Serie TV > Da Vinci's Demons
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Autore: Lechatvert    26/05/2014    2 recensioni
«Fareste bene a rammentarvi che la guerra la si deve vincere su fronti diversi», disse, rimettendo la spada nel fodero. «E che se voi siete disposto a calpestare i vostri principi, io sono disposto a calpestare i miei.»
Se ne andò così, senza aggiungere altro, arrancando tra i ciuffi d’erba alta del cimitero.
Riario lo guardò allontanarsi senza proferire parola, impietrito dinanzi a quelle parole taglienti come lame e a quell’andatura che tanto gli ricordava i passi leggeri di Celia.

Il Papa, il Capitano, il Conte e i Tombaroli.
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Lupo Mercuri, Nuovo personaggio, Papa Sisto IV, Papa Sisto IV
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Per ricominciare
Welcome da Vinci!

Che non ci sarà spesso, ma un'apparizione gli era dovuta visto che il telefilm è praticamente sotto il monopolio della sua meravigliosa figura. (L)

Dal prossimo capitolo vi spoilero tanta nudità. Je.

Tra l'altro: la nominata Beatrice, è proprietà di Chemical Lady e della sua conclusa No good deed. Ma tanto lo sapete già *rotola

Bacini,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
la mappa
https://www.youtube.com/watch?v=KDWZswW5qD8










Un altro giorno,
Hanno aperto la scatola per giocare.
Guardandomi girare ancora e ancora fino a che la musica non rallenta e sfuma.
Yael Naim – Puppet







Toscana, agosto 1477. Sette anni prima della morte di Papa Sisto IV.



Fu il viaggio più silenzioso che Orso avesse mai compiuto.
Seduto sulla groppa di un vecchio cavallo acquistato quella mattina, assonnato e affamato, con una misera focaccia nella borsa che doveva bastargli per tutto il giorno e in testa ancora le due pinte di birra che aveva buttato giù assieme a sua sorella per festeggiare la riuscita della loro compravendita.
Per non rischiare di incappare nelle ire del Conte Riario, si era mantenuto a debita distanza, nascondendosi dietro l’ampia schiena di Grunwald e quella un po’ meno possente di Porpora.
Di tanto in tanto lo spiava, lanciandogli qualche occhiata di sfuggita, ma gli mancava davvero il fegato di avvicinarsi per chiedere informazioni circa la missione a Firenze.
Era rimasto piegato sul dorso del suo cavallo dall’alba fino a pranzo, dopodiché era sceso per recarsi al torrente assieme ai soldati, aveva riempito la borraccia e aveva fatto ritorno alla sua postazione di eterno pentito. Per cosa covasse tanto rammarico, poi, lo sapeva solo il Signore.
«Si può sapere che hai?», lo chiamò a un certo punto Porpora, drizzandosi sulla schiena per vedere oltre le spalle del Capitano Grunwald. «È tutto il giorno che hai una faccia di uno che è appena scappato da un funerale.»
Orso sospirò, afflitto.
«Non riesco a non pensare che ce l’abbia con me», confessò, fissando le redini chiuse nei suoi pugni. «Anche se,  in tutta sincerità, non ho proprio niente di cui dover sentirmi in colpa.»
Eppure, lo sguardo pungente di Riario gli era rimasto addosso per tutta la giornata.
«Il Conte avrà talmente tante cose a cui pensare che la tua faccia gli sarà già uscita dalla testa», lo riprese Porpora, ridacchiando. «Sei paranoico.»
«Ne sei sicura?»
La ragazza sbuffò.
«Sicurissima!», esclamò, spronando il suo cavallo ad accelerare. Trottò un poco verso un ragazzo della guardia che se ne stava da parte e si mise ad attaccare bottone con lui, dimenticandosi completamente del fratello.
«Solo gli stupidi pensano che Girolamo Riario dimentichi i volti di chi gli sta intorno», commentò il Capitano Grunwald, lanciandogli un’occhiata fugace dall’alto del suo cavallo bianco.
Affranto, Orso si sciolse in un gemito sommesso.
«Lo sospettavo», rispose, alzando le spalle. «Questo per dare a mia sorella della stupida?»
L’uomo alzò le spalle.
«Più o meno.»
Rimasero per un istante in silenzio, avanzando lungo la strada affollata di soldati, dopodiché Orso decise di ributtarsi nella conversazione, senza mettere in mostra la sua agitazione.
«Quando arriveremo a Firenze?», chiese, alzandosi un poco per accertarsi che stessero percorrendo la strada maestra. E che il Conte Riario non stesse guardando nella sua direzione.
Grunwald rispose con un grugnito.
«Questa sera, se non acceleriamo il passo», disse, seccato. «Siete fortunati, Vallesanta. A noi tocca un’altra mezza giornata di cavalcata, per arrivare fino a Imola.»
«Ci lascerete a Firenze?»
«Sta a me e al Conte controllarvi. Immagino staremo nei paraggi per qualche mese, nel caso le cose andassero storte.»
Dal tono che la voce di Grunwald prese, Orso capì che non era decisamente il caso di far andare storte le cose.
Trovare il cadavere, prendere le ossa, sparire da Firenze per non fare mai più ritorno. Era un piano che suonava stranamente semplice e conciso, nella sua testa. Prima di partire, si era premurato di chiedere al proprietario della taverna qualche nominativo che potrebbe esser stato loro utile nella Repubblica. Il tutto gli era costato due scudi, ma almeno aveva le sue risposte.
Sorrise tra sé e sé, battendosi una mano sul petto.
«Non avete di che preoccuparvi, allora», disse, rivolgendo a Grunwald un sorriso soddisfatto. «Dei Vallesanta non si deve mai dubitare!»
L’uomo gli scoccò un’occhiata seccata e la conversazione finì lì, così come il momentaneo buonumore che aveva rallegrato Orso per quei cinque minuti.
Il resto del viaggio, poi, continuò con il morale sotto i tacchi.
Si fermarono che era ormai notte inoltrata.
Porpora si era raggomitolata sul petto di Orso e dormiva con la stessa serenità di un bambino, mentre lui cercava di tenere buoni entrambi i cavalli e di non essere disarcionato nel tentativo. Erano bestie anziane, stanche e stremate, che come lui volevano soltanto stravaccarsi su un pezzo di prato e chiudere gli occhi.
Discreto, svegliò Porpora, battendole qualche colpetto sulla spalla.
Immediatamente, lei riemerse dalle pieghe del suo mantello.
«Firenze?», chiese, con la voce impastata dal sonno.
Orso scosse il capo.    
«No», rispose. «Ma ci siamo fermati.»
Lasciò che sua sorella scendesse da cavallo e che andasse a recuperare le sue briglie, poi abbandonò la sella a sua volta, raggiungendola a terra.
Si avvicinarono piano a Riario, sfilando silenziosi tra una guardia armata e l’altra. Erano tutti stravolti, tanto che nessuno li fermò per chiedere dove avessero intenzione di andare.
Tutto il campo, comandanti compresi, aveva l’unico, grande desiderio di buttarsi per terra e dormire.
Il Capitano Grunwald arrivò loro incontro che già avevano praticamente raggiunto Riario.
«Eccovi qui», disse, mostrando loro la via verso il luogo in cui il Conte si stava concedendo un po’ di riposo lontano dall’esercito. «Da questa parte; fate in fretta.»
Quando Orso intercettò la presenza del Conte, rimase volutamente indietro.
Si nascose dietro Grunwald, tanto vicino alla sua schiena da potergli scostare il mantello con il fiato, e non si scostò da lui neppure quando udì la voce di Riario salutarli con tono stanco.
Porpora poteva prendersi cura della situazione. Era intelligente, sapeva parlare, era coraggiosa. A differenza di lui, che invece preferiva restarsene nascosto dietro una guardia svizzera, come se Grunwald fosse suo alleato. Sapeva benissimo che, al minimo cenno, l’uomo gli avrebbe staccato la testa per poi consegnarla a Riario su un palo.
«Conoscete il greco?», sentì chiedere dal Conte, mentre dentro di sé si dava del codardo.
La risposta di Porpora non tardò ad arrivare.
«Certo! Chi diavolo non conosce il greco?», ironizzò, alzando le spalle.
Orso si scostò da Grunwald per un istante.
«Io so scriverlo», mugolò.
Poi tornò al suo posto.
Il Conte sospirò a lungo.
«Ogni volta che desidererò parlarvi, i miei uomini tracceranno la lettera omega in un luogo che sarò certo voi frequentiate. L’incontro sarà fissato per la notte successiva a quella della comparsa della lettera, in questo esatto luogo, appena dopo il coprifuoco.»
Porpora incrociò le braccia sul petto.
«D’accordo», rispose. «Come faccio a farvi sapere che ho recepito il messaggio?»
«Non sarà necessario, ci vedremo direttamente la notte dopo.»
Deglutendo, Orso mise le mani in tasca. Aveva ancora le sue fate crudeli.
Chiamando a raccolta quel poco di coraggio che gli era rimasto, si scostò da Grunwald, tendendo il palmo aperto verso Riario.
«Prendete queste», disse, mostrandogli le sue creazioni. «Ne troverete di simili in questo luogo, quando avremo trovato il corpo. Varrà la stessa regola per la lettera omega.»
Per tutto il tempo che pronunciare quelle parole gli prese, Orso si preoccupò di fissare la punta dei suoi stivali.
Aspettò quindi che Riario prendesse in consegna le sue fate, prima di richiudere il pugno e tornare al suo posto accanto al suo destriero.
Augurò la buonanotte ai presenti con un inchino, dopodiché montò in sella e attese la sorella.
Si allontanarono in fretta, prendendo la strada per Firenze ma fermandosi poco prima delle mura cittadine, nascosti nel bosco che andava via via diradandosi.
Non li avrebbero comunque fatti entrare in città nel cuore della notte. Aspettare fino al mattino e sperare di confondersi tra i mercanti era la scelta più saggia.
Si accoccolarono vicini sotto al mantello di Porpora, coperti anche da qualche strato di foglie secche e muschio per tenersi al caldo.
Orso circondò in un abbraccio la sorella, stringendola forte a sé.
«Davvero eri già stato a Firenze? », gli chiese lei, sottovoce.
Lui annuì, piano.
«Con papà, sì.»
«Non mi ha mai portata con sé.»
Orso rimase in silenzio.
Di nuovo, il lieve tono di Porpora lo riportò nella conversazione.
«Credi che la rivedrai?»
Orso trasalì.
«Parli di Beatrice?»
Pronunciare quel nome gli fece quasi male.
«Sì, parlo di Beatrice.»
Non rispose subito, non ce la fece. Rimase imbambolato a pensare che forse sì, forse avrebbe ritrovato il suo perduto amore di gioventù, che forse sarebbe persino riuscito a parlarle. O che forse era stata data in moglie a qualche nobile pisano e che erano ormai anni che ella non risiedeva più a Firenze.
Pensò davvero tanto a una risposta da dare a Porpora ma, quando trovò qualcosa di intelligente da dire e aprì la bocca per commentare, avvertì il lieve respiro di sua sorella spegnersi sotto un suo gemito.
Si era già addormentata.








L’odore pungente dei mercati fiorentini costrinse Orso a fermarsi nel bel mezzo della strada per soffiarsi il naso in preda all’allergia.
Pensieroso, colse l’occasione per osservare la folla muoversi con ritmo attorno a lui, quasi Firenze avesse una sua canzone da seguire, quasi la gente non fosse mossa dalla fretta ma da un improbabile spartito.
Sì, era tutto decisamente diverso dal disordine di Roma.
Soddisfatto delle sue scelte, lanciò alla sorella uno sguardo contento, che venne però ricambiato con una smorfia di puro astio.
Porpora detestava stare in mezzo alla gente, specie se la suddetta gente era a lei sconosciuta. La metteva a disagio, in un certo senso, sebbene non le impedisse di elevarsi al di sopra di qualunque popolano incontrasse. Era sempre stato così, anche quando era bambina, quando andavano al mercato mano nella mano assieme alla mamma.
Mostrava però una certa curiosità, mascherata sotto il cattivo umore di essere lontana da Roma, e pareva interessata a contare e ricontare i fiorini che avevano guadagnato, in quella prima settimana, imbalsamando qualche animale. Probabilmente tale interesse proveniva dallo scoprire se i profitti erano maggiori sotto i Medici, ma pur sempre di curiosità si trattava, e Orso sapeva accontentarsi.
Sospirando, accarezzò le due piume che portava legate al capo.
«Sorella!», chiamò, raggiungendola con un balzo davanti alla bancarella che la ragazza stava esaminando. «Hai trovato qualcosa?»
Lei alzò le spalle.
«Tabacchiere, lame, inutili gingilli. C’è ben poco di utile, in questa città», considerò.
Orso scoppiò a ridere.
«Ti aspettavi forse un banco di santi?», la schernì.
«Mi aspettavo qualcosa di utile, visto che sono sette giorni che brancoliamo nel buio.»
«Sorella, smettila di parlare come una nobile. Finirai per diventarlo, ti mariterai con un Duca o con un Conte e spenderai gli ultimi anni della tua vita chiusa in un palazzo a ricamare fazzoletti.»
Porpora gli scoccò un’occhiata scettica. Aveva fama di essere particolarmente attaccata al denaro e ai suoi guadagni, ma da qui a sognare la vita di una nobildonna ne correva, e Orso lo sapeva. Inoltre, molto tempo prima, quando erano poco più che bambini, si erano promessi di non abbandonarsi mai, qualunque cosa fosse successa. Erano stati lontani sette anni, ma alla fine si erano ritrovati.
Sospirando, Orso estrasse dalla sua borsa un foglio di cartastraccia.   
Porpora lo indicò con un cenno del capo.
«Che cos’è?», chiese.
Lui la guardò, alzando le spalle.
«Il nostro contratto.»
Avevano recuperato un teschio mangiato dalla sifilide due giorni prima, in un cimitero appena fuori città. Non era in ottime condizioni, ma Orso sapeva fare miracoli con la cera e così aveva acquistato una forma decisamente più presentabile. La notte prima, però, Riario lo aveva rifiutato, affermando che il corpo di cui andavano alla ricerca non era quello che avevano tra le mani.
E non era di certo cosa facile, trovare un morto di sifilide in una città come Firenze! Ma sia lui che Porpora si stavano impegnando a raccogliere quante più informazioni possibili, alternando le ricerche a qualche occasionale vendita di reliquie in città.
«A chi dobbiamo mollarlo?», s’informò Porpora, assicurandosi che la borsa che portava a tracolla fosse ben ferma sulla sua spalla.
Orso si sforzò di leggere la minuscola calligrafia sul foglio.
Mossa inutile, poi, visto che sapeva esattamente chi andare a cercare.
«Un vecchio amico.»
Porpora storse le labbra.
«Te lo sei immaginato o posso saperne il nome?»
«No, no. È reale.» Orso corrugò la fronte, sospirando. «Sta’ a vedere!»
Porpora roteò gli occhi, ma si astenne dal commentare.
Girarono ancora un po’ a vuoto per il mercato, Orso osservando l’ambiente con curiosità, Porpora alternando gli sbuffi alle lamentele.
Non fecero invero molta strada, bloccati un po’ dalla folla, un po’ dalle bancarelle che prepotentemente li chiamavano a guardare la loro mercanzia, ma provarono ad avanzare almeno fino alla piazza principale.
Allorché, giunti nei pressi di un piccolo slargo, una voce alta e dal timbro studiato attirò con prepotenza la loro attenzione.
«Signore e signori! Quest’oggi, vi offro le incredibili ossa del martire Bartolomeo, scuoiato vivo, e quelle della bellissima Agnese, uccisa da un coltello alla gola!»
Impietriti, sia Porpora che Orso si voltarono verso quello che per loro non era che un richiamo.
Appollaiato su una vecchia cassa di legno, un uomo sorrideva sornione alla folla. Aveva il volto abbronzato, coperto da una barba forse un po’ troppo incolta, e vestiva con fare senza dubbio troppo eccentrico per trattarsi di un comune venditore.
Porpora lo osservò a lungo attraverso i suoi occhi scuri fissi sulla figura dello sconosciuto. Il corpo si era mosso in una posizione di difesa posta a proteggere la borsa, ma il viso restava quello limpido e calmo di chi sa nascondere ogni emozione.
Orso si chiese se qualcuno fosse mai riuscito a scorgere, sul volto di sua sorella, una qualche piccola traccia d’amore o di compassione. E dire che le donne, a detta degli abitanti di Roma, erano tutte volubili ed eloquenti.
«Che ci fa un tartaro a Firenze?», gli chiese subito lei, dopo un istante di silenzio.
Lui rise.
«In un certo senso, ce l’ho spedito io!»
Si aggiustò la camicia sul petto e, con fare formale, si avvicinò all’abile oratore armato di un sorriso a trentadue denti che avrebbe illuminato persino la più buia delle cantine.
«Zoroastro, mio vecchio amico!», salutò, alzando la mano con fare amichevole. «Fammi indovinare, quell’artista ti ha piantato due giorni dopo averti assunto?»
L’uomo lo guardò, stranito. Poi, come un’onda improvvisa, un largo e brillante sorriso gli illuminò il volto con una fila di denti bianchissimi, ammalianti.
«Orso!»
Il ragazzo non fece in tempo a prepararsi che l’uomo gli fu letteralmente addosso, abbandonando il suo palchetto per dedicarsi unicamente a un abbraccio fin troppo caloroso.
«Quanti anni!»
«Lo dici bene! Ma che t’ha fatto da Vinci? Sei ingrassato!»
Si strinsero l’un l’altro fino a che a Orso non mancò il fiato, allorché si costrinse a scostarsi dall’amico con una pacca sulla spalla, tossicchiando prima di piegarsi sulle ginocchia e riprendere a respirare. Indicò sua sorella con un cenno del capo, facendole segno di avvicinarsi.
«Questa è mia sorella Porpora.»
Porpora incrociò le braccia sul petto, sbuffando con il suo solito fare seccato.
Zoroastro, invece, allargò maggiormente il suo sorriso.
«Quella che andavi cercando per le vie di Roma?», chiese, sornione.
Orso annuì.
«L’unica che mi  è toccata!»
Risero ancora, Zoroastro talmente forte da far tremare il mercato intero, Orso molto più contenuto. Porpora fu l’unica a restarsene con le braccia incrociate a fissare in cagnesco qualunque essere vivente del raggio di tre leghe.
«Veniamo alla ricerca di informazioni», sbottò alla fine, tirando suo fratello per il bavero della camicia talmente forte da farlo sbilanciare in avanti.
Con un colpo di tosse, Orso si ricompose.
«Già, un affare assai strano», disse, aggiustandosi il berretto sul capo. «Da Roma ci mandano per un morto di sifilide.»
Zoroastro schioccò la lingua sul palato.
«A Roma non ce l’avete, la sifilide?»
Porpora sospirò rumorosamente.
Orso sorrise appena. Non voleva far alterare sua sorella, sempre che tutto quel riconciliarsi non l’avesse già fatto.
«Ti racconterò ogni dettaglio più tardi, Zoroastro», disse quindi, bonario. «Ma prima è di vitale importanza che tu ci guidi attraverso Firenze. Dimmi, c’è qualche persona che conosce esattamente i cimiteri della città?»
L’uomo soffocò una risatina.
«A parte me, intendi? Conosco i campi santi meglio di casa mia, ormai!»
Porpora roteò gli occhi.
«Siamo in due», commentò.
Orso sorrise, vittorioso.
«Siamo fortunati, allora», rispose. «Ce ne servirà una descrizione esaustiva.»
«Lungi da me rifiutare», concesse Zoroastro. «Ma andiamo in un luogo più calmo. Il mercato di Firenze non è certo luogo per vendere i morti.»
Camminarono in silenzio per qualche minuto, in rigorosa fila indiana per le vie affollate della città, quasi senza osare parlare.
Zoroastro li guidava con sveltezza attraverso i vicoli, Porpora lo seguiva a piccoli balzi, attenta a non farsi travolgere data la sua minuta statura, mentre Orso, grande e grosso com’era, faceva un po’ più fatica, arrancando tra la folla e facendosi strana a gomitate.
Arrivarono alla meta che ormai i due fratelli avevano il fiatone.
Si trattava di una bottega d’arte alquanto affollata da scultori e pittori intenti a lavorare sui loro capolavori. Vi erano modelli distesi sui piedistalli, ragazze danzanti attorno ad un cavalletto, e tutto sembrava essere così fresco e spontaneo che Orso non poté che aprire la bocca in un’espressione di pura meraviglia.
«È … bellissimo!», disse a sua sorella, sorridendo con curiosità.
A Roma non avevano niente del genere.
Porpora alzò le spalle.
«Non ci vedo niente di bello», rispose, seccata.
Mosse qualche passo in avanti, raggiungendo le alte spalle del tartaro, e gli batté un pugno sulla schiena.
«Abbiamo del lavoro da fare», sentenziò, acida come al solito. «Dunque?»
«Porpora, non essere cattiva», rise Orso, prendendola per un braccio. «Andiamo, cerca di andare incontro a Zoroastro.»
Lei ruggì di risposta, scrollandosi dalla presa.
Orso la guardò drizzarsi sulle spalle e si lasciò sfuggire un sospiro divertito. Porpora era sempre così negativa con il mondo che la circondava, eppure era in grado di tirarlo su di morale, di dargli quella forza di andare avanti, di spronarlo verso avventure in cui lui mai si sarebbe buttato a capofitto. Era un po’ la sua energia, nonostante avesse un temperamento decisamente cattivo.
Sorrise, scollando il capo.
«Dove siamo, Zoroastro?», chiese.
Non fu la voce del suo amico, a rispondergli, bensì quella di un totale sconosciuto.
«Alla bottega del Verrocchio!», trillò qualcuno.
I due fratelli si voltarono, sorpresi, osservando un ragazzo dall’aria eccentrica scendere una delle scalinate che conducevano al piano superiore.
Era un giovane uomo sulla ventina, con la barba e i capelli ben curati, un fisico asciutto ma atletico.
«Mi chiamo Leonardo da Vinci», annunciò subito, pomposo, battendo sul tempo  qualunque tentativo di presentazione. «E voi, a giudicare dai vostri abiti sporchi di cenere, e dalle vostre facce sporche di sabbia, siete i colleghi di Zoroastro.»
Orso sorrise, sorpreso da tanto spirito di osservazione.
Gli erano sempre piaciute, le persone intelligenti.
«Chiamarci colleghi è offensivo», ribatté invece Porpora, incrociando le braccia sul petto. «Non siamo certo degli sciatti profanatori di tombe. Le nostre imbalsamazioni sono famose fino a Napoli.»
Lanciò un’occhiata carica d’astio a da Vinci, poi allungò la mano in segno di saluto.
«Porpora di Vallesanta. Questo è mio fratello, Orso.»
Assecondandola, Orso alzò appena il cappello.
«Tanto lieto», commentò.
L’artista li guardò entrambi con un mezzo sorriso dipinto sul viso, poi batté le mani, facendosi curioso nei confronti della borsa che Porpora portava a tracolla.
«I Vallesanta», disse, quindi. «Ho sentito parlare della vostra famiglia. Pensavo foste tutti morti.»
«Lo pensavano un po’ tutti, a Roma», rispose prontamente Porpora.
Da Vinci annuì piano.
«Per quale motivo li hai portati qui, Zo?», chiese poi.
Zoroastro aprì la bocca per parlare, ma Porpora fu più veloce.
«Una mappa, il più dettagliata possibile, di ogni morto e sepoltura in città dell’ultimo mese», rispose, fulminea.
«Vi costerà una fortuna!», rise a gran voce Zoroastro.
Da Vinci alzò un sopracciglio e fermò la risata del suo compagno con un gesto della mano.
«In cambio?», si informò, interessato.
Orso mosse un passo avanti, aprendo il pugno nel quale aveva raccolto tutte le fate crudeli che gli erano rimaste in tasca. Aprì la mano dinanzi al giovane e sorrise, piegando appena il capo.
«Sono certo che possiamo trovare un accordo.»




   
 
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