Per
ricominciare
Welcome da Vinci!
Che non ci sarà spesso, ma un'apparizione gli era dovuta visto che il telefilm è praticamente sotto il monopolio della sua meravigliosa figura. (L)
Dal prossimo capitolo vi spoilero tanta nudità. Je.
Tra l'altro: la nominata Beatrice, è proprietà di Chemical Lady e della sua conclusa No good deed. Ma tanto lo sapete già *rotola
Bacini,
Lechatvert
Saremi morte già dolce paruta
la mappa
https://www.youtube.com/watch?v=KDWZswW5qD8
Un altro giorno,
Hanno aperto la scatola per giocare.
Guardandomi girare ancora e ancora fino a che la musica non rallenta e
sfuma.
Yael Naim – Puppet
Toscana, agosto 1477. Sette anni prima della morte di Papa Sisto IV.
Fu il viaggio più silenzioso che Orso avesse mai compiuto.
Seduto sulla groppa di un vecchio cavallo acquistato quella mattina,
assonnato e affamato, con una misera focaccia nella borsa che doveva
bastargli per tutto il giorno e in testa ancora le due pinte di birra
che aveva buttato giù assieme a sua sorella per festeggiare
la riuscita della loro compravendita.
Per non rischiare di incappare nelle ire del Conte Riario, si era
mantenuto a debita distanza, nascondendosi dietro l’ampia
schiena di Grunwald e quella un po’ meno possente di Porpora.
Di tanto in tanto lo spiava, lanciandogli qualche occhiata di sfuggita,
ma gli mancava davvero il fegato di avvicinarsi per chiedere
informazioni circa la missione a Firenze.
Era rimasto piegato sul dorso del suo cavallo dall’alba fino
a pranzo, dopodiché era sceso per recarsi al torrente
assieme ai soldati, aveva riempito la borraccia e aveva fatto ritorno
alla sua postazione di eterno pentito. Per cosa covasse tanto
rammarico, poi, lo sapeva solo il Signore.
«Si può sapere che hai?», lo
chiamò a un certo punto Porpora, drizzandosi sulla schiena
per vedere oltre le spalle del Capitano Grunwald.
«È tutto il giorno che hai una faccia di uno che
è appena scappato da un funerale.»
Orso sospirò, afflitto.
«Non riesco a non pensare che ce l’abbia con
me», confessò, fissando le redini chiuse nei suoi
pugni. «Anche se, in tutta sincerità,
non ho proprio niente di cui dover sentirmi in colpa.»
Eppure, lo sguardo pungente di Riario gli era rimasto addosso per tutta
la giornata.
«Il Conte avrà talmente tante cose a cui pensare
che la tua faccia gli sarà già uscita dalla
testa», lo riprese Porpora, ridacchiando. «Sei
paranoico.»
«Ne sei sicura?»
La ragazza sbuffò.
«Sicurissima!», esclamò, spronando il
suo cavallo ad accelerare. Trottò un poco verso un ragazzo
della guardia che se ne stava da parte e si mise ad attaccare bottone
con lui, dimenticandosi completamente del fratello.
«Solo gli stupidi pensano che Girolamo Riario dimentichi i
volti di chi gli sta intorno», commentò il
Capitano Grunwald, lanciandogli un’occhiata fugace
dall’alto del suo cavallo bianco.
Affranto, Orso si sciolse in un gemito sommesso.
«Lo sospettavo», rispose, alzando le spalle.
«Questo per dare a mia sorella della stupida?»
L’uomo alzò le spalle.
«Più o meno.»
Rimasero per un istante in silenzio, avanzando lungo la strada
affollata di soldati, dopodiché Orso decise di ributtarsi
nella conversazione, senza mettere in mostra la sua agitazione.
«Quando arriveremo a Firenze?», chiese, alzandosi
un poco per accertarsi che stessero percorrendo la strada maestra. E
che il Conte Riario non stesse guardando nella sua direzione.
Grunwald rispose con un grugnito.
«Questa sera, se non acceleriamo il passo», disse,
seccato. «Siete fortunati, Vallesanta. A noi tocca
un’altra mezza giornata di cavalcata, per arrivare fino a
Imola.»
«Ci lascerete a Firenze?»
«Sta a me e al Conte controllarvi. Immagino staremo nei
paraggi per qualche mese, nel caso le cose andassero storte.»
Dal tono che la voce di Grunwald prese, Orso capì che non
era decisamente il caso di far andare storte le cose.
Trovare il cadavere, prendere le ossa, sparire da Firenze per non fare
mai più ritorno. Era un piano che suonava stranamente
semplice e conciso, nella sua testa. Prima di partire, si era premurato
di chiedere al proprietario della taverna qualche nominativo che
potrebbe esser stato loro utile nella Repubblica. Il tutto gli era
costato due scudi, ma almeno aveva le sue risposte.
Sorrise tra sé e sé, battendosi una mano sul
petto.
«Non avete di che preoccuparvi, allora», disse,
rivolgendo a Grunwald un sorriso soddisfatto. «Dei Vallesanta
non si deve mai dubitare!»
L’uomo gli scoccò un’occhiata seccata e
la conversazione finì lì, così come il
momentaneo buonumore che aveva rallegrato Orso per quei cinque minuti.
Il resto del viaggio, poi, continuò con il morale sotto i
tacchi.
Si fermarono che era ormai notte inoltrata.
Porpora si era raggomitolata sul petto di Orso e dormiva con la stessa
serenità di un bambino, mentre lui cercava di tenere buoni
entrambi i cavalli e di non essere disarcionato nel tentativo. Erano
bestie anziane, stanche e stremate, che come lui volevano soltanto
stravaccarsi su un pezzo di prato e chiudere gli occhi.
Discreto, svegliò Porpora, battendole qualche colpetto sulla
spalla.
Immediatamente, lei riemerse dalle pieghe del suo mantello.
«Firenze?», chiese, con la voce impastata dal sonno.
Orso scosse il capo.
«No», rispose. «Ma ci siamo
fermati.»
Lasciò che sua sorella scendesse da cavallo e che andasse a
recuperare le sue briglie, poi abbandonò la sella a sua
volta, raggiungendola a terra.
Si avvicinarono piano a Riario, sfilando silenziosi tra una guardia
armata e l’altra. Erano tutti stravolti, tanto che nessuno li
fermò per chiedere dove avessero intenzione di andare.
Tutto il campo, comandanti compresi, aveva l’unico, grande
desiderio di buttarsi per terra e dormire.
Il Capitano Grunwald arrivò loro incontro che già
avevano praticamente raggiunto Riario.
«Eccovi qui», disse, mostrando loro la via verso il
luogo in cui il Conte si stava concedendo un po’ di riposo
lontano dall’esercito. «Da questa parte; fate in
fretta.»
Quando Orso intercettò la presenza del Conte, rimase
volutamente indietro.
Si nascose dietro Grunwald, tanto vicino alla sua schiena da potergli
scostare il mantello con il fiato, e non si scostò da lui
neppure quando udì la voce di Riario salutarli con tono
stanco.
Porpora poteva prendersi cura della situazione. Era intelligente,
sapeva parlare, era coraggiosa. A differenza di lui, che invece
preferiva restarsene nascosto dietro una guardia svizzera, come se
Grunwald fosse suo alleato. Sapeva benissimo che, al minimo cenno,
l’uomo gli avrebbe staccato la testa per poi consegnarla a
Riario su un palo.
«Conoscete il greco?», sentì chiedere
dal Conte, mentre dentro di sé si dava del codardo.
La risposta di Porpora non tardò ad arrivare.
«Certo! Chi diavolo non conosce il greco?»,
ironizzò, alzando le spalle.
Orso si scostò da Grunwald per un istante.
«Io so scriverlo», mugolò.
Poi tornò al suo posto.
Il Conte sospirò a lungo.
«Ogni volta che desidererò parlarvi, i miei uomini
tracceranno la lettera omega in un luogo che sarò certo voi
frequentiate. L’incontro sarà fissato per la notte
successiva a quella della comparsa della lettera, in questo esatto
luogo, appena dopo il coprifuoco.»
Porpora incrociò le braccia sul petto.
«D’accordo», rispose. «Come
faccio a farvi sapere che ho recepito il messaggio?»
«Non sarà necessario, ci vedremo direttamente la
notte dopo.»
Deglutendo, Orso mise le mani in tasca. Aveva ancora le sue fate
crudeli.
Chiamando a raccolta quel poco di coraggio che gli era rimasto, si
scostò da Grunwald, tendendo il palmo aperto verso Riario.
«Prendete queste», disse, mostrandogli le sue
creazioni. «Ne troverete di simili in questo luogo, quando
avremo trovato il corpo. Varrà la stessa regola per la
lettera omega.»
Per tutto il tempo che pronunciare quelle parole gli prese, Orso si
preoccupò di fissare la punta dei suoi stivali.
Aspettò quindi che Riario prendesse in consegna le sue fate,
prima di richiudere il pugno e tornare al suo posto accanto al suo
destriero.
Augurò la buonanotte ai presenti con un inchino,
dopodiché montò in sella e attese la sorella.
Si allontanarono in fretta, prendendo la strada per Firenze ma
fermandosi poco prima delle mura cittadine, nascosti nel bosco che
andava via via diradandosi.
Non li avrebbero comunque fatti entrare in città nel cuore
della notte. Aspettare fino al mattino e sperare di confondersi tra i
mercanti era la scelta più saggia.
Si accoccolarono vicini sotto al mantello di Porpora, coperti anche da
qualche strato di foglie secche e muschio per tenersi al caldo.
Orso circondò in un abbraccio la sorella, stringendola forte
a sé.
«Davvero eri già stato a Firenze? », gli
chiese lei, sottovoce.
Lui annuì, piano.
«Con papà, sì.»
«Non mi ha mai portata con sé.»
Orso rimase in silenzio.
Di nuovo, il lieve tono di Porpora lo riportò nella
conversazione.
«Credi che la rivedrai?»
Orso trasalì.
«Parli di Beatrice?»
Pronunciare quel nome gli fece quasi male.
«Sì, parlo di Beatrice.»
Non rispose subito, non ce la fece. Rimase imbambolato a pensare che
forse sì, forse avrebbe ritrovato il suo perduto amore di
gioventù, che forse sarebbe persino riuscito a parlarle. O
che forse era stata data in moglie a qualche nobile pisano e che erano
ormai anni che ella non risiedeva più a Firenze.
Pensò davvero tanto a una risposta da dare a Porpora ma,
quando trovò qualcosa di intelligente da dire e
aprì la bocca per commentare, avvertì il lieve
respiro di sua sorella spegnersi sotto un suo gemito.
Si era già addormentata.
L’odore pungente dei
mercati fiorentini costrinse Orso a fermarsi nel bel mezzo della strada
per soffiarsi il naso in preda all’allergia.
Pensieroso, colse l’occasione per osservare la folla muoversi
con ritmo attorno a lui, quasi Firenze avesse una sua canzone da
seguire, quasi la gente non fosse mossa dalla fretta ma da un
improbabile spartito.
Sì, era tutto decisamente diverso dal disordine di Roma.
Soddisfatto delle sue scelte, lanciò alla sorella uno
sguardo contento, che venne però ricambiato con una smorfia
di puro astio.
Porpora detestava stare in mezzo alla gente, specie se la suddetta
gente era a lei sconosciuta. La metteva a disagio, in un certo senso,
sebbene non le impedisse di elevarsi al di sopra di qualunque popolano
incontrasse. Era sempre stato così, anche quando era
bambina, quando andavano al mercato mano nella mano assieme alla mamma.
Mostrava però una certa curiosità, mascherata
sotto il cattivo umore di essere lontana da Roma, e pareva interessata
a contare e ricontare i fiorini che avevano guadagnato, in quella prima
settimana, imbalsamando qualche animale. Probabilmente tale interesse
proveniva dallo scoprire se i profitti erano maggiori sotto i Medici,
ma pur sempre di curiosità si trattava, e Orso sapeva
accontentarsi.
Sospirando, accarezzò le due piume che portava legate al
capo.
«Sorella!», chiamò, raggiungendola con
un balzo davanti alla bancarella che la ragazza stava esaminando.
«Hai trovato qualcosa?»
Lei alzò le spalle.
«Tabacchiere, lame, inutili gingilli.
C’è ben poco di utile, in questa
città», considerò.
Orso scoppiò a ridere.
«Ti aspettavi forse un banco di santi?», la
schernì.
«Mi aspettavo qualcosa di utile, visto che sono sette giorni
che brancoliamo nel buio.»
«Sorella, smettila di parlare come una nobile. Finirai per
diventarlo, ti mariterai con un Duca o con un Conte e spenderai gli
ultimi anni della tua vita chiusa in un palazzo a ricamare
fazzoletti.»
Porpora gli scoccò un’occhiata scettica. Aveva
fama di essere particolarmente attaccata al denaro e ai suoi guadagni,
ma da qui a sognare la vita di una nobildonna ne correva, e Orso lo
sapeva. Inoltre, molto tempo prima, quando erano poco più
che bambini, si erano promessi di non abbandonarsi mai, qualunque cosa
fosse successa. Erano stati lontani sette anni, ma alla fine si erano
ritrovati.
Sospirando, Orso estrasse dalla sua borsa un foglio di
cartastraccia.
Porpora lo indicò con un cenno del capo.
«Che cos’è?», chiese.
Lui la guardò, alzando le spalle.
«Il nostro contratto.»
Avevano recuperato un teschio mangiato dalla sifilide due giorni prima,
in un cimitero appena fuori città. Non era in ottime
condizioni, ma Orso sapeva fare miracoli con la cera e così
aveva acquistato una forma decisamente più presentabile. La
notte prima, però, Riario lo aveva rifiutato, affermando che
il corpo di cui andavano alla ricerca non era quello che avevano tra le
mani.
E non era di certo cosa facile, trovare un morto di sifilide in una
città come Firenze! Ma sia lui che Porpora si stavano
impegnando a raccogliere quante più informazioni possibili,
alternando le ricerche a qualche occasionale vendita di reliquie in
città.
«A chi dobbiamo mollarlo?»,
s’informò Porpora, assicurandosi che la borsa che
portava a tracolla fosse ben ferma sulla sua spalla.
Orso si sforzò di leggere la minuscola calligrafia sul
foglio.
Mossa inutile, poi, visto che sapeva esattamente chi andare a cercare.
«Un vecchio amico.»
Porpora storse le labbra.
«Te lo sei immaginato o posso saperne il nome?»
«No, no. È reale.» Orso
corrugò la fronte, sospirando. «Sta’ a
vedere!»
Porpora roteò gli occhi, ma si astenne dal commentare.
Girarono ancora un po’ a vuoto per il mercato, Orso
osservando l’ambiente con curiosità, Porpora
alternando gli sbuffi alle lamentele.
Non fecero invero molta strada, bloccati un po’ dalla folla,
un po’ dalle bancarelle che prepotentemente li chiamavano a
guardare la loro mercanzia, ma provarono ad avanzare almeno fino alla
piazza principale.
Allorché, giunti nei pressi di un piccolo slargo, una voce
alta e dal timbro studiato attirò con prepotenza la loro
attenzione.
«Signore e signori! Quest’oggi, vi offro le
incredibili ossa del martire Bartolomeo, scuoiato vivo, e quelle della
bellissima Agnese, uccisa da un coltello alla gola!»
Impietriti, sia Porpora che Orso si voltarono verso quello che per loro
non era che un richiamo.
Appollaiato su una vecchia cassa di legno, un uomo sorrideva sornione
alla folla. Aveva il volto abbronzato, coperto da una barba forse un
po’ troppo incolta, e vestiva con fare senza dubbio troppo
eccentrico per trattarsi di un comune venditore.
Porpora lo osservò a lungo attraverso i suoi occhi scuri
fissi sulla figura dello sconosciuto. Il corpo si era mosso in una
posizione di difesa posta a proteggere la borsa, ma il viso restava
quello limpido e calmo di chi sa nascondere ogni emozione.
Orso si chiese se qualcuno fosse mai riuscito a scorgere, sul volto di
sua sorella, una qualche piccola traccia d’amore o di
compassione. E dire che le donne, a detta degli abitanti di Roma, erano
tutte volubili ed eloquenti.
«Che ci fa un tartaro a Firenze?», gli chiese
subito lei, dopo un istante di silenzio.
Lui rise.
«In un certo senso, ce l’ho spedito io!»
Si aggiustò la camicia sul petto e, con fare formale, si
avvicinò all’abile oratore armato di un sorriso a
trentadue denti che avrebbe illuminato persino la più buia
delle cantine.
«Zoroastro, mio vecchio amico!», salutò,
alzando la mano con fare amichevole. «Fammi indovinare,
quell’artista ti ha piantato due giorni dopo averti
assunto?»
L’uomo lo guardò, stranito. Poi, come
un’onda improvvisa, un largo e brillante sorriso gli
illuminò il volto con una fila di denti bianchissimi,
ammalianti.
«Orso!»
Il ragazzo non fece in tempo a prepararsi che l’uomo gli fu
letteralmente addosso, abbandonando il suo palchetto per dedicarsi
unicamente a un abbraccio fin troppo caloroso.
«Quanti anni!»
«Lo dici bene! Ma che t’ha fatto da Vinci? Sei
ingrassato!»
Si strinsero l’un l’altro fino a che a Orso non
mancò il fiato, allorché si costrinse a scostarsi
dall’amico con una pacca sulla spalla, tossicchiando prima di
piegarsi sulle ginocchia e riprendere a respirare. Indicò
sua sorella con un cenno del capo, facendole segno di avvicinarsi.
«Questa è mia sorella Porpora.»
Porpora incrociò le braccia sul petto, sbuffando con il suo
solito fare seccato.
Zoroastro, invece, allargò maggiormente il suo sorriso.
«Quella che andavi cercando per le vie di Roma?»,
chiese, sornione.
Orso annuì.
«L’unica che mi è
toccata!»
Risero ancora, Zoroastro talmente forte da far tremare il mercato
intero, Orso molto più contenuto. Porpora fu
l’unica a restarsene con le braccia incrociate a fissare in
cagnesco qualunque essere vivente del raggio di tre leghe.
«Veniamo alla ricerca di informazioni»,
sbottò alla fine, tirando suo fratello per il bavero della
camicia talmente forte da farlo sbilanciare in avanti.
Con un colpo di tosse, Orso si ricompose.
«Già, un affare assai strano», disse,
aggiustandosi il berretto sul capo. «Da Roma ci mandano per
un morto di sifilide.»
Zoroastro schioccò la lingua sul palato.
«A Roma non ce l’avete, la sifilide?»
Porpora sospirò rumorosamente.
Orso sorrise appena. Non voleva far alterare sua sorella, sempre che
tutto quel riconciliarsi non l’avesse già fatto.
«Ti racconterò ogni dettaglio più
tardi, Zoroastro», disse quindi, bonario. «Ma prima
è di vitale importanza che tu ci guidi attraverso Firenze.
Dimmi, c’è qualche persona che conosce esattamente
i cimiteri della città?»
L’uomo soffocò una risatina.
«A parte me, intendi? Conosco i campi santi meglio di casa
mia, ormai!»
Porpora roteò gli occhi.
«Siamo in due», commentò.
Orso sorrise, vittorioso.
«Siamo fortunati, allora», rispose. «Ce
ne servirà una descrizione esaustiva.»
«Lungi da me rifiutare», concesse Zoroastro.
«Ma andiamo in un luogo più calmo. Il mercato di
Firenze non è certo luogo per vendere i morti.»
Camminarono in silenzio per qualche minuto, in rigorosa fila indiana
per le vie affollate della città, quasi senza osare parlare.
Zoroastro li guidava con sveltezza attraverso i vicoli, Porpora lo
seguiva a piccoli balzi, attenta a non farsi travolgere data la sua
minuta statura, mentre Orso, grande e grosso com’era, faceva
un po’ più fatica, arrancando tra la folla e
facendosi strana a gomitate.
Arrivarono alla meta che ormai i due fratelli avevano il fiatone.
Si trattava di una bottega d’arte alquanto affollata da
scultori e pittori intenti a lavorare sui loro capolavori. Vi erano
modelli distesi sui piedistalli, ragazze danzanti attorno ad un
cavalletto, e tutto sembrava essere così fresco e spontaneo
che Orso non poté che aprire la bocca in
un’espressione di pura meraviglia.
«È … bellissimo!», disse a
sua sorella, sorridendo con curiosità.
A Roma non avevano niente del genere.
Porpora alzò le spalle.
«Non ci vedo niente di bello», rispose, seccata.
Mosse qualche passo in avanti, raggiungendo le alte spalle del tartaro,
e gli batté un pugno sulla schiena.
«Abbiamo del lavoro da fare», sentenziò,
acida come al solito. «Dunque?»
«Porpora, non essere cattiva», rise Orso,
prendendola per un braccio. «Andiamo, cerca di andare
incontro a Zoroastro.»
Lei ruggì di risposta, scrollandosi dalla presa.
Orso la guardò drizzarsi sulle spalle e si lasciò
sfuggire un sospiro divertito. Porpora era sempre così
negativa con il mondo che la circondava, eppure era in grado di tirarlo
su di morale, di dargli quella forza di andare avanti, di spronarlo
verso avventure in cui lui mai si sarebbe buttato a capofitto. Era un
po’ la sua energia, nonostante avesse un temperamento
decisamente cattivo.
Sorrise, scollando il capo.
«Dove siamo, Zoroastro?», chiese.
Non fu la voce del suo amico, a rispondergli, bensì quella
di un totale sconosciuto.
«Alla bottega del Verrocchio!», trillò
qualcuno.
I due fratelli si voltarono, sorpresi, osservando un ragazzo
dall’aria eccentrica scendere una delle scalinate che
conducevano al piano superiore.
Era un giovane uomo sulla ventina, con la barba e i capelli ben curati,
un fisico asciutto ma atletico.
«Mi chiamo Leonardo da Vinci», annunciò
subito, pomposo, battendo sul tempo qualunque tentativo di
presentazione. «E voi, a giudicare dai vostri abiti sporchi
di cenere, e dalle vostre facce sporche di sabbia, siete i colleghi di
Zoroastro.»
Orso sorrise, sorpreso da tanto spirito di osservazione.
Gli erano sempre piaciute, le persone intelligenti.
«Chiamarci colleghi è offensivo»,
ribatté invece Porpora, incrociando le braccia sul petto.
«Non siamo certo degli sciatti profanatori di tombe. Le
nostre imbalsamazioni sono famose fino a Napoli.»
Lanciò un’occhiata carica d’astio a da
Vinci, poi allungò la mano in segno di saluto.
«Porpora di Vallesanta. Questo è mio fratello,
Orso.»
Assecondandola, Orso alzò appena il cappello.
«Tanto lieto», commentò.
L’artista li guardò entrambi con un mezzo sorriso
dipinto sul viso, poi batté le mani, facendosi curioso nei
confronti della borsa che Porpora portava a tracolla.
«I Vallesanta», disse, quindi. «Ho
sentito parlare della vostra famiglia. Pensavo foste tutti
morti.»
«Lo pensavano un po’ tutti, a Roma»,
rispose prontamente Porpora.
Da Vinci annuì piano.
«Per quale motivo li hai portati qui, Zo?», chiese
poi.
Zoroastro aprì la bocca per parlare, ma Porpora fu
più veloce.
«Una mappa, il più dettagliata possibile, di ogni
morto e sepoltura in città dell’ultimo
mese», rispose, fulminea.
«Vi costerà una fortuna!», rise a gran
voce Zoroastro.
Da Vinci alzò un sopracciglio e fermò la risata
del suo compagno con un gesto della mano.
«In cambio?», si informò, interessato.
Orso mosse un passo avanti, aprendo il pugno nel quale aveva raccolto
tutte le fate crudeli che gli erano rimaste in tasca. Aprì
la mano dinanzi al giovane e sorrise, piegando appena il capo.
«Sono certo che possiamo trovare un accordo.»