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Autore: imperfectjosie    28/05/2014    0 recensioni
« Cosa hai intenzione di fare? » chiese retorica, con una punta di angoscia nella voce.
Ma lui non si girò neppure una sola volta. Neppure per sbaglio. Avanzava a passo spedito verso l'entrata, agguantando una giacca a caso e posando la mano tremante sul pomello dorato.
« Vado a prenderlo a pugni. » sentenziò sicuro, carico di odio.
Odio, perché quell'idiota aveva deciso di ammazzarsi. E di farlo a sua insaputa.
Voleva morire? Lo avrebbe ucciso lui stesso.

|Mark/Tom|
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Mark Hoppus, Tom DeLonge
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: blink-182 
Pairing: Mark/Tom
Rating: Giallo (per l'argomento che tratta e il linguaggio)
Note: Dopo la rottura dei blink, qualcosa si è spezzato anche in Tom. In aperta crisi d'astinenza da eroina, dovrà fare i conti con il fantasma del suo passato.
Molto angst.


 

Cold turkey - A bit like love and heroin


 
 

A Mark, di solito, le persone non davano fastidio.
Parlava, regalava autografi, rideva alle quattordicenni che con sguardo sognante lo fissavano come fosse un Dio. Insomma, tutto sommato la cosa non lo disturbava più di tanto. Il problema principale del suo stato d'animo, consisteva nel fatto che quel giorno era il 12 dicembre. Di ritorno dal centro commerciale, carico di borse della spesa e altrettanto stress accumulato, si accasciò pesantemente sul divano in pelle nera della sua Villa residenziale. L'orologio spaccava la mezzanotte. Si era concesso un po' di riposo personale, dopo le commissioni, qualche giro per negozi, un caffè bollente da Starbucks, sigarette fumate su una panchina del parco, lontano da sguardi indiscreti. Gli piaceva la quiete. Quando fu abbastanza soddisfatto, rientrò in macchina, diretto a casa. Certo non aveva badato all'orario, si sorprese un po' a realizzare che era effettivamente tardi. Troppo tardi. E poi, la mente di Mark elaborò velocemente una semplice equazione. Se, il giorno appena trascorso, era il 12 – e gli enormi pacchi di regali per Natale con cui aveva invaso il soggiorno, non avevano nulla da obiettare in merito – significava di riflesso che quel dannato orologio a pendolo stava spaccando la prima ora del 13. E 13 dicembre, per Mark, non significava festa pre-Natale, quanto più compleanno Thomas DeLonge.
Voleva chiamarlo, ci aveva riflettuto parecchio, sentiva per qualche strana ragione di doverlo fare almeno quell'anno. I blink ormai erano finiti in merda. Non aveva notizie del suo ex migliore amico da allora. Passati tre anni, aveva chiesto a Travis un periodo di pausa per il tour dei Plus. Aveva sinceramente bisogno di riposo. Un bisogno spasmodico di non rituffare la mente in quei ricordi che tanto lo tormentavano quando si azzardava a dare spazio ai propri pensieri. E detestava sentirsi in quel modo. Odiava la debolezza, odiava che fosse lui ad arrecargliela. Steso sul divano, con un braccio stanco appollaiato sulla fronte, Mark fissava il cordless in silenzio e con sguardo critico. Si era perfino dimenticato che Tom aveva cambiato numero, tre anni addietro. In un moto di rabbia, lanciò l'apparecchio contro il muro bianco, mancando per un pelo l'enorme vetrata della veranda e imprecando tra i denti. Il telefono giaceva sul pavimento, aperto in mille pezzi. Ironico come quella scena somigliasse a ciò che il bassista portava nel cuore. Si sentiva inutile, Tom aveva deciso per tutti e lui sentiva di non poter fare nulla. Semplicemente doveva farsi andare bene la sua nuova vita, con o senza la sua presenza. Era sicuro che sarebbe stato il fratello di una vita, quando erano appena ventenni, sembrava quasi poter leggere nel futuro. Amava Tom. Lo amava con talmente tanta purezza, da riuscire a lasciare qualche alone opaco sulla figura di Skye. Si malediva per questo. Eppure non era desiderio carnale, c'era qualcosa di più forte, più profondo... non avrebbe mai saputo dire con certezza quale fosse il reale sentimento che nutriva nei confronti di quella testa di cazzo egocentrica. Sapeva solo che con gli anni si era intensificato. Diventando quasi ingestibile. Aveva ancora le mani tra i capelli e lo sguardo perso nel vuoto, quando la porta di casa crepitò, rivelando il volto rosso e agitato di sua moglie. Non vide Jack insieme a lei, e questo lo preoccupò. Di solito, lasciava loro figlio dalla madre quando stava succedendo qualcosa di grave. O qualcosa di importante. In ogni caso Mark percepiva nell'aria odore di tempesta. Lo guardava ad occhi spalancati, teneva tra le mani il cellulare, stringendolo spasmodicamente. Così forte, da farsi venire le nocche bianche. Mark strinse le labbra quasi senza volerlo. Ansimava.
« Mi ha chiamata Jen. »
Quasi lo urlò. E al bassista diede vagamente fastidio. Arricciò il naso con noncuranza.
« Quindi? Non è la prima volta che lo fa » le fece notare, con una punta di ironia malcelata.
La vide abbassare la testa, le labbra le tremavano, le mani strette a pugno.
« Si tratta di Tom, Mark. Vuoi farmi credere ancora che non te ne frega un cazzo, o posso continuare? »
Al suono di quel nome, le orecchie gli si drizzarono quasi immediatamente. La guardò sorpreso per un po', poi sollevò una mano facendole intendere che la cosa non lo toccava minimamente. Ma lei conosceva suo marito, lo conosceva bene. Pestò i piedi sul pavimento per attirare la sua attenzione, quando lo vide voltarsi di schiena diretto in chissà quale stanza deserta dell'abitazione.
« E' in crisi d'astinenza. »
Si irrigidì appena, mostrandole un profilo calmo e pacato.
Conosceva Tom, sapeva dei suoi abusi alcolici, e il fatto che ci fosse finito del tutto in quel tunnel di degrado non lo stupiva più di tanto. Sospirò stanco. Aveva sopportato tutta la merda di quel coglione per anni. Adesso, anche se non si faceva sentire, se lo aveva abbandonato, il tanfo dei suoi problemi continuava ad impestargli i polmoni. Lo odiava.
« Sapevamo tutti che prima o poi sarebbe successo, Skye! Cosa dovrei fare? E' stato lui a volersene andare, ad abbandonarci. Ad abbandonarmi. »
E si curò di calcare con frustrazione l'ultima parola.
La vide stringere gli occhi in due fessure cariche di preoccupazione e ansia.
« Da eroina. » terminò, mesta. Le pozze limpide invase da lacrime prossime a spezzare il silenzio assordante che si era creato.
Gli occhi azzurri di Mark si chiusero per un istante. La schiena tremava, il cuore a mille. Poi non resse il colpo e si accasciò sul divano, tenendosi la testa tra le mani e singhiozzando.
Skye, che era abituata ai crolli nervosi del marito, gli si avvicinò, sedendosi accanto a lui con leggerezza e dedizione.
Tom l'aveva sempre superata, sempre. E non importava quanto impegno ci mettesse, l'anima di Mark era pienamente occupata da quel nome singolare e fastidioso.
« E' uno scherzo? Dimmi che è uno scherzo, Skye. Ti prego »
La supplicava, guardandola dritta negli occhi. Ma l'espressione impassibile di lei, lo incitò a levarsi in piedi con rabbia e agguantare le chiavi del suv dal tavolino in cristallo. Si alzò allarmata.
« Cosa hai intenzione di fare? » chiese retorica, con una punta di angoscia nella voce.
Ma lui non si girò neppure una sola volta. Neppure per sbaglio. Avanzava a passo spedito verso l'entrata, agguantando una giacca a caso e posando la mano tremante sul pomello dorato.
« Vado a prenderlo a pugni. » sentenziò sicuro, carico di odio.
Odio, perché quell'idiota aveva deciso di ammazzarsi. E di farlo a sua insaputa.
Voleva morire? Lo avrebbe ucciso lui stesso.
« Mark, aspetta un attimo, non-- » tentò, levando il braccio nella direzione della figura che era già scomparsa oltre l'uscio.
Sospirò di amarezza.
Quando si trattava di Tom DeLonge, il cervello non percepiva nulla di ciò che aveva intorno.
Si sedette sul divano nero, posando una mano sulla guancia preoccupata. Jen le aveva promesso di richiamare, non appena il marito si fosse ripreso dallo stato comatoso in cui si trovava. Così, aspettava speranzosa. Non poteva finire in quel modo. Thomas DeLonge non poteva finire in quel modo.

 

Guidò per svariate mezzore, con le mani strette intorno al volante.
Gli facevano male i palmi. Gli occhi azzurri puntati sulla strada, ogni tanto si velavano di dolore e angoscia.
« Tom? Mi senti? Se provi a lasciarci le penne, ti faccio a pezzi. »
Ma la voce venne abilmente assorbita dagli interni della sua auto. Sospirò, schiacciando il piede sul pedale con irruenza.
Il suv filava liscio per le strade di San Diego, fregandosene di qualsiasi semaforo o precedenza incrociasse sul suo cammino. Mark andava, continuava ad andare, con un solo pensiero in testa. Quello di riuscire a fare in tempo. Di raccoglierlo e scuoterlo con forza, domandando a Jen di andare a stare con sua moglie, almeno per un po'. Avrebbe pensato lui allo stronzo, lo avrebbe curato, tirando su dal pavimento ogni pezzo d'anima e vomito.
Con questi pensieri saldi nella mente, imboccò il vialetto di Villa DeLonge. Tirò il freno a mano con rabbia, spalancando la portiera senza curarsi neppure di richiuderla per la fretta, e battendo con violenza il pugno sul legno scuro della porta d'ingresso. Battè forte, molleggiando sulle gambe con urgenza. Non lo vedeva da anni. Non sentiva la sua voce insolente e terribilmente acuta da troppo tempo. Gli mancava. Dio, quanto gli mancava. Si strinse nelle braccia per cercare di darsi calore e aspettò che la figura esile di Jennifer gli aprisse.
Quasi chiamandola, la porta si spalancò, rivelando il volto provato e in lacrime della signora DeLonge. Non riuscì a trattenersi alla vista del bassista, e quando i suoi occhi chiari scivolarono lungo tutta la figura che avevano di fronte, si fiondò tra le sue braccia, singhiozzando convulsamente. Mark strinse le labbra nervoso.
« M-Mark, oddio, M-Mark! » ripetè, come se fosse lui la soluzione a tutti i problemi del marito.
« Stai calma, Jen. Dov'è? Portami da lui. » soffiò gentile, senza trattenere una cadenza di rabbia.
Le accarezzò la schiena, aspettando che lo prendesse per mano e facendolo entrare in casa.
UFO. UFO ovunque. 
Negli stampi dei cuscini per gli ospiti, sui muri dipinti di bianco, tra i libri dell'enorme libreria in ciliegio. Quel soggiorno gridava Tom da ogni angolazione. Sorrise malinconico, reprimendo forte la voglia di piangere.
Lo stava perdendo. Stava per farsi scivolare dalle mani suo fratello. Per cosa, poi? Per la musica? Per le scelte di vita diverse? Per orgoglio? Si sentiva tremendamente stupido. Non sapeva ancora come avrebbe affrontato la situazione, ma di certo a costo di rimetterci la reputazione e il prossimo tour Europeo, lo avrebbe trascinato fuori da quel tunnel per i capelli.
Le scale del piano di sopra scricchiolavano ad ogni passo di Jen, intensificando il rumore quando anche lui superava la stessa superficie. Era bella quella casa. Accogliente, spaziosa, quasi futuristica. Così familiare... così da lui. Si impose di non frignare come una ragazzina. La donna si bloccò di fronte ad una porta socchiusa, cercando i suoi occhi e implorando aiuto con tutto il fiato silenzioso che aveva in corpo. Le accarezzò un braccio, posando il palmo della mano destra sul legno liscio e spingendolo appena per spiare all'interno.
La loro camera da letto.
Soffocò un moto di gelosia ingiustificata, dandosi del coglione subito dopo.
Scivolò cauto nella stanza, osservandosi intorno. Quel posto odorava come la sua pelle. Il suo profumo gli inondò i polmoni, rilassandolo appena. Ma la pace durò poco. Il tempo di riuscire ad intravedere una figura rannicchiata in posizione fetale ai margini del letto. Sudata, tremante e pietosa. I buoni propositi di Mark andati in frantumi. L'idea di fargli del male, almeno la metà di quanto gliene avesse fatto lui, la voglia di prenderlo a pugni... tutto scemato di fronte al corpo provato e ai gemiti di dolore di quel fantasma che un tempo era stato suo fratello. Mark inghiottì un groppo con fatica, avvicinandosi piano.
Era abbastanza vicino, da sentire quella dannata voce soffiare ironica, con gli occhi ancora rivolti al pavimento.
« Hai chiamato la cavalleria! »
Jen si strinse nelle spalle, imbarazzata per la telefonata ansiosa che aveva fatto a Skye.
Onestamente, non credeva neppure lei che Mark sarebbe arrivato. Sperava più nell'aiuto della sua vecchia amica, ignorando per un attimo di chi fosse moglie.
Il cuore di Mark fece una capriola. Un braccio tatuato si spostava spasmodico avanti e indietro, il respiro affannato, sudore e spasmi muscolari, le labbra spaccate, gli occhi infossati e quel dannato ciuffo ribelle bagnato di disperazione.
Non sapeva dire con certezza da quanto tempo si facesse, né con che dosi, ma era certo che quella crisi di astinenza stava minacciando di ucciderlo. Gli prese con forza il volto con entrambe le mani, costringendolo a sollevare la testa per incontrare due occhi nocciola vuoti e colmi di dolore. Mark trattenne il respiro per un attimo.
« Tom » soffiò. Parlava più con se stesso.
Il nome del fratello perso gli era uscito involontariamente.
Voleva piangere, voleva stringerlo, poi strozzarlo, poi abbracciarlo con forza. Rimanere su quel letto sfatto a mangiare pizza, guardando schifosi documentari sugli alieni, invaso da una noia mortale, come facevano in un tempo lontano e decisamente più felice. Voleva strapparlo da lì, riportarlo a vivere.
E Mark Hoppus finalmente pianse.
Senza emettere un suono, ma cacciò fuori ogni lacrima, inondandogli la mano che, priva di forze, si era stretta intorno al suo polso.
« Ciao, Mark » rispose dopo un po', serrando la mascella per l'enorme sforzo.
Tremava, tremava come un pulcino.
Il maggiore voleva solo fermare il mondo per un attimo, giusto il tempo di realizzare quanto effettivamente gli era mancato. Posò lieve la sua fronte su quella incredibilmente sudata di Tom, sospirando.
« Che cazzo hai fatto? »
Lo sentì sorridere stanco.
« S-Suppongo di d-dover am-m-ettere che m-mi mancavi » si sforzò di terminare la frase senza battere i denti, ma non gli riuscì troppo bene,
Jen, in mezzo alla stanza, osservava la scena piangendo, con le mani giunte sulle labbra.
« Vado a prendere qualcosa di caldo, torno subito! » sentenziò, ma si accorse immediatamente che nessuno nella stanza stava davvero ascoltando. Sospirò rassegnata, girando su i tacchi e abbandonando la camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Lasciare Ava e Jonas dai nonni non era stata una brutta idea. Tom aveva deciso di smettere, voleva ripulirsi, e lei sapeva che questo avrebbe comportato dei rischi. Non avrebbe mai permesso ai suoi figli di vedere il padre ridotto in quel modo. Facendo leva sulla parola “vacanza” li aveva convinti a lasciare la casa per due o tre mesi, mentendo non solo ai figli, ma anche a sua madre. Impegni di lavoro, aveva detto. Bugiarda.
« Eroina, Tom? Davvero? Ma che cazzo ti dice il cervello? » domandò, retorico.
Il tono duro, uscì tuttavia macchiato di angoscia e preoccupazione. Il ghigno del minore non voleva saperne di abbandonarlo. Sorrideva sghembo, spostandosi un pelo per sciogliersi da quella posizione e tornare supino, digrignando i denti per il dolore alla schiena e ai muscoli.
« Cosa ci fai qui? »
Mark si rese conto dei deliri che stavano invadendo la mente di Tom e non rispose, lo lasciò sfogare, osservandolo. Mentre guardava la figura imponente dell'uomo che era diventato agitarsi a destra e sinistra cercando sollievo, le iridi di Mark proiettavano un'immagine del tutto diversa. Di un Tom più giovane, allegro, steso sul letto in preda alle risa. Si teneva la pancia, sollevando i piedi senza smettere di sganasciarsi. La mano del chitarrista lo riportò alla crudele realtà. Lo teneva per il polso, stringendo spasmodicamente la presa come meglio gli riusciva.
Piangeva. Tom DeLonge stava piangendo.
Mark si sentì morire.
« M-Mi dispiace M-Mark i-io sono un disastro, volevo s-solo riuscire a suonare s-senza pensarti, s-solo un po'... s-solo-- »
« Shhh, cerca di calmarti, cazzone. » lo troncò, sforzando un'ironia che proprio in quel momento non aveva e regalandogli un mezzo sorriso, senza smettere di stringergli la mano.
Tom lo guardava in silenzio, deglutendo a fatica.
« M-Mark, io ti amo. » continuò, buttando su quella frase copiose quantità di acqua e sale.
Al suono di quelle parole, si morse un labbro così forte da spaccarlo. Buttato in ginocchiò, al capezzale del migliore amico, Mark Hoppus pianse. Strusciando gli occhi sul lenzuolo sporco di sudore, versò ogni secchiata di paura, di mancanza e solitudine che per gli ultimi tre anni lo avevano invaso.
« S-Stupida testa di cazzo che non sei altro! Cerca di non morire, Tom. Mi hai capito? »
Alzò la voce, catturando lo sguardo nocciola con l'azzurro bagnato dei suoi occhi. Deciso e ansioso di ricevere una risposta.
« Te lo giuro, ti vengo a prendere all'Inferno per ammazzarti di nuovo. Tu provaci! T-Tu prova anche solo a l-lasciarmi, e io--- io ti--- »
Non riusciva a terminare la frase. Troppi spasmi, troppo dolore, troppe lacrime.
Tom lo osservava in silenzio, senza smettere di abbozzare un leggero sorriso nella sua direzione. Quelle labbra egoiste e irriverenti. Così invitanti, adesso ridotte ad un cumulo di crepe e disidratazione.
« A bit like love, and heroin » intonò ironico, smuovendo l'animo del maggiore ulteriormente.
« Non dirlo neanche per scherzo! » ribattè quest'ultimo a tono, drizzando la schiena come se il letto scottasse.
E un leggero sghignazzare riempì la stanza.
Quel sorriso mezzo storto, così sfacciato e meravigliosamente attraente. Si incantò a guardarlo per un po', sotto lo sguardo divertito del suo possessore.
« Mi consumi così, Hoppus. »
La voce sarcastica di Tom lo riportò in quella camera.
« Coglione. » lo apostrofò acido.
All'ennesimo spasmo muscolare, Mark lo raggiunse abbandonandosi del tutto in quel letto. Se lo trascinò addosso, sollevandogli il mento lentamente e posando su quelle labbra secche un leggero bacio, preludio di ciò che sarebbe stato una volta superato tutto il dolore. Insieme, lo avrebbero fatto insieme.
Una piccola scintilla di consapevolezza illuminò l'iride nocciola di Tom, velandola di malizia e perversione. Mark tremò.
« Tom? E' la tua erezione a sfondarmi la coscia? » chiese, cercando di smorzare la tensione.
« Si prepara in vista di dover sfondare altro, tesorino » fu il commento serafico del chitarrista.
Non sarebbe mai cambiato. Questa consapevolezza gli regalò un'ondata di calore nei dintorni del cuore.
« Se ti becco con una siringa, ti ammazzo, Thomas. Capisci quello che sto dicendo? »
Il tono non ammetteva repliche. Non era scanzonato come se lo ricordava, Tom si strinse maggiormente al suo petto, tremando non solo per la crisi, ma anche per l'eccitazione. Conosceva suo fratello abbastanza bene da leggere tra le righe di quella frase.
Se Mark lo aveva minacciato, significava che sarebbe rimasto lì per controllarlo. E poi, che ci sarebbe rimasto per non andarsene mai più.
« Mi dispiace per quello che-- » cominciò, titubante.
Non che ci fossero scuse plausibili per come aveva trattato lui e Travis. Per come aveva strappato il nome blink-182 senza pensarci due volte. Li aveva abbandonati, pensando solo a se stesso.
Un anno dopo, si era ritrovato nella merda fino al collo. Niente più sorrisi aperti e scherzi perversi, niente più capelli sparati in aria, bassi rosa, burritos e chiacchiere notturne. Niente più Mark Hoppus. Per Tom fu troppo da sopportare.
All'improvviso quella polverina bianca gli era sembrata così invitante, da non riuscire più a farne a meno.
Aveva tirato troppo la corda e guardando i suoi figli, si era ripromesso di ripulirsi. Non aveva messo in conto tutto ciò che ne sarebbe derivato. Il dolore, gli spasmi, i tremori, la voglia inconscia di farla finita lì e subito. Poi era arrivato Mark.
« Non importa. » lo bloccò immediatamente. « Ci sarà tempo per pensare al futuro dei blink, adesso cerca di vivere. Tom? » lo chiamò, spostandosi appena per riuscire a guardarlo in faccia.
Era bello. Dannatamente bello.
« Mhm? »
« Resta qui con me. »
Una frase carica di angoscia.
« Non ho bisogno dell'eroina, se tu sei qui, Mark. » rispose calmo.
Aveva intuito la paura del compagno. Che potesse ricascarci, finendo male quando lui non lo controllava. Mark aveva il terrore di perderlo.
« Cazzone. » fu il commento ironico del maggiore.
La parola tradiva il vero significato di quell'insulto. Tom percepì con gioia come la presa del bassista si era intensificata, ascoltando con le orecchie il suono ipnotico di quel cuore che lui stesso aveva spezzato anni addietro. Ma aveva intenzione di raccoglierlo, sistemando con cura ogni pezzo perché tornasse al proprio posto.
Per Tom sarebbe stato un puzzle necessario.
Ancorò le dita tra le pieghe della T-shirt di Mark, stringendo come meglio potè.
« Puzzi. » lo stuzzicò di risposta, osservandolo con la coda dell'occhio.
Non aveva mai ceduto ad un solo insulto da quando lo conosceva. Mai.
E Mark rise di gusto, levando la testa all'indietro. Un piccolo sorriso sarcastico si affacciò sulle labbra del chitarrista.
Tra le crepe di dolore che lo avevano invaso, c'era già qualcuno pronto a risanare ogni vuoto.



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