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Autore: Haruma    28/05/2014    7 recensioni
Sentì una specie di calore. Un qualcosa che lo stringeva forte, lo attanagliava al cuore, facendo quasi in modo che non battesse più. Ma, diversamente da come successe in passato, non era stato un campo di forza a farlo andare quasi all'altro mondo. Finalmente era tutto finito.
[Cosa ci può essere di più bello del ricevere inaspettatamente una buona notizia? || Post processo di Katniss || A tratti leggermente angst]
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dottor Aurelius, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tra pezzetti di pane galleggianti'
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Piccola premessa: Come al solito, consiglio di ascoltare una canzone o melodia che più vi piace. Che per voi rappresenti un momento speciale. Il più bello di tutti.



«Credo che sia arrivato il momento di andartene da qui, Mellark»

Stando semidisteso su un lettino rosso alquanto scomodo, Peeta continuava ad intrecciare alcuni dei fili di lana della sua sciarpa aspettando con pazienza  la domanda che di lì a poco gli sarebbe stata posta dal suo terapista.  
«Allora Peeta...» aveva esordito il dottor Aurelius, intento a stringere tra le mani un taccuino su cui stava scarabocchiando alcuni appunti con la sua immancabile penna stilografica nera. «Dimmi qual è stato, secondo te, il giorno più caldo passato nel Distretto 12».
No, non era riuscito a cogliere il significato di quella frase.
Poteva avere un senso parlare del giorno più afoso nel suo distretto mentre fuori da quell'immenso edificio si stava scatenando una tempesta d'acqua? Cosa c'entrava tutto quello con la sua terapia? Gli sembrava assurdo.
«Riesce a scrivere...» era intervenuto all'improvviso, «con quella penna?» gliela indicò. «Non le dà fastidio la punta così sottile?»
L'uomo si rigirò l'oggetto tra le mani guardandolo attentamente; «bella, vero? Ha un inestimabile valore per me» aveva risposto.
«Certamente, non lo metto in dubbio... ma non capisco come faccia a non macchiare il foglio» continuò Peeta insistendo.
«Sai figliolo, anni e anni di analisi servono a qualcosa» gli sorrise sghembo.
Il ragazzo si sollevò mettendosi seduto, «ma dovrebbe essere da collezione» sottolineò sarcastico. L'ironia non gli era mai mancata e, fortunatamente, con il dottor Aurelius riusciva ad essere completamente se stesso, ad aprirsi, a non nascondere nessun tipo di pensiero.
«Hai ragione» sospirò affranto; non era in grado di tenere le sue cose ben conservate nei cofanetti. «Ti rendi conto di non aver ancora risposto alla mia domanda?» cercò di sviare il discorso.
Quel giovane era una persona talmente persuasiva che a volte, lui stesso -uno dei più bravi dottori in circolazione- stentava a credere come fosse ancora lì, nel proprio studio, a sostenere tesi, invece che a dargli subito ragione.
«Sì» affermò convinto. «Il fatto è che non vedo il perché mi abbia chiesto una cosa del genere» esaminò la sua espressione.
«Innanzitutto, per piacere, smettila di giocare con la sciarpa. Sembri un pazzo» rise incrociando le gambe.
«Lo sono già, non crede?» gli sorrise abbassando appena lo sguardo.
Non si sentiva malinconico o abbattuto, era consapevole della sua -per nulla semplice- situazione mentale.   
«No». Peeta fu sorpreso da quella dichiarazione improvvisa. «E non lo eri nemmeno quando ti hanno portato al Distretto 13. Ti hanno depistato; era il veleno che ti faceva agire in un determinato modo» concluse.
«Ma sono comunque un ibrido di Capitol City e francamente, se non avessi problemi, a quest'ora non sarei qui a farmi analizzare da lei».
«Ragazzo, tutti abbiamo problemi. Tu sei stato solo molto più sfortunato degli altri. Ma hai una volontà che ho visto in pochi dei miei pazienti e non solo...» affermò l'uomo guardandolo fisso.
Possibile che non avesse ancora compreso di stare per ritornare -a poco a poco- quello di un tempo? Eppure era un tipo sveglio!
«Ora è lei il pazzo» sghignazzò improvvisamente Peeta non potendosi trattenere dal ridere. Di tutta risposta, il dottor Aurelius sgranò gli occhi e cominciò ad osservarlo con fare interrogativo. «Sta disegnando da circa mezz'ora degli strambi ghirigori su quel taccuino, e non se n'è reso nemmeno conto. È così che mi analizza per caso?» gli sorrise sghembo.  
«Mellark, molte volte mi chiedo se sei tu il mio terapista o il contrario» mise il tappo alla penna e la poggiò delicatamente sulla scrivania di fianco.
«Non è che mi interessi così tanto intraprendere la sua professione» sbuffò divertito.
«Bene! Posso stare tranquillo allora» incrociò le braccia al petto rallegrato.
Peeta cominciò a guardare in un punto imprecisato del parquet ormai rovinato dal tempo.
«Non doveva cambiare arredamento, tempo fa?» sussurrò muovendo lentamente le gambe che penzolavano dal lettino.
«Ehi. Stai di nuovo cambiando discorso» lo ammonì alzando distrattamente lo sguardo dai fogli ingialliti.
«Ma... non è logico, dottore!» alzò appena il tono, esasperato da quell'insolita richiesta. Andava bene parlare di qualunque cosa, a patto che facesse parte della terapia.
Stare con quell'Aurelius lo aveva fatto diventare un tantino ansioso.
«Non» cominciò l'uomo aggiustandosi il colletto della camicia «voglio sentire repliche. Parlamene Peeta».
Il ragazzo si osservò le dita cominciando a contorcerle.
Seguì con gli occhi la profonda cicatrice che gli rigava il dorso della mano sinistra vedendola scomparire sotto la manica del maglione blu scuro. In realtà sapeva benissimo quanto fosse lungo quel solco. Girò i polsi e osservò i segni delle manette ancora ben impressi sulla pelle.
Una giornata calda nel Distretto 12.
In realtà, dove viveva, le temperature non erano mai state tanto rigide oppure tanto afose. Gli passò per la testa di raccontare della Mietitura ma effettivamente non pensava davvero fosse quello uno dei giorni più caldi... e non voleva ripensarci.
«Stavo ritornando da scuola; avevo circa tredici anni. Come al solito avevo cercato di nascondermi e di non farmi vedere da Katniss; lei era diretta al Giacimento mentre io sarei dovuto andare a casa mia ad aiutare in panetteria» fece una pausa per riordinare le idee. «Faceva talmente caldo che, se si alzava lo sguardo, si poteva benissimo notare ondeggiare l'aria. Non so... ha presente quando ci si trova nel deserto e tutto tremola per l'afa?» domandò infine al dottore che annuì. «In questo modo».
«Continua» lo esortò l'uomo che intanto gli sorrideva.
«Be'... non le dico quando sono tornato a casa... Può solo immaginare quanto caldo faccia in un forno anche in inverno, pensi verso la fine della primavera; è stato quello il giorno più caldo del mio distretto».
Il dottor Aurelius, nel frattempo, aveva iniziato a camminare per lo studio, avanti e indietro. Avanti e indietro. Come uno psicopatico.
«Ha mai pensato di fare qualche seduta anche lei, dottore?» ironizzò Peeta tirando la testa all'indietro e prendendo aria.
«Ci sei tu ad analizzarmi, no?» si girò nella direzione del ragazzo strizzando un occhio compiaciuto.
«Vorrei sapere il perché» dichiarò mettendosi all'in piedi.
«Il perché di cosa?» domandò Aurelius intento ad aggiustare le tendine della finestra.
«Lo sa».
«Era una semplice curiosità» asserì.
Peeta si ritrovò spaesato. Al centro di una stanza che girava vorticosamente; troppo per i suoi gusti. «Quindi non faceva parte della terapia?» deglutì rumorosamente.
Si stava scaldando e non andava bene.
«No, faceva anche parte della terapia» gli sorrise.
«Ma ha detto "semplice curiosità"» disse esasperato. «Perché non la capisco quasi mai?» si passò una mano tra i capelli biondi.
«Magari un giorno mi verrà in mente di venirvi a trovare... chi lo sa... dovrò preparare i bagagli con degli abiti leggeri» dichiarò con una nota di ovvietà nella voce. «Ma non sperare che io mi faccia vivo in estate. Amo il freddo e sto bene qui».
«Che vuol...?» fece per iniziare ma le parole gli si fermarono subito in gola.
Mi verrà in mente di venirvi a trovare... 
Tutto iniziò a farsi più chiaro, più limpido nella sua mente. Sentì una specie di calore. Un qualcosa che lo stringeva forte, lo attanagliava al cuore, facendo quasi in modo che non battesse più. Ma, diversamente da come successe in passato, non era stato un campo di forza a farlo andare quasi all'altro mondo. Finalmente era tutto finito. Lo stare lì, a parlare per ore delle proprie paure, di quello che vedeva durante gli episodi, di come combatterli...
«Katniss...» mormorò abbandonandosi sul lettino.
Stava ridendo come un matto. Una risata di quelle liberatorie, nervose. Di quelle che non potevano essere controllate. Lasciò che alcune lacrime involontarie gli bagnassero le guance.
Si accorse dopo un po' di star piangendo disperatamente e di star ridendo altrettanto ostinatamente. Non riusciva più a controllarsi.
Dei lamenti alternati a singhiozzi si levarono per lo studio.
«Credo che sia arrivato il momento di andartene da qui, Mellark» Aurelius gli andò vicino guardandolo dall'alto: cercava di asciugarsi gli occhi e tirare su col naso. Sembrava un bambino.
Per la prima volta provò un senso di affetto nei confronti di quel ragazzo. Averlo in cura, gli aveva quasi cambiato la vita. Non lo considerava più un semplice paziente.  
«E penso che tu meriti delle ferie... sinceramente sono stanco anche io di farmi psicanalizzare da te» ridacchiò flebilmente. «Abbiamo finito entrambi, Peeta» gli sorrise gentilmente.
«È sicuro...» si mise composto tirando su col naso; «e se non riuscirò a fermarmi, se farò del male alle persone a cui voglio bene?» chiese quasi terrorizzato.
Ritornare a casa... rivederla, aveva un prezzo.
«Ragazzo, no!» negò con la testa ragionando. «Non devi vivere con questa paura. Non potresti mai andare avanti, non potresti mai essere felice se pensi a queste cose» gli poggiò una mano sulla spalla. «I flashback... hai detto che sono meno frequenti, che sai controllarli, giusto? Che sai distinguere il vero dal falso...», Peeta annuì attendendo con una sorta di agitazione gli ultimi consigli. «E allora calmo! Saprai quello che dovrai fare in quel momento, quando succederà l'inevitabile. Tu sei forte, puoi superare qualunque cosa».
 Non trovava le parole. Si ritrovò a non sapere come rispondere, troppo preso dalla gioia, dalla sensazione di libertà mista a timore.
«Grazie» gli disse abbracciandolo forte. Quasi poteva sentire la stessa stretta che gli riservava suo padre.
Il dottor Aurelius lo aveva aiutato quasi come nessun altro aveva fatto. Gli doveva molto, come doveva molto a tante altre persone, alcune delle quali erano morte a causa della guerra.
Casa. Katniss. Paura. Felicità. Vita. Quelle parole sembravano tanti titoli di coda che sfrecciavano alla velocità della luce davanti agli occhi.

«Quando potrò partire?» domandò quando si trovò all'uscio della porta.
«Appena inizia la primavera. Tra un mese» gli comunicò l'uomo sorridente più che mai.
«La ringrazio per la fiducia, dottor Aurelius» lo guardò riconoscente per poi avviarsi fuori.
«Ci vediamo tra qualche giorno e poi abbiamo concluso definitivamente» gli diede una pacca sulla spalla. «E mi raccomando... di' alla signorina Everdeen di telefonare ogni tanto. Non risponde mai al telefono».
«Lo farò» salutò con la mano per poi sparire dietro alle porte dell'ascensore.
Katniss.
Anche se era stato depistato, non aveva mai dimenticato i propri sentimenti nei confronti di quella ragazza. Per un periodo erano stati offuscati dal veleno.
Sperava davvero che non le fosse successo niente, anche se capiva il suo grandissimo dolore. Ma Katniss doveva vivere. Per lui, per Prim.
Quell'ultimo nome gli ricordò qualcosa.
Le primule.
Quando sarebbe tornato a casa, sapeva già cosa avrebbe fatto per prima cosa.





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Ciao a tutti! Questa è la seconda one shot che pubblico.
Scrivere di Peeta è una cosa che mi piace molto fare.
Inutile dire che è -in assoluto- il mio personaggio preferito. C'è qualcosa nel suo carattere, nel suo modo di comportarsi, che mi ha attirata immediatamente. L'ho ritenuto -fin da subito- tanto semplice quanto complicato. Impegnativo.
Naturalmente, la cara e buona Collins si è divertita a rendere anche la sua vita un inferno. (Non smetterò mai di ripetere quanto quella donna sia sadica).
Che dire... questa storia autoconclusiva si è scritta da sola.
Ieri, mentre ero a contemplare come un'idiota la pagina bianca di WordPad, ho cominciato a digitare parole che mano mano hanno acquisito un senso compiuto (o almeno credo e.e).
Sinceramente non avevo idea di cosa raccontare. È stata molto improvvisata la cosa; e talmente liberatoria che non potete immaginare!
Come al solito, spero che la mia piccola idea vi sia piaciuta. Mi auguro di aver rispettato l'IC, di non aver fatto errori e di aver svolto un buon lavoro,
e -chiaramente- di ricevere almeno qualche commento. 
Alla prossima ♥
   
 
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