Questa storia è basata su una canzone che io amo particolarmente e credo vada letta con questo piccolo capolavoro in sottofondo, per questo lascio il link.
http://it.youtube.com/watch?v=uTkqZsn8WHw
Si tratta di “La panchina” di Peppino Di Capri e la adoro perché è di una delicatezza incalcolabile ed è una specie di metafora della vita. Spero con le mie povere parole di renderle giustizia.
Temperance
Balla come se nessuno ti guardasse
Canta come se nessuno ti ascoltasse
Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo
Storia dedicata a chi, come me,
ha fatto di queste parole il suo stile di vita
Solo su una panchina
Leggeva dentro di sé
L’anima come un giornale
Vecchio da accartocciare
Il vecchio raggiunse la sua solita panchina e vi si sedette pesantemente, privo dell’eleganza e della leggerezza che l’avevano per tutta la vita contraddistinto da che gli stava intorno.
Era sempre stato fiero di quelle qualità che lo rendevano, agli occhi degli altri, tanto simile ad un’eterea farfalla e che gli permettevano di volteggiare, fuori dal mondo e dal tempo, in quella stanza di tre muri chiamata palcoscenico.
Era stato bello vivere come era vissuto, ma oramai tutto era finito e lui non riusciva proprio a capire cosa lo avesse trattenuto al mondo così a lungo.
Non ballava più da tempo, da quando le sue gambe avevano iniziato a fare i capricci. I suoi figli vivevano lontano e i figli dei suoi figli erano, naturalmente, con loro. E sua moglie… beh, sua moglie se n’era andata troppo presto, portata via da una malattia che non faceva prigionieri e che la gente è solita chiamare leucemia.
Un passato
ingiallito
Ai piedi suoi
si posò
Solo su una
panchina si addormentò
Sì, la sua vita aveva decisamente fatto il suo corso.
Non poteva dire che fosse stata brutta, ma se solo lei fosse rimasta un po’più a lungo e se i suoi bambini non avessero deciso che Albuquqerque era un luogo troppo piccolo per poter contenere tutti i loro sogni, allora avrebbe potuto definirsi felice di chi era stato e di chi ancora a ottant’anni avrebbe potuto essere.
Invece era solo un uomo solo nella città dove era nato e che era sempre stata il centro del suo piccolo mondo, ma che era talmente cambiata, nel corso degli anni, da non essere più riconoscibile e da non essere più in grado di vedere in quel vecchio seduto al parco quello che era stato uno dei suoi più grandi vanti.
L’uomo sorrise con amarezza.
Nei suoi tempi d’oro, quando di quel metallo erano fatte anche le sue tre medaglie olimpiche, tutti ad Albuquqerque lo conoscevano e tutti volevano il suo autografo. Era stato famoso e non solo nella sua città. Sua moglie aveva raccolto tutti gli articoli che erano stati pubblicati su di lui, tutte le sue foto, tutte le pagine dei siti internet.
A lui non interessavano quelle cose, ma amava che lei fosse fiera dei suoi successi.
Poi lei era morta e il dolore che aveva nel cuore, unito a quello che si era, da un po’, impossessato della sua gamba destra lo avevano portato ad abbandonare la danza per sempre e così il mondo si era dimenticato di lui.
Pensarci gli faceva male e così il vecchio decise di abbandonare tutti quei ricordi e di lasciarsi catturare da quel sonno che già da un po’gravava sulle sue palpebre.
Ma un angelo
per caso passava lì
E gli si mise
accanto
I suoi capelli
bianchi accarezzò
“È lui?”
L’angelo dai capelli scuri si avvicinò ad esaminare il vecchio e annuì appena nella direzione dell’altro, biondo e più giovane che, però, vestiva la sua stessa tunica nera. Joshua era l’angelo della morte da quattrocento anni, oramai e aveva deciso che era ora di insegnare il mestiere ad un altro per potersi godere, finalmente, qualche secolo di vacanza.
Si ricordava di quell’uomo. L’aveva già visto quarant’anni prima, quando il Grande Capo lo aveva mandato a prendere sua moglie. Non si sarebbe mai dimenticato di quella donna che sembrava tanto fragile quanto in realtà era forte. La leucemia l’aveva debilitata fisicamente, ma quello che ne aveva realmente sofferto di più era stato proprio il marito, che si era ritrovato in pochi mesi da solo con tre figli da crescere. Ora lei lavorava come angelo custode di una delle sue nipotine e chiedeva continuamente quando avrebbe potuto rivedere quello che era stato l’amore della sua vita. I suoi occhi, quando Joshua le aveva comunicato che quel giorno sarebbe arrivato presto, comunicavano una gioia che l’angelo persino in Paradiso aveva visto raramente.
“Sei sicuro che non sia già morto?” Gilbert, l’angelo apprendista, passò una mano tra i capelli canuti del vecchio, ma Joshua lo redarguì immediatamente.
“Sì, certo, svegliati, Gilbert! Siamo noi quelli che aiutano la gente a passare di là. Senza di noi non lo possono fare.”
“Oh, scusa… Che facciamo ora?” Domandò Gilbert, la gaffe già dimenticata.
Joshua sorrise all’entusiasmo tipico dei giovani e pensò che presto quel ragazzo sarebbe diventato un ottimo angelo della morte.
“Ora mi guardi e del prossimo ti occupi tu.”
“Ma ti ho già visto lavorare! Lo so fare!”
“Lo so, Gil, ma questa persona è particolare. È il marito della mia migliore amica e voglio fargli un regalo.”
“Che regalo?”
“Gli farò rivivere i momenti più belli della sua vita.”
E il vecchio
per incanto
Ridiventò
bambino
E sorrideva
perché
Stringeva tra
le mani
Speranze del
domani
“Mi raccomando,
bambini, fate i bravi. Papà viene a prendervi alle quattro, ok? Vi
voglio bene!”
“Ok,
mamma!” Risposero in coro i biondissimi gemelli Evans, dando un bacio a
testa alla madre e correndo verso l’ingresso della scuola che li avrebbe
ospitati fino al loro ingresso al liceo.
Gli altri bambini,
vedendo passare quei due piccoli lord vestiti in modo così diverso da
loro, iniziarono a discutere tra loro e già all’ora del primo
appello del primo giorno della prima elementare erano divisi in due fazioni che
sarebbero rimaste tali finché non fosse arrivata una bella e talentuosa
ragazza di nome Gabriella Montez a sconvolgere tutto.
Già in quelle
poche ore gli alunni della scuola elementare di Albuquqerque si erano divisi in
chi ammirava i gemelli e voleva sopra ogni cosa diventare loro amico e in chi
li trovava strani e fuori luogo e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenersene
alla larga.
“Guarda,
Ryan!” esclamò Sharpay, indicando due bambini, uno biondo e
detentore di un paio di fenomenali occhi azzurri e l’altro proprietario
di una straordinaria massa di ricci castani. “Voglio fare amicizia con
lui!” Decise la biondina, senza specificare di quale lui si trattasse e
avviandosi a passo di marcia verso i due, trascinandosi dietro il fratello, che
la seguì senza protestare.
Fu così che
Troy Bolton e Chad Danforth entrarono nelle loro vite. Vite dalle quali per il
resto del tempo a loro concesso avrebbero tentato, con scarso successo, di
evadere.
Quel primo giorno di
scuola fu per il piccolo Ryan Evans l’inizio di qualcosa che non sarebbe
finito fino a quella sera, sulla panchina del parco. Fu l’inizio della
sua vita, di quella vera, fatta di relazioni, belle o brutte, esterne al nucleo
famigliare a quella nube di non meglio definiti domestici che levitava nell’orbita
di Villa Evans.
Ryan era un bambino
allegro, positivo e tranquillo, a cui non dispiaceva stare all’ombra
della sorella, perché tanto chi gli voleva bene sarebbe comunque andato
da lui, anche se questo avesse dovuto significare scavalcare Sharpay.
Un bambino con i
capelli color del grano e gli occhi della stessa tinta del cielo che viveva di
sogni e della certezza che quei sogni si sarebbero realizzati.
E il
più bell’aquilone del mondo
Da lui
volò
E anche la
primavera si risvegliò
Ryan Evans era triste.
Stava seduto sul prato
del parco in centro ad Albuquerque in un bel venticinque di luglio ed era
triste.
Era triste
perché esattamente un’ora più tardi avrebbe compiuto undici
anni e nessuno sembrava essersene ricordato. Nessuno si era riportato alla
mente il fatto che quello stesso giorno undici anni prima non era nata solo
Sharpay, ma anche lui.
Quindi era lì,
solo in mezzo ad un mare di gente, chiedendosi perché mai sua sorella
fosse tanto più importante di lui.
Ad un tratto, qualcosa
gli planò dritto dritto in testa, costringendolo ad interrompere le sue
divagazioni filosofiche.
Un aquilone.
L’oggetto
volante non meglio identificato era un semplice aquilone di quelli vecchio
stile, fatto di due bastoncini di legno incrociati e di tela multicolore.
E gli era
letteralmente piovuto sulla testa, tanto per aumentare la sua convinzione di
essere una delle persone più sfortunate degli Stati Uniti.
“Oh,
scusami!” Esclamò una voce sottile proprio dietro di lui,
strappandogli il giocattolo dalle mani e facendolo voltare.
“Non
fa…”
“Scusamiscusamiscusami!
Ti ho fatto male? Non è che ti ho colpito in un occhio, vero? La testa
sta bene? Ho sentito dire che anche un colpo microscopico può provocare
traumi gravi, dipende dal punto in cui vie…”
“Sto bene,
grazie.” Dichiarò Ryan, gelido, alzandosi dall’erba e
ripulendosi i pantaloni, mentre quella ragazzina evidentemente affetta da forte
ipocondria gli ballonzolava intorno, continuando a scusarsi per qualcosa che
non era nemmeno colpa sua.
“Senti, è
tutto ok, ok?”
“Ma io ti ho
fatto volare il mio aquilone addosso…sono un disastro.” Si
lamentò, mentre un paio di grossi lucciconi si affacciavano dietro le
lenti degli occhiali tondi.
“Non sei un
disastro. È che io ho il malocchio.”
“Che
cos’è il malocchio?” Domandò la bambina, improvvisamente
dimenticato ogni timore per la salute dell’altro.
“Vuol dire che
una strega mi ha fatto un incantesimo e io adesso attiro la sfortuna.”
“Non credo
più alle streghe da quando andavo all’asilo.”
“Ah no? Beh, fai male.”
“E chi sei tu
per saperne così tanto?”
“Io sono Ryan
Anthony Evans.” Disse semplicemente il biondino, come se il suo nome
spiegasse tutto.
“E io sono Kelsi
Nielsen e sono sicura che le streghe sono solo dei personaggi inventati
per far paura ai bambini stupidi come te.”
“Io non sono
stupido.”
“Certo che lo
sei. Tutti i maschi lo sono.”
“Le femmine di
più. Mia sorella è una femmina ed è stupida.”
“Beh, anche io
sono una femmina ma sono intelligente.”
“Questo lo dici
tu.”
“Dimostra il
contrario, Ryan Anthony!”
“Non chiamarmi
Anthony!”
…e quello era
stato l’inizio di un’amicizia.
Della più
grande, a dire il vero.
E venne il
tempo
E disse
stasera io
Gli faccio un
favore
“Che forza!” Esclamò Gilbert, mentre Joshua trafficava con alcuni fili per riportare alla mente del vecchio i ricordi più belli della sua vita. “Che sono quei cosi?”
“Sono i fili del tempo.” Rispose il più vecchio, iniziando con quelli a creare una forma con le mani abili ed allenate. “Sta a vedere cos’altro sono in grado di fare, questi gioiellini…”
Ritorno a
quando lui si sedeva lì
Col suo primo
amore
La stagione turistica
era ormai alla fine e il Lava Springs era deserto, eccezion fatta per quei
pochi membri dello stuff che stavano finendo di mettere in ordine le ultime
cose, prima di tornare a casa per una buona notte di sonno.
E poi c’era lui,
seduto sul bordo della piscina con le gambe in ammollo e gli occhi chiari
puntati su quella macchia scura che con la luce sarebbe stato possibili
distinguere come la sedia della bagnina.
Come quel giorno di
sette anni prima, Ryan Evans era triste, ma questa volta non era uno stupido
compleanno a renderlo tale, ma gli occhi castani di una ragazza che gli aveva
letteralmente cambiato la vita.
Qualcosa, però,
non era cambiato e perciò la persona che si avvicinò per
consolarlo era sempre la stessa.
“Devo farti
cadere in testa un aquilone o posso sperare che tu mi parli anche senza fare
tutta quella fatica?”
Ryan si voltò,
sorridendo alla ragazza che si stava sedendo accanto a lui, gli stessi occhiali
di sempre e quel sorriso che non cambiava mai e che mai sarebbe cambiato.
“Ciao,
scricciolo.” La salutò, spostandosi in modo da appoggiare il capo
sulle sue gambe. Kelsi era la sua migliore amica e con lei poteva permettersi
di essere debole quanto voleva. “Problemi di cuore, diciamo.”
“Gabriella?”
Domandò lei, accarezzando le folte ciocche bionde e ammirando i giochi
che le piccole luci poste sul fondo della piscina disegnavano sul pelo
dell’acqua.
“Gabriella.”
Rispose semplicemente lui, chiudendo gli occhi sotto la delicatezza del suo tocco.
“Kelsi, secondo te io sono una bella persona?”
“La migliore che
abbia mai conosciuto, Ry.” Replicò lei senza esitazioni.
“E lei lo
noterà mai?”
“Se non lo fa
è una vera idiota.” Un sorriso si dipinse sulle labbra sottili
della ragazza, mentre la sua mente vagava tra i ricordi di quello che era stato
l’inizio della loro amicizia, l’unica che per lei contasse davvero.
“D’altronde, solo le ragazze intelligenti capiscono certe cose,
no?”
Ryan ridacchiò,
asciugandosi dalla guancia una goccia d’azzurro che era sfuggita ai suoi
occhi.
“E Gabriella lo
è?”
Kelsi lasciò
che una leggera amarezza prendesse possesso del suo viso.
“Gabriella…sì,
Gabriella è molto intelligente.” Dichiarò, mentre con tutta
se stessa sperava che non lo fosse poi così tanto.
E venne il
cielo
A dire stasera
io
Vi accendo le
stelle
E a quei due
innamorati
Su quella
panchina
Offrirò
le più belle
“E così è finita, eh?”
Domandò Ryan sedendosi accanto a Kelsi su una delle panchine del parco.
“Già…” Rispose la ragazza con
gli occhi persi a rimirare un punto non meglio definito del cielo stellato
sopra di lei. “Mi mancherà la vecchia East High.”
“Ti sembrerà incredibile, ma mancherà
anche a me. New York è così lontana…Se le cose andranno
bene potrò vedervi una volta ogni due mesi, quando tornerò a
casa.”
“Ma ci scriveremo!” Si affrettò a dire
Kelsi, non ben sicura se le sue parole servissero a rassicurare lui o se
stessa.
“Lo sai anche tu che non sarà la stessa
cosa.”
“Ehi…” Sussurrò la ragazza,
sollevando con due dita il mento dell’amico. “Non ti preoccupare,
non riusciresti a liberarti di me nemmeno volendo. Ora tu devi andare a New
York e studiare per diventare ciò che vuoi, ciò che sogni. Io
farò lo stesso, ma questo non vuol dire che ci perderemo di vista,
ok?”
“Promesso?” Domandò lui, porgendole
una mano, che lei strinse come per sottoscrivere un accordo.
“Promesso.”
Ne erano passati di anni da quel lontano venticinque di
luglio…Il mondo intorno a loro era cambiato, loro stessi erano cambiati,
ma la loro amicizia era sempre rimasta un punto fermo.
Tuttavia, anche i punti fermi a volte si modificano e
questo era ciò che, Ryan aveva constatato già da un po’,
ormai, stava accadendo anche al loro rapporto.
Kelsi non era più la bambina fifona e intelligente
che aveva conosciuto in quello stesso parco grazie ad un aquilone maldestro.
Ora era una donna e lui se ne rendeva perfettamente conto.
Una donna la cui vicinanza gli provocava un sospetto ma
piacevole batticuore. Una donna bella e intelligente che gli era sempre stata
accanto senza mai chiedere niente in cambio se non la sua amicizia.
Chissà se anche lei avrebbe voluto qualcosa di
più…
“Kelsi?” Chiamò quasi senza rendersene
conto, seguendo il filo dei propri pensieri.
Lei rispose semplicemente alzando il capo
dall’incavo della spalla di lui, dove era solita appoggiarsi quando
trascorrevano insieme quei momenti dove le parole sarebbero state solo di
troppo.
“Facciamo un gioco?”
“Ok.” Replicò lei. Se era sorpresa non
lo diede a vedere. “Obbligo, giudizio o verità?”
“Giudizio.” Chi rimase realmente stupito fu,
paradossalmente, Ryan: aveva indovinato il gioco che aveva in mente di
proporle.
“Quanto ti mancherò da uno a dieci?”
“Quindici!” Rispose lui, sicuro, beccandosi
come ricompensa un pugno sulla spalla.
“Dovevi dire almeno cinquanta! Ora tocca a
me… verità!”
Ryan esultò e si maledisse allo stesso tempo per
la sua scelta: ora avrebbe davvero dovuto chiederglielo.
“Mi ami?” Domandò a bassa voce, un
po’ insicuro ma con gli occhi ben puntati nei suoi.
Il cuore di Kelsi si fermò per qualche istante,
onde poi riprendere a battere al doppio della velocità, quasi avesse
voluto recuperare il tempo perso.
“Io…Sì, ti voglio bene.”
Rispose, pensando di aver male interpretato la domanda.
Il giovane, dal canto suo, interpretò altrettanto
male la risposta.
“Oh…beh, anche io…” Per
mascherare la delusione, decise di continuare con il gioco.
“Obbligo.”
“Dammi un bacio.” Disse lei, risoluta. Con
delicatezza, Ryan le posò un bacio leggero sulla guancia dalla
temperatura più alta del dovuto.
“Hai sbagliato mira, scemo!” Lo
rimbeccò la ragazza, attirandolo a sé per il colletto della
camicia e baciandolo sulle labbra con molto più trasporto di quanto Ryan
si sarebbe mai aspettato.
E lui a quel bacio rispose, accantonato ogni dubbio, con
la forza prorompente di un amore tenuto prigioniero per troppo tempo, una more
che conosce se stesso e sa che non saranno delle misere distanze ad
affievolirne la potenza.
Ho visto una
panchina
Di notte
volare via
E mille e
più panchine
Seguire la sua
scia
Con sopra
tanta gente
Che non aveva
più età
Stanotte diamo
stelle a chi non ne ha
“Che bei ricordi…” Commentò Gilbert. “Altro che malocchio, quest’uomo è stato davvero fortunato.”
“Sì, lo è stato, Gil, soltanto che, come tutti, ha sempre fatto fatica a rendersene conto.”
“Che facciamo ora?”
“Se non vi dispiace, me ne occuperei io.” Li sorprese una morbida voce femminile alle loro spalle. Lì, in mezzo al sentiero nel parco di una Albuquerque addormentata, stava in piedi una piccola donna vestita solamente di una tunica più bianca della neve e di un paio di grossi occhiali dalla montatura nera e spessa. Gilbert si ritrovò, meravigliato, ad ammirare la stessa ragazza che aveva visto poco prima nella memoria del vecchio, forse soltanto un po’ più vecchia e con negli occhi la luce che solo il regno divino sa dare.
“Kelsi!” La salutò Joshua. “Aspettare non è mai stato il tuo forte, vero?”
La donna sorrise, avvicinandosi lentamente alla panchina. Gilbert, affascinato, si fece da parte, quasi temesse di trovarsi davanti ad un’eterea allucinazione.
“No, mai.” Rispose lei, sedendosi sulla panchina accanto al marito e sfiorandogli il volto con una carezza.
Allora accadde una cosa che Gilbert aveva già visto accadere mille volte, ma alla quale non si sarebbe abituato mai.
I capelli candidi dell’anziano Ryan Evans presero pian piano a tingersi di un biondo dorato, mentre le rughe scomparivano dal suo viso e dal suo corpo e tutto il suo aspetto tornava ad essere quello di un ventenne. Gli occhi azzurri si aprirono ancora una volta sul mondo, non più bisognosi di occhiali, e il suo sorriso, al trovarsi la moglie davanti, fu il più grande e sincero della sua vita.
Non dissero niente.
Kelsi si limitò a stringergli forte la mano e a chinarsi verso di lui per deliziare ancora una volta la sua bocca con un bacio del quale aveva ormai quasi scordato il sapore.
E fu allora che la panchina che aveva ospitato il primo e l’ultimo bacio di quelli che erano stati i coniugi Evans si alzò in volo nella frescura di quella notte limpida, accompagnata da tante altre panchine di tutti i parchi del mondo, sulle quali sedevano persone per cui il tempo non era ormai che qualcosa di vago e indefinito, qualcosa che a loro non sarebbe servito più.
Solo su una panchina
L’hanno
trovato così
Quel che
è sembrato strano
È che
aveva una stella in mano…
Albuquerque dice addio a Ryan Evans
È stato trovato questa mattina,
seduto su una panchina del parco pubblico, il corpo senza vita dell’ex
campione olimpico di danza sportiva Ryan A. Evans, da sempre orgoglio della
città di Albuquerque e di tutti gli Stati Uniti.
Evans,
ottantatré anni, vincitore di ben tre ori olimpici e di numerosi titoli
mondiali, padre di tre figli residenti a Washington e vedovo della musicista di
fama internazionale Kelsi Nielsen, si è spento questa notte serenamente
nella stessa solitudine che aveva accompagnato gli ultimi anni della sua vita.
Ciò
che è parso strano a Roland McLoffy, il nostro concittadino che lo ha
trovato, è che le sue labbra erano piegate in un sorriso che
l’uomo non si permetteva da tempo e la mano destra era stretta intorno ad
un ciondolo a forma di stella di metallo Swarowski che tutti sapevano essere
stato sepolto insieme alla moglie quarant’anni fa.
Come
durante la sua vita, anche nella morte la farfalla di Albuquerque ha deciso di
sorprenderci con un mistero che, temo, rimarrà tale per sempre. Come
sindaco e come amico non posso fare altro che dire addio a quest’uomo
meraviglioso con cui ho avuto la fortuna di condividere gli anni migliori della
mia vita.
Ciao,
Ryan, ricordati di noi e saluta per me i Wildcats che ti hanno preceduto in
questa tua nuova avventura.
Il
sindaco
Troy
F. Bolton