Serie: Hetalia
Titolo: Nunc liberi sumus - κύκνειον
ᾆσμα
Personaggi: Antica Grecia (Eirene Mykenon), Antica
Roma (Tiberius Iulius Octavianus Augustus)
Warning: //
Wordcount: 1500
Challenge: Writing Stuff Series
Prompt: Day # 6 - « L'amore è
più freddo della morte»
Note: mi
prendo la libertà di interpretare come meglio credo la
citazione estrapolata dal contesto, e ci tengo a spiegare la mia
visione personale~ Prendiamo l'aggettivo "freddo". Il freddo
è qualcosa che fa in modo che la materia si "irrigidisca"
(scusate ma non tocco libri di scienze da un anno): questo ci potrebbe
dare l'idea di qualcosa di solido. L'amore è più
solido della morte. Tadà m/
Cosine importanti da sapere:
- La parte del titolo scritta in greco significa "canto del cigno";
- Aurora etcetcetc =
"ῥοδοδάκτυλος
Ἠώς",
come veniva descritta l'alba in Omero. E l'alba viene citata da Gandalf
ne Il Ritorno del Re ("sotto una lesta aurora"), ma okay, preziosismo
troppo prezioso (?) lol;
- Paradeisos = paradiso, significa "giardino" in greco, da cui
deriva la parola "Paradiso". Sta a voi pensare se
questo è veramente l'aldilà oppure solo
immaginazione;
- La scena con Marte e Venere è presa dal De Rerum Natura di
Lucrezio. Ho messo appositamente il nome Afrodite invece che Venere,
visto che sono "specchio dei due amanti", quindi di Augustus e Eirene;
- Pax = Eirene = Pace --> latino = greco = italiano.
Sì, tutto spudoratamente ispirato al film "Il Gladiatore".
Disclaimer:
Blablabla, come al solito solo la storia è mia, i
personaggi/la serie appartengono a Himaruya~
κύκνειον ᾆσμα
Il risveglio non è così doloroso come
aveva immaginato: non ha ancora schiuso gli occhi, ma percepisce che
non è il grigiore delle nubi e delle fumose rovine che la
sovrasta, bensì luce che varia dal bianco all’oro
pallido, dove l’aurora stende le sue dita rosate; brezza
leggera accarezza la sua pelle e smuove gli scuri capelli perennemente
scompigliati; sul terreno morbido è disteso il suo corpo
pesante, circondato da quelle che al tatto paiono ruvide e pungenti
spighe che ondeggiano al vento, frusciando.
Del denso sangue non sente più il sapore né
l’odore, così come della polvere sollevata a nubi
dalla distruzione, del fumo nero e ustionante; delle ferite non si
sentono più le fitte; del cuore non si sente più
il rantolio accelerato e affaticato; la cassa toracica non è
più affannata da una spasmodica aritmia; le orecchie non
sono più assordate dalle urla e dagli scoppi e dallo
stridere acuto di lame che s’incrociano.
Respira profondamente, e aria fresca le riempie i polmoni.
E capisce che, qualunque cosa fosse quel vivere, ha avuto
definitivamente un termine prima con l’oblio e poi con questo
risveglio, altrimenti proverebbe tutto quello che i suoi ricordi
sfocati tentano di rievocare.
Paradeisos.
«Mi hai fatto aspettare parecchio, Eirene,
sai?»
Le parole che si aggiungono al fruscio le solleticano piacevolmente le
orecchie assieme al leggero rumore scricchiolante di erba calpestata
sempre più vicino. Incredulità e infantile gioia
effimera si fanno strada nella mente di lei in un lieve sussulto
sorpreso: come non poter riconoscere i passi e la voce
dell’uomo al cui fianco è rimasta per secoli,
contro il quale e con il quale e per il quale si è battuta
più e più volte? I suoi occhi sono ancora
socchiusi, ma può con assoluta certezza e precisione
immaginare il sorriso -a lungo sognato- di Augustus: radioso come quel
luogo pare, e tanto impertinente quanto ingenuo, caldo come la sua
stessa voce.
Nostalgia.
Sorridere le viene tanto naturale come riaprire gli occhi, che
finalmente si affacciano alla luce eterea; i mormorii del grano maturo
importunato dalla veste ora immacolata della donna e dal suo peso la
accompagnano nei suoi movimenti. Il suo corpo si volge leggermente, e
finalmente può vedere.
Quasi mille anni.
Tutto rimane uguale ai silenziosi risvegli all’alba, nel
silenzio interrotto solo dal respiro pesante e nella penombra del
cubiculum: si voltava sempre verso la figura addormentata di
Augustus, tendeva una mano per accarezzare quei ciuffi
ribelli. Ancor prima che essa potesse sfiorarli, veniva ritratta da
Eirene stessa e stretta con timore al petto.
Oppure accadeva che il romano fosse già sveglio,
più veloce e ancor più scaltro e riuscisse a
catturare un polso di lei: ritrovarsi poi stretta al corpo di Augustus
era questione di un secondo, non le veniva concesso nemmeno il tempo
per divincolarsi. Ma rideva, eccome se rideva sulle altrui labbra,
eccome se tintinnante la sua voce infrangeva il notturno silenzio.
Marte vinto dall’eterna ferita d’Amore, adorante, e
Afrodite che lo culla dolcemente dagli affreschi li osservavano,
specchio dei due amanti.
Un sospiro profondo.
Già la sua mano ancora soffre per la tentazione di
nascondersi tra quei ricci scuri, anche solo per assicurarsi che non
sia un’illusione.
Sarebbe davvero doloroso quanto morire ancora.
«Ho cercato di fare come mi hai detto, ma se mi trovo qui non
credo di esserci riuscita.»
Un sussurro è la risposta.
E già le viene offerta una mano dal consorte; istintivo
è l’afferrarla saldamente con la propria e
sbilanciarsi verso di lui: ogni tentativo di ignorarlo non trova
ragione di esistere in Eirene. Il suo corpo si scontra contro quello
altrui, attirato dalla maggior forza del romano, ma non
c’è più ora a dividerli la fredda
placca di metallo lucente dell’armatura a cui lei stessa
aveva rassegnatamente dovuto fare l’abitudine secoli prima.
La guerra le aveva sì negato il calore umano, e glielo aveva
fatto temere più di ogni altra cosa, perché
effimero e sempre prossimo alla morte.
Perché distruttivo quando non vi è più.
Ma ora no, c’è solo stoffa dalle morbide pieghe,
dove Eirene si rifugia: nonostante il tempo che li ha separati, lei
ancora conosce perfettamente ogni singolo centimetro di quel corpo che
ora la stringe e a cui si appoggia fiduciosa.
Sa perfettamente dove nascondere il volto sulla spalla altrui, sa dove
posare la mano sul suo petto, ne riconosce i battiti cardiaci, il
calore. Ancor meglio riconosce il braccio di Augustus attorno alla
propria vita che con forza gentile la sostiene, e la mano che le
accarezza i capelli con tocchi così lievi ed esasperatamente
lenti da quasi non essere percepibili, come fosse lei stessa fatta di
cristallo, fragile e da proteggere.
Augustus sa.
E' parte della propria anima, dopotutto. Ne conosce ogni dubbio,
ogni tormento, ogni paura, ogni rimpianto.
Deve, deve proteggerla. Almeno dai suoi stessi dannosi pensieri carichi
di sensi di colpa.
«Ti ostini a mentire e a sminuirti come al solito, Eirene.
Hai fatto quello che potevi nel migliore dei modi, non devi
preoccuparti. Sono tutti vivi, è questo quello che conta, e
non potevi evitare l’inevitabile.»
La presa di coscienza porta amarezza, che la pervade lentamente
facendole storcere il naso e serrare nuovamente gli occhi, mentre il
volto preme contro i rilassati muscoli altrui, il sorriso ora una
smorfia affranta; ancor più frustrante è il
sentirsi così ingiustamente sollevata a quelle parole
sussurrate, ad ogni carezza che la mano gentile di lui riserva alla sua
guancia.
Ha sempre trovato paradossale la dolcezza con cui Augustus la trattava
e la tratta tutt’ora: l’ha visto combattere, ha
visto come strappava le vite altrui, la rapidità con cui
poteva togliere la luce dagli occhi del suo nemico, eppure a lei
sembrava donare vita ogni volta che la sfiorava soltanto e lei si
ritraeva veloce. Lui le sorrideva e lei distoglieva lo sguardo,
andandosene. E lui ci riprovava finché non otteneva
l’effetto desiderato.
«Ti ho tenuta d’occhio spesso da qui.»
Ora nessuna preghiera, nessuna supplica, nessun gioco.
Eirene sospira profondamente -unico modo per rimanere tranquilla-, la
stretta alla sua vita si fa più salda e sicura, e la sua
stessa mano stringe con più forza la veste di Augustus.
E' lei quella che supplica ora.
Perché il suo animo altro non desidera che abbandonare il
peso dei sentimenti portati dalla vita.
«Non volevo, davvero… non volevo lasciarli soli.
Non volevo che tu ci lasciassi.»
Ancora non lo guarda in volto, ma può immaginare di nuovo il
sorriso che adesso le sta riservando: è il sorriso che la
rassicurava prima che lui partisse per una guerra, che calmava la sua
rabbia, che rendeva quieta la sua mente; era il sorriso capace di farle
sussultare fastidiosamente il cuore e di fare in modo che si
abbandonasse a lui. E' il sorriso che l'aveva vinta.
«Sai meglio di me che non possiamo controllare il Destino, o
Dio o gli Dei. Ma sono davvero lieto che mi sia stato concesso di
vederti.»
Quasi mille anni.
Mille anni in cui non ha potuto sentire la sua voce se non nelle notti
insonni, mille anni in cui non ha potuto vedere il suo volto se non nei
suoi pensieri. E nulla si avvicinava minimamente alla realtà.
Insopportabile.
Crederci adesso lo è quasi di più.
Rapido quanto improvviso è il movimento con cui Eirene porta
entrambe le braccia al collo di Augustus, e la forza disperata e
possessiva con cui lo stringe a sé immane; secoli di lacrime
mai versate ora le rigano le guance inumidendo la toga altrui:
sofferenza e gioia assieme si uniscono in singoli battiti ritmici che
scuotono il petto di lei con tanto dolore da farla sentire nuovamente
viva e minacciarla di nuova morte.
Fa male.
Come il solo pensiero che anche lui potrebbe sparire di nuovo, assieme
a tutto ciò che ha appena perso.
«Sì, mi sei mancata anche tu, Eirene.»
Fa dannatamente male.
Come sentire il suo nome mormorato da quella voce per lungo tempo
inudita, e come le lente carezze che percorrono le spalle sussultanti e
la schiena tremante, o come le labbra che si posano sui suoi capelli in
un lievissimo -e a lungo agognato e sognato- bacio.
Come la stretta che non ha mai smesso di tenerla salda.
Tutte le scuse e i sensi di colpa della donna sono lì, in
quelle lacrime amare; tutto l'amore mai cessato è
lì, palese e senza vergogna in tutta la sua potenza; tutto
il dolore della perdita e dell'abbandono ora liberato e ogni lamento
disperso nell'aria e divenuto muto.
Non sa quanto tempo scorra tra le suppliche di far smettere questa
tortura, i singhiozzi spezzati e i respiri affannosi, i sussurri
inudibili dall'amabile suono che richiamano il suo nome.
Ma tutto finisce.
E non c’è più bisogno di parlare, solo
il sollievo che alleggerisce il macigno all'altezza del cuore.
Sta bene.
Lì, qualsiasi posto esso sia.
Ma preferisce pensare che siano i campi immensi della Tessaglia della
sua giovinezza, dove, per la prima volta, aveva incontrato Augustus.
«Mea Pax.»
29 Maggio 1453 - Caduta dell’Impero Romano d’Oriente