfuggite un tono più alto di quanto avrebbe voluto, ma era troppo stanca per preoccuparsene.
«Quindi, se non le spiace… anzi, no» e alzò una mano, quasi avesse avuto un’improvvisa illuminazione. «Quindi, visto che a me non spiace, scendo dai ragazzi a sentire a che punto siamo e di cosa hanno bisogno per proseguire. Perché è questo che faccio, signor Hammond: preoccuparmi per loro. A domani».
Sulla soglia però, le venne in mente una cosa e si voltò per comunicargliela.
«Se non ha di meglio da fare, in quello scatolone ci sono tutti i dossier fornitori che mi ha fatto riordinare tre giorni fa. Può cominciare controllando quelli» e indicò un grosso cartone accanto al divanetto.
Thomas la stava ancora osservando con quella sua innaturale calma bovina quando chiuse la porta.
Sul ballatoio, c’era un attonito Niklas. Aveva le labbra schiuse come se si fosse trovato in procinto di dire qualcosa che però gli era improvvisamente sfuggita. Charlotte si sentì morire. Di tutte le persone che potevano sentirla fare quella tirata, proprio non si aspettava lui.
«Accidenti, che filippica. Lo hai anche preso a schiaffi?» commentò infine.
La segretaria rimase interdetta a sua volta e nascose il volto tra le mani.
«Su, stavo scherzando. Ti va?» domandò mostrandole una piccola scatola di cartoncino bianco avorio, chiusa da un nastro verde e da una coccarda a forma di girandola.
La donna non seppe che rispondere.
«Visto che non riesco a portarti al “Lucky Pinwheel”, ho portato il “Lucky Pinwheel” da te» annunciò trionfante. «Charlotte alle pere. E cioccolato bianco» soggiunse.
«Cio… ccolato?» balbettò, frastornata dalla notizia.
«Bianco. Esatto» confermò con un’espressione che, per quanto furbesca, lasciava trasparire il peso economico del pensiero. «Non dire niente. Te lo meriti».
A occhio e croce, quel dolce doveva costare almeno otto trias. Era praticamente un investimento, eppure lui l’aveva fatto, anche se le sue finanze erano a malapena in condizioni dignitose.
«Ricominci a farmi la corte?» sospirò sospettosa.
«È così evidente?» ridacchiò, tirando indietro i capelli biondi con aria birichina.
Lei gli rivolse uno sguardo eloquente, riconsegnandogli il pacchetto.
«Potresti metterla nel cucinino? La mangio più tardi. Ho un paio di cose da sbrigare di sotto, se non voglio uccidere Thomas a colpi di graffettatrice» sussurrò minacciosa, addolcendosi subito dopo. «Grazie del pensiero, Niklas».
L’Ingegnere diede un calcetto all’aria, sporgendosi un poco verso di lei.
«Non potrei avere un bacio?» propose.
«No».
«Mi farò bastare il grazie».

***

Ostap si dondolò sula poltroncina, giocherellando con il filo del telettrofono mentre meditava su ciò che Thomas gli aveva appena comunicato dagli uffici della “Legendary Customs”.

«Devo essere sincero, ragazzo mio. Per quanto le notizie che mi porti siano molto soddisfacenti, non condivido appieno il tuo sistema. Confido tu sappia di non dover esagerare con la nostra cara Charlotte. Sarebbe imperdonabile se le accadesse qualcosa per un una tua leggerezza, lei è vitale per la riuscita del mio subdolo intrigo, come qualcuno lo ha graziosamente definito sulla stampa» ridacchiò socchiudendo gli occhi.
«Capisco, signore».
«Ne sono più che sicuro, sei un tipo in gamba. Evitiamo però di comunicare queste notizie al nostro amico Aris, temo non le apprezzerebbe quanto il sottoscritto. Quel giovanotto ha idee… come dire? Per quanto valide, diametralmente opposte alle mie e i cui esiti sono solo lontanamente prevedibili. Cerca piuttosto di coinvolgere debitamente Alexandra nei nostri movimenti. Anche lei ha un suo peso nel nostro scacchiere».
Sistemò il ricevitore contro la spalla e prese una tazza di tè dal carrello poco lontano, versando due generose cucchiaiate di miele di trifoglio.
«Come desiderate» confermò.
Ostap confidava nelle capacità del suo uomo più fidato, eppure non si sentiva affatto tranquillo. Troppe persone si muovevano fra quelle mura; occhi, orecchie e menti pronte a disperdere parole e gesti ai quattro venti. Venti che avrebbero potuto strisciare fino a mani inappropriate.
Mordicchiò distratto la porcellana, ponderando la mossa successiva lasciandosi ispirare dall’aroma dell’infuso. Oltre le grandi finestre, il cielo era velato di nubi. La luce di quel principio di tramonto estivo aveva una tonalità perlacea, di quelle che precedevano temporali improvvisi e violenti.
«Benissimo. Quanto alla meravigliosa airship per il nostro giovane campione Gunnar? Quali notizie circa i lavori?» chiese poggiando la tazza sulla scrivania.
«L’Ingegner Almgren ci sta lavorando a tempo pieno, da quanto mi risulta. Pare sia a buon punto. Specialmente senza le visite di Brown» specificò con una nota di soddisfazione nella voce.
Pochi giorni prima gli aveva impedito di avvicinare il progettista, intercettandolo a un paio di isolati dall’officina. Si aggirava con l’aria di chi aveva del tempo da perdere, ficcanasando lungo le stradine secondarie e i muri di recinzione. Ciò nonostante, era convinto che non sarebbero state un po’ di ossa rotte a farlo desistere da qualunque cosa fosse stato incaricato di portare a termine.
«Quale peccato! Dividere due amici per colpa di un profitto. Una cosa molto triste, invero» sospirò  teatralmente Ostap, ammirando i riflessi che danzavano sugli anelli che portava alle dita. «Il mondo di oggi è davvero un serraglio gonfio delle peggiori turpitudini dell’essere umano».
«Del comune essere umano, se mi concede. Non tutti rientrano in quel novero» intervenne l’assistente.
Il russo sorrise sornione, lisciandosi la barba. La puntualizzazione non era casuale o satura di servilismo, era la pura verità.
«Vedo che hai imparato bene la lezione, Thomas. Me ne compiaccio, ma non dilunghiamoci su di me. Sono altre le cose che mi premono ora» dichiarò, tamburellando con le dita sul bracciolo della poltrona. «Farai in modo che i due vecchi amici possano frequentarsi di nuovo, come si conviene in simili casi?»
«Signore? È una domanda retorica?»
La sua voce vacillava di un improvviso dubbio.
«Ovviamente. Confido nella tua assidua vigilanza. Brown è un tipo pericoloso, ha già avuto modo di dimostrarcelo. Non mi piace, è scivoloso quanto un’anguilla e, come ben sai, detesto quel pesce e la sua ostinata abilità nello sfuggire la cattura».
Salutò Thomas e riagganciò. Riprese a dondolarsi, sfiorando con il cucchiaino d’argento il volume sul caso di Chirinda. Doveva averlo riletto ormai una decina di volte, trovandolo sempre poco esaustivo e molto fantasioso. Tracciò cerchi concentrici, spirali e linee, picchiettando di tanto in tanto la copertina di pelle in alcuni punti precisi. Poco a poco, gli scintillii dei gioielli e della posata si fusero in sottili filamenti, disegnando un intricato groviglio sul rivestimento ambrato del libro. Delicatamente, fece fluttuare la composizione sul suo palmo e rimase a contemplarla in silenzio. Lo sfavillio liquido dell’opera alchemica mandava pulsazioni ruotando lentamente sul proprio centro, un nodo irto di punte racchiuso da un ottagono.
Aris, il tuo gioco mi aggrada sempre meno e ti dimostrerò che non mi serve piegare gli altri per vincere. Posso farlo anche sottostando alle regole altrui, promise rivolgendo uno sguardo cupo all’”Ultramarine Dove”.
Batté insieme le mani con violenza, imprigionando i filamenti che scomparvero in un bagliore verde pallido.

***

Aris balzò in piedi dal grande divano bianco, gli occhi sbarrati sul vuoto. Le dita ebbero uno spasmo, torcendosi nell’aria come tralci di una pianta avvizzita. Tremava così forte che chi l’avesse visto avrebbe  potuto crederlo in preda alle convulsioni.

«Non ti permettere, Avelan. Non ti permettere o me la pagherai cara!» gridò, la voce resa acuta dall’ira.
Afferrò il bastone e prese a camminare da un lato all’altro dello studio, battendo il pomo di cristallo sul pavimento e sui muri, mentre vocalizzava una nenia a voce sempre più alta. A ogni colpo, dal bastone si levavano schiocchi metallici, simili a quelli di un ingranaggio che venisse avviato dopo una lunga sosta e   porzioni dei decori scorrevano le une sulle altre, ridefinendone l’estetica. Bagliori ametista filtravano attraverso le incisioni, serpeggiando tra le rifiniture e andando a vorticare nel cristallo che da trasparente, si fece cupo quanto un addobbo funebre.
Aris aprì uno sportello nel muro e prese ad abbassare la sequenza di minuscole leve all’interno. L’intero studio ebbe un sussulto mentre lui si piazzava di fronte alla vetrata, le mani che accarezzavano spasmodicamente i fregi mobili dell’asta. Ogni traccia di affaticamento sul suo corpo parve ridisegnarne la sagoma in un insieme decrepito di ossa e pelle rinsecchita. Solo gli occhi blu balenavano feroci nelle orbite livide.
«Non farlo, Avelan! Non ti azzardare a sfidarmi!» urlò alla città.
Dietro di lui, le lastre del pavimento e dei muri si erano aperte e sollevate, mostrando porzioni di ruote dentate che si mordevano l’un l’altra, mandando sprizzi di scintille violacee. Forme geometriche e lettere di antichi alfabeti apparivano e scomparivano sulle superfici lucide, modellandosi in combinazioni sempre diverse.

***

Aveva quasi finito il giro. Mancavano solo gli avanzamenti giornalieri di Odrin, Ozone e Boy.

Nel guardare la sua ombra sulla porta del laboratorio interni, si sentì avvilita e ancor più stanca di quanto già non fosse. La vicinanza del tappezziere le pesava ben più del suo cuore.
Stava per bussare, domandandosi come avrebbero comunicato visto che Malcom non era nei paraggi, quando la porta si aprì e due manine la trascinarono all’interno.
«Lisian! Che fai qui?» esclamò sorpresa, trovandosi di fronte il ragazzino.
«Zitta!» sibilò balzandole al collo e premendole un palmo sulle labbra. «Zitta, non parlare, non puoi! Solo io posso parlarti e toccarti, adesso. Ascoltami. I Bàtari vogliono vederti. Vogliono conoscerti perché gli ho spiegato che non sei una… una… quella come dice mio fratello. Vogliono vedere se ho ragione».
«Io non…»
«Lo so!» pigolò tornando a chiuderle la bocca con la mano, gli occhi lucidi d’ansia. «Ma non ci credono. Ora entriamo e aspetta che ti dicono di parlare. Non guardarli in faccia: non puoi, l’hanno vietato».
Confusa e spaventata, Charlotte si lasciò trascinare a testa bassa nel deposito. Subito dietro la porta c’erano Aggad e Odrin, intenti a mormorare tra loro; altre cinque figure occupavano il lato opposto della stanza. Erano tutti Andull di grande importanza, come indicava l’alta cinta di metallo traforato che indossavano. Uno portava dei calzoni rossi e flosci, un secondo indossava svariate collane di cordicelle intrecciate, un altro aveva mani lunghe e ossute, e l’ultimo un orrendo sfregio lungo l’avambraccio destro. Davanti c’era una donna magra i cui lunghissimi capelli era ornati di perline, una dulu. Se avesse potuto guardarli, avrebbe visto volti tatuati che la scrutavano privi d’espressione.
«Bidanna Bàtari, si tè Charlotte alge» la presentò il ragazzino.
Un silenzio teso avvolse i presenti per diversi istanti.
A parlare fu l’uomo con la cicatrice.
«Chiunque tu sia, dicci perché hai distrutto una parte di questo corpo» comandò. «Parla, te ne diamo facoltà».
Lei fece un passo indietro, urtando lo scaffale. Trasalì e cercò Odrin, il quale se ne stava appoggiato al muro, del tutto indifferente. Aggad stava a braccia conserte, quasi la sfidasse a difendersi. Lì dentro, sembrava che solo Lisian fosse dalla sua parte.
«Diglielo. Diglielo, Charlotte» la incitò lui, prendendola per mano.
Quel gesto, così semplice e innocente, le parve un’ancora di salvezza, l’unico punto di quiete nel bel mezzo di una tempesta.
«Spero serva a qualcosa» rispose ricambiando la stretta, lo sguardo basso sui ripiani stipati di stoffe. «Non so dirvi esattamente quando sia cominciato. Ero piccola. Troppo per capire. Vivevo a Perrenmounth, nel distretto minerario. Era un posto disagiato e depresso per via della crisi estrattiva che aveva fatto svanire molti posti di lavoro. Mio padre possedeva un emporio, uno dei pochi ancora fiorenti della zona. Avevo quattordici anni quando la polizia coloniale venne ad arrestarlo per frode e collusione con degli usurai».
Gli Andull erano immobili e muti, assenti.
«Non riuscivo a capire come fosse possibile, non credevo alle parole del giudice. Mio padre era sempre stato una persona onesta e mi aveva trasmesso i suoi valori. I registri del negozio erano a posto, non c’erano…» e s’interruppe, supponendo che i dettagli contabili non interessassero ai Bàtari. «Scoprii che mio padre si era indebitato per aiutare una persona. Una persona a cui voleva molto bene ma che non ripagava la sua fiducia in alcun modo. Aveva sottratto cifre sempre più grandi all’emporio per impedirle di finire nei guai. Quella persona prometteva di continuo che sarebbe cambiata, che sarebbe diventata migliore, ma bastava un nonnulla perché rimangiasse ogni cosa».
Lisian l’abbracciò, partecipe del suo disagio. Riusciva a sentire il battito metallico del cuore anche attraverso il corsetto. Gli sembrò un bel suono.
«Cominciai a lavorare per saldare i debiti e permettere a mio padre di uscire di prigione. Purtroppo i soldi non bastavano mai, mai, mai; non importava quanto guadagnassi. Finché un giorno, un uomo venne da me per propormi uno scambio. Non so come conoscesse la mia storia, ma offrì la salvezza di mio padre e l’azzeramento dei debiti, in cambio…»
Posò la mano sul petto, avvertendo all’improvviso tutto il peso del metallo agganciato alle sue ossa. Proseguire le costò uno sforzo immane.
«Suo figlio stava morendo e aveva bisogno urgente di un trapianto. A me sarebbe stato dato un cuore meccanico, un manufatto fuorilegge, ma non m’importava. Sarei morta volentieri pur di aiutare mio padre».
Si fermò per riprendere fiato e ricacciare in gola il nodo che minacciava di zittirla.
«Pochi giorni dopo l’intervento, mio padre lasciò la prigione con la fedina penale ripulita e le banche dichiararono che la situazione era stata ripianata. Da allora sono costretta a vivere vicino a fonti di energia molto potenti per caricare il cuore, stando lontana dalla mia famiglia perché là non c’è niente di simile. Ma lo rifarei mille volte se fosse necessario. La mia famiglia viene prima di me, è la cosa più preziosa che ho al mondo» concluse, sorridendo al ragazzino che ancora la stringeva.
«Cos’è successo alla persona che tuo padre aiutava?» chiese l’Andull con le collane.
Charlotte scosse la testa, facendo una carezza a Lisian.
«Ha continuato per la sua strada, infischiandosene di ciò che era accaduto. È morta tempo fa».
«E il ragazzo che ha avuto il tuo cuore?» domandò la dulu.
«Di lui non so nulla. Sparì con il padre subito dopo l’operazione, senza lasciare traccia».
I Bàtari le diedero le spalle, parlottando sotto voce e gesticolando brevemente. Dalle voci non traspariva alcuna emozione particolare, nulla che lasciasse trasparire l’esito di quella conversazione. I tatuaggi candidi vibravano sulle pelli nere. Cercò una reazione in Odrin, ma lo intravvide appoggiato al muro e le braccia conserte di Aggad che la ammonivano.
«Alza lo sguardo, derigi» dichiarò ad un tratto la guaritrice, con enorme disappunto del maggiore dei Den’iràf. «Non ti riteniamo una retch ma neppure possiamo considerarti degna d’appartenere alla nostra gente. Hai sacrificato l’integrità del tuo corpo e sebbene il tuo fine fosse lodevole, è qualcosa che non possiamo tollerare. Il corpo che abitiamo è sacro».
Aveva temuto quel responso: sia il libro che Odrin le avevano confermato quanto l’integrità fisica rappresentasse un elemento fondamentale del credo e delle tradizioni Andull.
Lisian emise un gemito affranto.
«Quindi, mi concedete il beneficio del dubbio?» domandò speranzosa, osservando di sottecchi il quintetto.
«Non ti impediremo di avvicinarci o rivolgerci la parola poiché non sei uno spirito immondo, tuttavia ti sarà proibito stringere legami familiari con il popolo Andull. E a nessuno di noi sarà concesso chiederti come compagna o giacere con te» spiegò il Bàtar dai pantaloni scarlatti.
A quelle parole, avrebbe dovuto voltarsi e scorgere Odrin serrare i pugni infuriato, pronto a far valere le proprie ragioni, invece Charlotte scoprì di non provare affatto quel desiderio. Anzi. Il silenzio del giovane le faceva meno male di quanto avesse immaginato: il rifiuto aveva aperto una ferita profonda in lei e al tempo stesso l’aveva cicatrizzata. Si sorprese a provare qualcosa di molto simile alla comprensione, al rispetto per la sua scelta; la cultura Andull le era entrata dentro più di quanto avesse sospettato. E in fondo, era abituata a veder allontanarsi gli uomini per cui aveva provato un sentimento più grande dell’amicizia. O forse, davvero non aveva più un cuore.
«Potrò continuare a studiare la vostra storia e le tradizioni?» azzardò.
«Te lo concederemo, a patto che tu riesca trovare chi desideri rispondere alle tue domande» rispose quello dalle mani scarne.
Era ovvio che né i Bàtari né tantomeno Aggad l’avrebbero fatto, sui volti di pece traspariva un ghigno di commiserazione. Per Odrin il discorso era un altro: pareva del tutto indifferente alla richiesta.
«Bidanna Bàtari, lad muri izte calj uma id codhoe» dichiarò il piccolo Andull facendosi avanti.
«Lisian!» ruggì il guaritore strattonandolo per un braccio.
«Calj uma id codhoe!» ripeté deciso, mordendogli la mano per liberarsi.
CodhoeCodhoecos’è che Aggad non vuole che faccia?, pensò Charlotte, cercando di ricordare cosa significasse quella parola.
«Uma te dros. Lang-nà feu enome. Uma id codhoe igai Charlotte reze espì» insisté Lisian, gettandosi ai piedi degli anziani. «Lad muri izte. Lad muri izte
Il Bàtar sfregiato gli posò un piede sulla schiena cercando di spingerlo via, senza riuscirvi. Era un gesto rituale, per saggiare la profondità delle sue intenzioni, e vedendo Aggad pronto a trascinarlo via di peso, gli fece cenno di scostarsi.
«Il compito che ti stai scegliendo è gravoso» disse con tono sprezzante. «I tuoi fratelli non ti aiuteranno. E non conosci a fondo le tradizioni e le leggi. Come potrai assolverlo?»
«Insegnatemi. Imparerò tutto! Tutto! E se avrò dubbi, mi appellerò alla vostra saggezza! Al vostro sapere! Terrò segreto ciò che mi direte di non dire, ma vi prego… vi prego…»
Aggad masticava imprecazioni in un angolo tenendosi la mano, mentre gli occhi grigi di Odrin erano fissi sul fratellino. Era colpito dalla sua testardaggine e dalla forza che stava mettendo nella sua proposta. Una forza che a lui era mancata o che non aveva voluto trovare.
All’improvviso, la segretaria ricordò il significato di quelle parole: sarò il suo insegnante finché Charlotte vorrà. Aveva chiesto di divenire il suo precettore una volta superato il Lang-nà, il rito di passaggio all’età adulta.
Lisian poggiò la fronte sul pavimento di cemento, bagnandolo di lacrime.
«Dite di sì, vi prego» li supplicò. «Sarò bravo, lo giuro».

***

Ozone si accasciò accanto al vaporizzatore, esalando rantoli strozzati. Qualcosa era letteralmente esploso dentro di lui, allargandosi dalla gola fino alla punta delle dita, lasciandosi dietro dolori lancinanti. Boccheggiò cadendo sul fianco, stringendo il collo. Un fuoco bruciava lacerante nella trachea. Cercò di allungare una mano per sfiorare il blocco sui cavalletti, inutilmente. I muscoli non rispondevano ai suoi comandi, si rattrappivano in blocchi inerti che lo schiacciavano a terra.
L’ultima cosa che udì prima di perdere conoscenza fu la voce di Boy che gridava il suo nome.


Writer's Corner
Spero che questo nuovo capitolo segni il ritorno ad un ritmo più serrato. Avete avuto pazienza fino ad ora, vorrei portarvi alla conclusione come si deve per ringraziarvi!
Ben arrivato a NoFate. Aspetto i tuoi commenti.
Grazie come sempre a tutti i pazientissimi lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphasvita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk, Mizzy, alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus.
   
 
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