Storie originali > Azione
Ricorda la storia  |      
Autore: miss dark    02/08/2008    3 recensioni
" Il grilletto destinato a sconvolgere la vita di una persona si preme in un secondo. " (Cit. Nana)
Simone è una ragazza di diciassette anni, adottata da una famiglia di mafiosi.
La sua vita verrà sconvolta dalla sua scelta di collaborare con loro.
Questa storia si è classificata al secondo posto partecipando al contest "Magia di una frase" indetto da akane_val.
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
The Last Time

" Il grilletto destinato a sconvolgere la vita di una persona si preme in un secondo. "

Corro disperata, nella fobica ricerca di una via d’uscita.
Mi inseguono. Ancora.
- Andate via - urlo tra le lacrime. Ma non mi sentiranno. Non sarà diverso dalle altre volte.
Salto quel cancello. Di nuovo.
Sono libera. Finalmente il mio respiro può essere regolare.
Mi appoggiò alle ginocchia. I palmi sanguinanti delle mani imbrattano di un liquido cremisi i pantaloncini grigi. Qualche stilla gocciola anche sulle scarpe.
Il maglione blu che indosso è sudato sul colletto. Le maniche si sono macchiate.
- Cazzo!
Mi devo disfare di ogni indumento incriminato prima di tornare alla base. La mia casa. Da sempre.
Prendo uno zaino nero che ho nascosto dietro un cespuglio prima di entrare nella fabbrica abbandonata. Ne estraggo il contenuto. Un cambio di vestiti, nessuna scarpa.
Devo sbrigarmi.
Prima che sia l’alba. Prima che il sole illumini il mio peccato.
Lancio lo zaino contenente i vestiti sporchi in un cassonetto vicino, poi gli do fuoco.
Adoro il fuoco. È una mia perversione.
Sentirne lo screpitio è un piccolo, ma immenso piacere, per me.
Ma devo correre, non posso godere di questa distruzione. Non oggi.
Riprendo la mia corsa. Sono meno ansiosa, ma ancora svelta, decisa a non voler tardare.
Le prime luci di un nuovo giorno sorgono all’orizzonte, illuminando fiocamente i contorni squadrati delle case di una periferia disabitata..
Odio il giorno.
Penso fermamente che sia più affascinante la notte. Con le sue sfumature dolci, ma passionali e violente, sotto alcuni aspetti.
La notte è sfaccettata, possiede mille incantevoli volti, mentre il giorno è refrattario, spesso uguale.
Solo se piove, le ore diurne sono più apprezzabili.
L’odore della pioggia è un’altra deliziosa voluttà della mia vita, volta solo alla distruzione.
L’asfalto batte veemente sotto i miei piedi scalzi.
Freddo e ristoratore riflette i primi raggi di sole.
Nel cielo non si osserva neanche una nuvola.
Sono uscita dalla città. Le case di ricchi signori stagliano la loro incerta ombra sulla terra battuta di ampi sentieri di campagna.
Proseguendo la mia corsa, ora più veloce, mi imbatto in una casa bianca dalle persiane blu. La casa di quella volta.

"Non voglio più dedicarmi ai furti. Sono cose da bambini. Desidero qualcosa di più impegnativo!"

Capricci di ragazza cresciuta tra la morte.
Desideri malsani di una bambina divenuta donna troppo presto e nella maniera scorretta.

Cammino a passo sostenuto verso la campagna circostante la città.

"Io chiedo fiducia e loro mi affibbiano un’altra ruberia da quattro soldi".

Se lo fosse stato!
Magari non sarei nella mia situazione.
Forse potrei scappare. Anche oggi.
Ma quella non fu una "ruberia da quattro soldi".

Sono di fronte al portone di legno massiccio di una casa troppo sfarzosa per essere di persone qualunque.

Sono pronta all’azione.

Suono il campanello.

Una volta.

Mi schiarisco la gola.

Due volte.

Umetto le labbra.

Tre volte.

- Chi è?

Non rispondo. Fingo un singhiozzo e, intanto, scendono piccole lacrime sul mio volto.

La porta si apre e una cameriera dal viso preoccupato mi guarda inorridita.

- Chi sei?!

Alzo lo sguardo, implorante. Falso.

La signora, che non avrà più di venticinque anni, mi osserva stranita.

Indosso una maglia troppo lunga e troppo sudicia per appartenere a un abitante della zona.

Non ho pantaloni.

Continuo imperterrita nel mio pianto illusorio e sleale.

Una donna anziana e vestita elegantemente si affianca alla cameriera, rimasta spiazzata dalla mia scenata.

- Cosa succede?

La sua voce è gentile, dolce.

Improvvisamente mi sembro crudele. Inizio a pensare che il mio scopo non sia nobile, come mi è sempre parso, che se io sarò felice sarà solo perché altre persone hanno sofferto. Capisco che il mio comportamento non è giusto.

Ma non posso smettere. Devo arrivare fino in fondo. Devo farlo per tutta la banda.

- Non so...questa bimba...

- M-mi sono p-persa...

- Quando, cara?

I lineamenti facciali della padrona di casa mutano, ma il timbro vocale è identico, quasi distaccato.

- Qualche... tante, settimane fa...

Mi strofino le mani contro le braccia fredde e intorpidite.

- Vai pure, Louise.

La domestica, congedata, si allontana in fretta, e mi lancia occhiate fugaci e ansiose, probabilmente spaventata dal mio aspetto.

- Quanti anni hai, piccolina?

Flette leggermente le gambe, per raggiungere la mia altezza e guardarmi negli occhi.

Non temo che la mia finzione venga smascherata. Sono troppo esperta per fallire.

- Sette.

Ne ho dieci, ma sono bassa e magra.

- Entra, avrai preso tanto freddo...

E se non l’avesse detto, ora io non avrei rimorsi.

Se non fossi stata tanto brava, ora sarei meno sicura di me stessa.

Sarei stata cacciata dalla banda. Sarei fuggita da questo mondo ingiusto in cui devo vivere.
Forse sarei morta.
Abbandonata a me stessa, senza una ragione concreta di vita.
Ma non posso riscrivere il passato e, anche se potessi, probabilmente, lascerei scivolare la mano sulle stesse antiche e profonde orme della mia esistenza e cadrei nello stesso incubo.
Perché soffrire di nuovo?
Questa è la mia vita e quella fu l’azione che ne traccio le coordinate.

Dopo avermi dato vestiti e cibo caldo, mi offre ancora il suo aiuto.

Margaret, la donna che mi ha accolto con tanto, forse eccessivo, calore, mi guida lungo il corridoio luminoso e grande. Tiene una mano sulla mia spalla, come se temesse di perdermi.

- Eccoci arrivate, Marina.

È un nome falso, quello che uso di solito.

- Che cos’è?

Non mi ha ancora informata sul luogo dove mi stava portando.

- Sarà la tua camera per la notte.

Rimango estremamente colpita. Abbasso lo sguardo, conscia di essere sull’orlo di un pianto.

Provo ribrezzo verso me stessa, ora, come mai prima.

Mi faccio forza e le sorrido.

Lei ricambiando, spalanca la porta bianca e mi accompagna al grande letto a baldacchino, nel centro della stanza.

- Ora dormi; sarai molto stanca, piccola.

- Si.

Mormoro piano, per non farle notare l’incrinatura di delusione nella mia voce.

Ero scontenta di me stessa, proprio come lo sono ora.
Ma vado avanti. Devo farlo.
Chiudo gli occhi, stringo i pugni, ora, come tutte le volte che ripenso al mio passato.
Ricomincio a correre.
Tento di scacciare i ricordi dalla mente, ma mi viene difficile.
Rimembrare è un mio dovere. Un rispetto verso me stessa.
Farlo mi serve per non scordarmi quella che sono e che sono stata.
Sono sdraiata sul letto, accoccolata tra le morbide lenzuola rimboccate dall’anziana.
Si è seduta sul bordo del letto. Mi sta cantando una ninna nanna.

Percepisco le palpebre pesanti, ma il mio compito deve ancora essere svolto. Non posso permettermi di dormire.

La donna continua a cantare e il mio corpo viene cullato dal pensiero di un dolce sonno ristoratore.

Poi tutto tace.

Margaret ha terminato la canzone.

- Buonanotte, piccolina!

Avvicina il suo viso al mio e mi sfiora la guancia destra con un morbido bacio.

Sono sconvolta da tanta tenerezza.

Anche spaventata, se così si può dire, dalla fiducia scontata che mi ha concesso.

Vorrei urlarle di non credere in me, nelle mie azioni, ma ancora una volta vengo frenata dagli ordini che mi sono stati imposti.

- ‘Notte...

Le parole riescono, finalmente, a districarsi dal nodo di pensieri che mi affliggono la mente.

La signora si alza dal letto e mi sorride bonaria.

Mi dona una carezza sulla fronte; gliene sarò eternamente grata.
 
Ancora oggi, ricordando quella sera, penso che avrebbe potuto essere mia madre.
Anche quel giorno quell’idea tanto strampalata quanto impossibile mi balenò nella mente.
Volevo crederlo, ma la durezza della verità mi s’infrangeva addosso, come un’onda di marmo.
Mia madre mi aveva abbandonata sotto un ponte di questa campagna. Anni dopo era morta.
Mi avevano trovata, poche ore dopo, due bambini del paese vicino, e mi avevano portata a casa loro.
Ero cresciuta sana e felice, senza sapere della verità sui miei parenti.
Senza conoscere la realtà sul lavoro del mio padre adottivo.
Credetti veramente, durante quella giornata, di aver trovato la mia vera famiglia.

Spegne la luce della cameretta ed esce dalla stanza.

Chiudo gli occhi.

Non per dormire, ma per piangere.

Lascio alle lacrime libero sfogo sulla mia pelle.

Ed esse scivolano.

Scivolano sempre più giù, fino ad inumidire perfino il collo.

Mi siedo a gambe incrociate sul letto.

Prendo il viso tra le mani. Arresto la caduta delle lacrime.

Se mi lasciassi andare, potrei piangere per tutta la notte.

Ho troppi rimpianti.

Troppe tristezze ed ingiustizie alle spalle, per poter essere completamente felice.

Scendo dal letto ed infilo i piedi freddi nelle ciabatte azzurre.

Cammino lenta e cauta verso la porta; la socchiudo e tendo l’orecchio.

Attendo un qualche rumore.

Un minuto.

Due.

Tre.

Quattro.

Cinque,

Finché non appuro il fatto di essere l’unica rimasta sveglia nella casa.

Scendo le scale con esagerata prudenza. E poi arrivo al piano di sotto.

Quello più ricco.

Quello più ornato.

L’obbiettivo della serata.

Raggiungo la cucina e apro il mobile dove sono contenuti i sacchetti. Me lo sono fatta dire apposta, quella sera, con la scusa di voler cambiare quello del cestino dell’ufficio del signor Ahent, il defunto marito di Margaret.

Ne prendo un paio e mi dirigo nel salone principale.

Al centro, un tavolo pieno di cimeli preziosi e importanti nelle memorie familiari.

Ai lati della stanza, vetrine piene d’argenteria e suppellettili di rara manifattura.

Non mi hanno mai detto di rubare contanti o oro.

"Solo quello che trovi nei salotti. Non andare mai nelle camere da letto".

Con un nodo alla gola e le lacrime secche sulle guance, apro la prima vetrina e metto gli oggetti più preziosi nel primo sacchetto, a motivi marroni e beige.

L’ho quasi riempito, quando un fruscio di vestaglia s’insinua nelle mie orecchie.

- Marina?!

Il sangue gela nelle mie vene.

Il cervello smette di pensare e il soprammobile a forma di cavallo che tenevo in mano mi cade rovinosamente a terra, con un rumore tagliente.

- Che cosa stai facendo?

- Lo sai benissimo cosa sto facendo, Margaret.

Non avrei voluto dirlo, ma i pensieri si sono tramutati all’istante in parole e la sincera verità è scaturita libera dalla mia bocca.

- Perché lo fai?

Questa volta mi mordo la lingua, per non parlare.

Arresto la mia corsa.
Porto un braccio agli occhi, per asciugarli dalle lacrime.
Non voglio piangere.
Mi ero ripromessa di non farlo mai più, per quel ricordo.

Afferro svelta un coltello appartenuto al signor Ahent e lo punto contro Margaret.

È corsa al telefono per chiamare la polizia.

Non deve farlo. Non devo essere scoperta.

Piango.

Singhiozzo.

Soffro, moltissimo.

Mi avvicino a lei, la mano tremante.

Aggancia la cornetta di masonite nera e mi guarda con occhi allarmati.

- Non lo fare Marina. Non lo dico per me: ormai sono vecchia e dovrò morire; ma per te, perché ti rovineresti la vita... te lo assicuro. Non lo fare!

Scuoto la testa con violenza e urlo.

- Stai zitta!

Lei arretra. Ma dopo pochi passi la sua schiena incontra i mattoni del muro.

Faccio un balzo in avanti e le sono addosso.

- Scusami Margaret! Scusami veramente tanto!

Affondo il coltello nel suo petto.

Con forza e convinzione; ne sono subito pentita.

Sussurra dolcemente, come se fossi sua figlia, da sempre.

- Va tutto bene, Marina... tutto bene...

Ma non andava tutto bene.
Non andava bene assolutamente niente!
Una bimba di dieci anni era marcata dall’orrore di un delitto.
I suoi occhi erano velati da lacrime di rancore e rimorso.
Le sue mani, imbrattate del sangue di una donna che l’aveva amata.
Se tutto questo andava bene, allora il mondo è una causa persa.
Mi asciugo le lacrime.
Me ne infischio della promessa.

Il giorno dopo l’omicidio, la banda mi festeggia.

A modo loro sono diventata grande. Ho ottenuto la tanto agognata fiducia.

Ma io non gioisco.

Io non canto ubriaca nel giardino in fiore.

Mi sono allontanata dalla tavola imbandita d’ogni prelibatezza e ho raggiunto il pergolato delle rose. È il mio posto preferito. Da sempre.

Non mi piace particolarmente l’odore delle rose, ma adoro il loro colore.

Rosso come il fuoco.

O bianco come la neve dell’inverno scorso. La prima nevicata di tutta la mia vita.

Ricordo di esserne rimasta colpita.

Pensavo che una cosa tanto bella e delicata dovesse essere anche calda.

Mi pareva un’ingiustizia.

Ma ieri ho capito che il mondo è ingiusto.

Mi sdraio su una panchina verde del giardino. Alzo gli occhi e osservo le stelle brillare sulla trapunta candida della notte.

I miei occhi glaciali si perdono tra tutti i luccichii; le mie lacrime si confondo nel bagliore notturno.

Tirò su col naso e mi giro su un lato.

Porto le gambe al petto e le braccia sotto la testa.

Contemplo la bellezza delle rose.

La purezza di quelle bianche è imbrattata dalla tonalità violenta di quelle vermiglie.

Intrecciano i loro toni in una trama unica e magica. La coperta del mondo.

Tra le immagini della mia mente s’infiltra anche quella di Margaret.

Sono rimasta profondamente colpita dal suo sguardo vacuo, dopo che l’ho uccisa.

Aveva un sorriso malinconico sulle labbra e una lacrima invisibile sul volto che, se avesse avuto la possibilità, avrebbe pianto.

"Perlomeno, ha aggiunto il signor Ahent".

Cerco di tranquillizzarmi con quella constatazione, ma mi agito ancora di più.

Passano le ore e io non riesco a dormire.

Lo scopo dell’andare nel pergolato, infatti, era sempre quello di dormire.

Quando ero piccola funzionava. Sì, perché adesso sono grande...

Ho ripreso a correre da circa mezz’ora.
Le gambe invocano un istante di pausa, ma io persisto in questa maratona contro me stessa.
Voglio sudare. Voglio perdere la percezione delle gambe. Voglio affaticarmi.
Voglio questo, per poter trovare pace, almeno nel prossimo sonno.
Dopo un ulteriore tornante, giungo alla base.
È una piccola villetta con un giardino enorme.
Siamo in sette ad abitarci, normalmente, ma il più delle volte il numero degli inquilini sale fino a venti.
La mia camera è all’ultimo piano, in una piccola torretta dove arriva sempre pochissima luce.
Spalanco la porta d’ingresso ed arrivo al salone principale attraversando un corridoio angusto alle cui pareti sono appesi orribili quadri dei miei fratellastri.
Vantano la fama di grandi pittori, ma, in realtà, le loro opere servono solo come mezzo per il trasporto della droga.
Anche in quelli alle pareti, ne sono certa, ci sono piccole quantità di stupefacenti.
Non dovrei saperlo, secondo il mio patrigno, perché sono ancora troppo piccola; ma sono diciassette anni che abito in questa casa, con queste persone. Ho imparato a conoscerle e a comprenderne i gesti.
Le capisco meglio di loro stessi.
- Salve a tutti.
La mia voce è neutra, quasi infelice.
- E’ arrivata la piccoletta!
Mio fratello più grande, quello cui sono più affezionata e che tiene più a me, mi viene incontro e mi abbraccia.
Sussurra al mio orecchio.
- Mi dispiace, tanto!
Lui sa come mi sento.
È l’unica persona con cui, raramente, mi confido.
Il nostro legame non è superficiale come quello che ho instaurato con gli altri membri.
Posso sempre contare su di lui.
Intreccio le dita tra i suoi capelli ramati e ricci e annuso l’odore del suo petto.
Lo stringo più forte, come se temessi di perderlo.
Lui mi accarezza la schiena con la mano ruvida e mi bacia i capelli.
Gli unici gesti d’affetto che mi concedo sono quelli con lui.
Il suo braccio s’immobilizza, le sue dita stringono convulse i miei fianchi, il suo petto trema di rabbia.
Alza gli occhi per osservare la sua espressione. È atona e priva d’emozioni.
Seguo con la mente il suo sguardo.
Il mio patrigno è entrato.
Ecco il motivo di tanta agitazione.
Mi allontana all’istante e, fingendo indifferenza, si reca in un’altra stanza.
- Ciao Simone.
- Papà.
Non ha mai sopportato che lo chiami per nome. Anche se non è realmente mio padre pretende di essere nominato come tale da me.
- Com’è andata?
Sento il petto stringersi e le gambe farsi molli nel rimembrare ciò che ho compiuto quella stessa notte.
- Ho adempito il mio compito. Sono morti...tutti.
- Tutti quelli che dovevi uccidere, suppongo...
Devo sempre lasciare una persona viva. Perché mio padre possa minacciarla di morte e ricevere soldi da essa.
- Certo...tutti tranne Marletti.
Si avvicina con aria austera a me. Si ferma al mio fianco e mi snocciola un sorriso soddisfatto.
Passa una mano tra i miei capelli e si allontana.
Rimango immobile nel centro del salotto.
I capelli arruffati sul viso stanco; il corpo rigido, incapace di compiere alcuna azione.
- Simone!
Una piccola bambina dai capelli chiari mi raggiunge allegra.
Mi salta in braccio e, d’istinto, le afferro le gambe, esili e sporche di terra.
- Sei tornata! Mi sei mancata tanto, sai...nessuno voleva giocare con me in giardino, ma poi è arrivato Giulio e siamo andati al parco, sull’altalena...mi sono divertita, ma è più bello quando ci sei tu a spingermi!
Socchiudo gli occhi, addolorata dalla spontaneità della frase e dall’innocenza della sua voce.
Le stringo uno dei codini con cui si è pettinata i capelli, sorreggendola con la forza di un solo braccio.
- Sono contenta che almeno tu ti sia divertita.
Maddalena salta giù dal mio petto e si porta le mani ai fianchi, cercando di sembrare più grande e più decisa.
- Tu dove sei stata?-
Ecco il motivo di tanta serietà nel prendere quella posa.
Ogni volta che torno a casa dopo un omicidio, mi chiede dove sono stata.
- Lo sai che non posso dirtelo.
Potrei. Il mio patrigno vuole che io le parli liberamente delle mie azioni, per abituarla alle malignità della sua famiglia, ma io desidero preservare la sua infanzia.
Voglio che i suoi sogni siano fatti ancora di fate e principesse. Che le sue paure più grandi siano i draghi e le streghe cattive.
Deve rimanere una bambina.
Deve crescere come ragazza.
Diventare donna in un mondo migliore, tra persone che meritano la sua purezza.
- Ma io lo voglio sapere!
Si avvicina alle mie gambe e mi tira il bordo dei pantaloncini.
I suoi occhi vivaci m’implorano.
- Ti prego?!
Sciolgo la sua presa e mi allontano da lei.
- Non devi saperlo!
Non vorrei urlare, ma è quello che sto facendo.
- Lo vuoi capire che non sono favole?! È brutto quello che faccio e tu non devi saperlo.
Prendo fiato, dopo tanta brutalità.
Gli occhi della bambina s’inumidiscono di lacrime, ma le nasconde dietro una delle sue minute mani.
Sospiro. Mi accovaccio al suo fianco e le bacio le manine sporche di polvere mista ad acqua.
Lei le allontana dal viso e le mette nelle ampie tasche del suo vestitino violetto.
- Non volevo spaventarti.
È vero.
- È una cosa proprio brutta?
Sbatto le palpebre di fronte alla maturità che dimostra rivolgendomi quella domanda.
- Sì. È la cosa più brutta del mondo.
La abbraccio, avvolgendola completamente tra le mie braccia.
- Ma ci sono io, qui. Ti prometto che a te non succederanno quelle cose brutte. Non devi avere paura.
Si divincola. Mi guarda negli occhi e sorride.
- Allora va bene.
Corre via. Il giardino è illuminato dal sole allegro di una giornata estiva e serena.
Il suo vestitino svolazza ai capricci del vento caldo.
Si volta e mi urla una domanda.
- Vieni a giocare anche tu?
Sorrido malinconica dietro una maschera di gioia.
- Forse dopo.
Mi volto e salgo i gradini marmorei che dividono il resto della casa dalla mia stanza.
Sbatto a porta, richiudendola e mi sdraio esausta sul letto.
Affondo il volto nel cuscino morbido, nel vano tentativo di dormire.
Non ci riuscirò, lo so.
Chiudo gli occhi, accogliendo rilassata l’oscurità.
Le persiane di legno della mia stanza sono sempre chiuse. La luce che penetra attraverso le finestre è fioca. L’aria umida e afosa.
La mia camera era una soffitta.
Le travi di legno del soffitto sono marce e i topi si rincorrono su di esse.
Ma io non ci faccio caso.
Per me questa stanza è perfetta.
Non ho mai amato la luce.
È una camera piccolissima e spoglia, arredata solo da un letto, una scrivania che funge anche da cassettiera e una sedia a dondolo.
In un angolo, c’è un baule di legno solido e scuro. È coperto da un antico tappeto dalla trama complicata e dai colori sbiaditi.
Apro la cassa solo quando torno da un omicidio.
Al suo interno, ripongo un oggetto che ho prelevato sul luogo dove ho svolto il mio atroce compito.
Questa volta ho portato via una scatola di cioccolatini.
La copertura degli uomini che ho ucciso, infatti, era che fossero operai in una fabbrica di dolciumi. In realtà erano produttori di banconote false su larga scala.
Creavano le banconote di tutta l’Europa e anche di qualche paese estero.
Mi alzo a fatica dal materasso scomodo; i muscoli delle gambe dolgono dopo la corsa di questa notte.
Tiro fuori della tasca dei pantaloncini una piccola scatoletta rossa, adornata da un fiocchetto rosa e da uno blu.
Non l’ho neanche aperta, ma percepisco l’odore del ripieno al liquore fino a qui.
Mi avvicino al cassone; sollevo il tappeto con cura, per non far sprigionare la polvere al suo interno, e lo ripongo sulla sedia a dondolo.
Senza troppa fatica, isso il coperchio del baule.
Osservo con mesta indifferenza gli oggetti riposti in esso.
Ci sono troppe cose.
Troppi simboli delle mie debolezze.
In un angolo luccica la piccola suppellettile a forma di cavallo che ho preso da casa Ahent. L’ho riparato come meglio ho potuto.
Alla memoria riaffiorano nuovamente ricordi insopportabilmente dolorosi.
Scaglio innervosita la scatola di cioccolatini nella cassa e la richiudo.
La mente piena di rimorsi.
Le mani tremanti al ricordo di tanta ed inaudita violenza.
Rimango pietrificata di fronte alla finestra chiusa.
Tra le stecche delle gelosie riesco a vedere Giulio e Maddalena giocare.
Sento le loro risa gioiose.
Hanno dieci anni. Proprio come me quando ho compiuto il mio primo omicidio.
Le lacrime iniziano a scorrere sul mio viso, contratto da una smorfia di profondo dolore.
In ogni libro, in ogni scatola, in ognuna delle cose contenute nel baule, risuona indistinta la mia voce che giura a me stessa
"Questa volta sarà l’ultima".
Quando volto le spalle all’edificio in cui ho deciso di stroncare le vite di persone innocenti, mi riprometto di scappare da quelle atrocità.
Obbligo la mia mente a credere che non ricadrò più negli stessi errori.
Ma poi ogni volta non è l’ultima.
Le grida di dolore non faranno da tappo ad un vaso d’infiniti pianti e d’altrettanti lutti.
E così ricomincio da capo. Un nuovo assassinio. Una nuova vittima. Un altro rimorso nel cuore.
Mi siedo sul bordo del letto e osservo la scrivania di fronte a me.
È vuota. Inutile. Non serve a niente, ma è lì, perché qualcuno prima di me ce l’ha messa.
E io sono come lei.
Sono come ogni effimero fiore che sboccia sul prato del giardino.
Qualcuno lo calpesterà e la sua vita cesserà di scorrere.
Io spero tanto che qualcuno mi calpesti.
Perché io voglio morire. Voglio porre fine alle mie spregevoli azioni.
Ma non ne sono in grado. Non ho la volontà necessaria a portarmi una pistola alla tempia e premere il grilletto.
Posso uccidere qualcuno che non conosco.
Posso osservare nei suoi occhi il riflesso della morte, ma non riesco a rendermi partecipe di tale sofferenza.
Chiudo gli occhi e mi asciugo le lacrime.
Il letto è situato accanto ad una parete scrostata e piena di crepe.
Appoggio la schiena al muro e osservo il soffitto.
Alcuni raggi di sole trapassano le travi e feriscono i miei occhi con la loro luminosità.
Intreccio le braccia dietro la testa e tiro un lungo sospiro.
Toc toc.
Qualcuno bussa alla mia porta, con una certa veemenza.
- Chi è?
- Sono io, devo parlarti.
Mi alzo dal letto e mi ricompongo i vestiti.
Il mio patrigno mi vuole vedere sempre in ordine. Davanti a lui non posso manifestare debolezze. Devo essere seria e attenta ad ogni sua parola.
- Vieni pure, papà.
Apre la porta e con stizza arriccia il naso.
- Cos’è questa puzza?!
Inizia a girare per la stanza. La suola dura delle sue eleganti scarpe nere scricchiola a contatto col parquet.
Indossa un raffinato completo bianco.
Fuma, come suo solito, un sigaro cubano e col fumo, impesta l’aria della stanza.
Sferra una gomitata alla sedia a dondolo e ci si siede sopra.
Temo che possa rompersi da un momento all’altro, considerata la stazza molto pesante dell’uomo.
- Dovresti aprire la finestra, ogni tanto, Simone!
Inspira una profonda boccata di nicotina e poi la espelle dalla sua bocca. Una nuvoletta grigia gli circonda la testa.
Io sono ancora in piedi, davanti alla porta.
- Non mi dare le spalle, signorina!
Mi giro velocemente. È meglio non infastidirlo, quando è già nervoso.
- Così va meglio...
Un’altra alitata di fumo invade la stanza.
- Beh...non mi racconti niente della tua nottata. Sono molto interessato...ti ascolto.
Non so cosa dirgli. La mia procedura è sempre la stessa, i dettagli cambiano, ma per lui sono insignificanti.
- Ho aspettato che si radunassero per imballare la merce contraffatta e poi ho sparato un colpo in testa ad ognuno si loro.
Dalla mia voce non trapela incertezza.
- Mm...bene. Sono soddisfatto, come al solito!
Una risata cupa e gutturale rimbalza sulle pareti e riecheggia in tutto il perimetro della camera.
- Bene...stasera dovrai andare a casa di Marletti e minacciarlo per bene.
Spalanco gli occhi.
- Stasera?!
Lui spegne il sigaro sulla scrivania e, con calma, incrocia le mani sulla camicia gialla.
- Sì, stasera. C’è qualche problema?
Le parole incespicano nella gola, prima di venire pronunciate.
- Oggi sarebbe il mio compleanno e stasera pensavo di fare qualcosa con...
La sua voce fredda e cupa interrompe la mia richiesta.
- Allora buon compleanno...
Si alza innervosito dalla piega che ha preso il discorso e si avvicina alla porta.
Stringe il pomello tra le mani e poi si volta verso di me, per un’ultima volta.
- Ma, stasera, la tua unica "festa" sarà a casa Marletti! Ci siamo capiti vero?!
Abbasso lo sguardo, infastidita dalla sua prepotenza.
- Si, certo.
- Bene...
Esce in fretta dalla stanza e io mi siedo dove poco fa era appollaiato il mio patrigno. Malvagio capo mafioso di una grande banda di criminali.
Spalanco la finestra per permettere al fumo di uscire e all’aria di risanarsi da quell’acre odore.
- Stasera...
Mi butto sul letto, ma non posso dormire con l’idea di essere in procinto di compiere una nuova minaccia.
- Cazzo!
Urlo a me stessa. A quella me stessa che vorrei uscisse dal mio cuore e prendesse il controllo del mio corpo.
Perché lei sarebbe capace di mettere fine a questa situazione. Saprebbe scappare e non essere inseguita. Ma io non sono in grado di liberarla.
 
La sera è arrivata in fretta e, prima che il sole tramonti all’orizzonte, devo prepararmi ed uscire.
Mi sfilo i pantaloncini e infilo un paio di jeans neri e stretti.
Mi tolgo anche la maglietta. Troppo colorata per la notte. Eccessivamente sbarazzina per una signora quale la luna. Indice fuori luogo di una spensieratezza inesistente.
Indosso un maglione grigio.
Le scarpe da ginnastica nere e poi mi lego i capelli in una coda.
Apro la porta e con lo sguardo saluto il mio alter ego che rimarrà in quella stanza.
Ad uscire sarò solo io. Solo la Simone malvagia. Vigliacca. Incapace di reagire.
Scendo correndo le scale.
Il salone è deserto, come anche il corridoio e il cortile.
"Sono andati al ristorante...!"
A questo pensiero, sento ammontare una rabbia incontenibile al mio interno.
Infilo le mani in tasca e, uscendo, osservo la facciata bianca della villa.
- Vaffanculo!!!
Urlo con quanto più fiato ho in gola.
Urlo perché vorrei essere anche io al ristorante.
Perché odio tutto ciò che quella casa rappresenta: una vita dedita a malvagità, un patrigno ingiusto, una bambina senza protezione dal mondo che la attende nel futuro.
Sprofondo le mani nei capelli e m’inginocchio davanti alla mia vita.
- Toglietemela! Toglietemi questa vita di merda! Fatemi scappare!
Invocazioni disperate di un’anima vuota. Di una ragazza vittima di scelte errate e predatrice di morti ingiuste.
- Basta!
Grida di una mente in balia del delirio.
Il silenzio avvolge ogni oggetto della campagna.
Mi assale e mi spaventa.
Mi rialzo con la gola dolorante e le lacrime intrappolate in occhi abituati alle ingiustizie.
Comincio a correre per raggiungere la città il prima possibile.
Non osservo il mondo che mi scorre affianco.
Non godo del fuoco che brucia il sole all’orizzonte.
Continuo a correre nella mia infausta direzione, senza rendermi conto di nulla.
Sono sconcertata da me stessa.
Disgustata da ogni mia cellula.
E vorrei piangere e urlare, ancora e per sempre. Per demolire le mie sensazioni, per ricominciare a provare delle emozioni concrete.
I miei piedi battono sul terreno irregolare e le mie gambe invocano una pausa. Ma la mia mente è impegnata in pensieri più importanti e più significativi.
E anche se i miei arti gemono di dolore, non li ascolterò.
Sono quasi arrivata alla periferia della città.
"Marletti abita vicino alla fabbrica, dovrei sbrigarmela in fretta".
Accelero il passo.
"Devo arrivare prima che posso, per finire subito".
Mi arresto dopo un’ora di corsa ininterrotta.
Sono arrivata. Adesso arriva la parte più difficile. Quella che richiede freddezza e razionalità.
Mi trovo di fronte ad una villetta di città.
I mattoni della casa tendono al rosso e il cancello che contorna il giardino è verde acceso.
Ci sono molti alberi.
Un bambino gioca in mezzo ai fiori colorati insieme ad un cagnolino di piccole dimensioni.
Non mi resta che aspettare che tutti stiano dormendo, poi potrò entrare in azione.
Mi nascondo dietro un angolo riparato dal buio delle ore serali.
Sento il bambino ridere e il cagnolino abbaiare Sono così felici. Adesso.
Quando dovranno trasferirsi, cambiare città perché loro padre è stato minacciato di morte, i loro sorrisi saranno oscurati dalla triste ombra della paura.
La porta d’entrata si apre con un leggero scricchiolio. Stringo la pistola al petto.
- Tesoro, la cena è pronta. Vieni che sennò si fredda!
"E’ solo la madre che lo richiama per la cena! Stupida!"
Mi accovaccio a terra, sull’asfalto freddo.
"Aspettiamo la notte".
 
Sono passate all’incirca sette ore. Sono le tre di notte. Il signor Marletti è rientrato tre ore fa.
È il momento che io agisca.
Mi alzo. La schiena dolorante dopo tante ore d’attesa.
Le strade sono deserte. I lampioni illuminano fiocamente le auto parcheggiate lungo i marciapiedi. Qualche gatto randagio passeggia intorno ai bidoni della spazzatura, alla ricerca di avanzi di cibo.
Mi apposto di fronte al cancello d’entrata.
Tendo nuovamente l’orecchio per accertarmi dell’assenza di movimento nella casa.
Scavalco agile l’inferriata, senza fare il minimo rumore.
L’ho fatto tantissime volte.
Arrivo di fronte alla porta d’entrata. È di legno, verniciato di un rosso cangiante. M’infonde quasi allegria.
Percorro il perimetro della casa, nella ricerca di eventuali finestre aperte.
Fa caldo. L’afa della sera li ha spinti ad un’imprudenza che gli costerà le serenità.
Ne individuo tre spalancate, per combattere l’arsura estiva.
Una della stanza dei genitori.
Una della cameretta del bambino.
L’ultima, la più piccola, del bagno. Entrerò da quella.
Inizio ad arrampicarmi per la grondaia di rame.
Mi sosterrà. Sono magra, forse troppo.
Raggiungo il buco da cui ho scelto di penetrare nella casa.
Scavalco il davanzale esterno e sono dentro.
Senza aver fatto il minimo rumore, sono riuscita ad infiltrarmi nell’abitazione di una persona che, per prima, avrebbe dovuto richiedere protezione da possibili minacce.
Ma non è affar mio la vita degli altri.
Non posso criticare le scelte di persone che non sospettano la mia presenza.
Esco dal bagno, prestando attenzione a non far cigolare i cardini arrugginiti della porta.
Non ho destato sospetti. Sono nel corridoio.
A passi svelti, ma accuratamente cauti, raggiungo la camera matrimoniale.
Ho studiato in precedenza la piantina della casa. Rubata al catasto cittadino da mio fratello.
Entro lentamente nella stanza e mi affianco alla mia vittima.
I battiti del mio cuore sono accelerati.
Il mio respiro, però, non è affannoso e non mi tradirà.
Devo obbligare quell’uomo ad uscire dalla propria casa e a seguirmi.
In seguito condurlo in casa mia perché sia torturato.
Questo è il mio compito: semplice e ben elaborato.
Estraggo la pistola dal maglione, ma, mentre sto per appoggiarla al petto dell’uomo per indurlo ad una muta collaborazione, il rumore di piccoli passi raggiunge le mie orecchie.
Impugno la pistola con entrambe le mani e mi volto svelta verso la porta.
Essa si apre sospinta da una piccola manina.
"No! Il bambino no!"
Ma non ho scelta. O lui o me.
Prego dentro di me che se ne vada. Che in un qualche modo intuisca che è pericoloso entrare e che torni nel suo lettino, nella stanza accanto.
"Non entrare...per favore!"
- Ehi, ma tu chi...
Non finisce la frase.
Premo il grilletto con le lacrime agli occhi.
Vedo il suo corpicino esile cadere esanime sulla moquette blu scuro.
Una macchia di sangue scuro la colora di vermiglio.
Sento lo stomaco in subbuglio. La mente pervasa da un senso di colpa indomabile.
Pochi secondi dopo lo sparo, la madre si alza svelta e impaurita.
Leggo la disperazione nei suoi occhi. Osservo la follia farsi largo nella mente. La spossatezza nel corpo.
Si getta a terra, le braccia tese verso il volto cereo del figlio.
- Davide!!!
Le lacrime scivolano svelte sul viso; il dolore traveste la sua voce in un lutto solitario.
Abbasso le braccia, punto la pistola al pavimento.
- Davide!!!
Urla all’orecchio del bambino.
Ma lui non risponderà più. Non avvolgerà il suo collo con le esili braccia e non la chiamerà più "mamma" durante le notti imperversate dagli incubi.
I suoi occhi non trasuderanno più gioia. E lei non sorriderà più. Perché non lo vedrà crescere con velocità sconcertante. Perché è stata privata della sua delizia più intima .
In un secondo ho spezzato la vita di un innocente amato e sconvolto quella della sua amante.
- Tu chi sei?!
La voce roca di un uomo mi sorprende alle spalle.
È rotta dal pianto, ma ancora sicura e razionale.
Mi giro in fretta.
Ho la visuale oscurata dalle lacrime di compassione e di rimpianto.
Marletti impugna una pistola.
Siamo io contro di lui.
La vittima contro la preda.
Per legge naturale, dovrei vincere io.
Ma lui è motivato dalla perdita di ciò che gli era più caro. Del più prezioso fra i tesori.
Un figlio.
- Hai ucciso il mio bambino!
Gli occhi infuocati dal desiderio della vendetta.
L’animo mosso dall’odio più profondo.
Vorrei affermare che mi dispiace, che non avevo calcolato la sua uccisione, ma cosa può la mia parola contro la sua disperazione?
Gli punto la pistola al petto.
Sparo un altro colpo. Secco e premeditato.
- No!!!
Le strilla disperate della donna mi invadono di pietà nei confronti di una madre, di una moglie straziata da due fugaci perdite.
Non aveva avuto la possibilità di baciare un’ultima volta suo figlio, di abbracciare suo marito.
- Perché?! Perché me li hai portati via?!
Strige il figlio al petto, seduta scomposta sul pavimento cremisi.
- Perché?!
Puro e spiazzante avvilimento.
M’inginocchio al suo fianco, per osservare la mia più giovane vittima.
- Non lo toccare!!!
Tira uno schiaffo alla mia mano, tesa per accarezzare quel delicato visino.
Mi alzo.
La pistola tra le mani.
Un ultimo colpo e anche la donna cade a terra, priva di vita e sollevata dalla sofferenza.
Infilo la pistola sotto il maglione.
Con uno sguardo sconsolato percorro osservo la carneficina che ho compiuto in una notte di splendida luna piena.
Osservo i lineamenti irrigiditi dalla paura dell’uomo.
Gli occhi spalancati ed inconsapevoli del bambino.
Le braccia tese per proteggere la purezza del figlio, della più sofferente tra le vittime: la donna.
 
Cammino lungo la strada dove abitava il signor Marletti con la sua famiglia.
Un bambino di circa cinque anni e una moglie amorevole.
Vivevano nella serena monotonia della loro vita. Ma erano felici e si aspettavano tutto dalla vita, tranne che una morte così prematura.
Sento il cane abbaiare nella villetta deserta.
Forse desidera coccole.
Magari vuole svegliare il padroncino per andare a giocare ancor un po’.
- Questa è veramente l’ultima volta.
Osservo la strada che mi precede.
All’orizzonte sorge un ennesimo sole.
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

word to html converter html help workshop This Web Page Created with PageBreeze Free Website Builder  chm editor perl editor ide

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Azione / Vai alla pagina dell'autore: miss dark