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Autore: Cara_Sconosciuta    04/08/2008    4 recensioni
“È lui?” L’angelo dai capelli scuri si avvicinò ad esaminare il vecchio e annuì appena nella direzione dell’altro, biondo e più giovane che, però, vestiva la sua stessa tunica nera. Joshua era l’angelo della morte da quattrocento anni, oramai e aveva deciso che era ora di insegnare il mestiere ad un altro per potersi godere, finalmente, qualche secolo di vacanza. Si ricordava di quell’uomo. L’aveva già visto quarant’anni prima, quando il Grande Capo lo aveva mandato a prendere sua moglie.
Genere: Romantico, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ryan Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è basata su una canzone che io amo particolarmente e credo vada letta con questo piccolo capolavoro in sottofondo, per questo lascio il link

Questa storia è basata su una canzone che io amo particolarmente e credo vada letta con questo piccolo capolavoro in sottofondo, per questo lascio il link.

 

http://it.youtube.com/watch?v=uTkqZsn8WHw

 

Si tratta di “La panchina” di Peppino Di Capri e la adoro perché è di una delicatezza incalcolabile ed è una specie di metafora della vita. Spero con le mie povere parole di renderle giustizia.

Temperance

 

La Panchina

Balla come se nessuno ti guardasse

Canta come se nessuno ti ascoltasse

Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo

Storia dedicata a chi, come me,

ha fatto di queste parole il suo stile di vita

 

Solo su una panchina

Leggeva dentro di sé

L’anima come un giornale

Vecchio da accartocciare

 

Il vecchio raggiunse la sua solita panchina e vi si sedette pesantemente, privo dell’eleganza e della leggerezza che l’avevano per tutta la vita contraddistinto da che gli stava intorno.

Era sempre stato fiero di quelle qualità che lo rendevano, agli occhi degli altri, tanto simile ad un’eterea farfalla e che gli permettevano di volteggiare, fuori dal mondo e dal tempo, in quella stanza di tre muri chiamata palcoscenico.

Era stato bello vivere come era vissuto, ma oramai tutto era finito e lui non riusciva proprio a capire cosa lo avesse trattenuto al mondo così a lungo.

Non ballava più da tempo, da quando le sue gambe avevano iniziato a fare i capricci. I suoi figli vivevano lontano e i figli dei suoi figli erano, naturalmente, con loro. E sua moglie… beh, sua moglie se n’era andata troppo presto, portata via da una malattia che non faceva prigionieri e che la gente è solita chiamare leucemia.

 

Un passato ingiallito

Ai piedi suoi si posò

Solo su una panchina si addormentò

 

Sì, la sua vita aveva decisamente fatto il suo corso.

Non poteva dire che fosse stata brutta, ma se solo lei fosse rimasta un po’più a lungo e se i suoi bambini non avessero deciso che Albuquqerque era un luogo troppo piccolo per poter contenere tutti i loro sogni, allora avrebbe potuto definirsi felice di chi era stato e di chi ancora a ottant’anni avrebbe potuto essere.

Invece era solo un uomo solo nella città dove era nato e che era sempre stata il centro del suo piccolo mondo, ma che era talmente cambiata, nel corso degli anni, da non essere più riconoscibile e da non essere più in grado di vedere in quel vecchio seduto al parco quello che era stato uno dei suoi più grandi vanti.

L’uomo sorrise con amarezza.

Nei suoi tempi d’oro, quando di quel metallo erano fatte anche le sue tre medaglie olimpiche, tutti ad Albuquqerque lo conoscevano e tutti volevano il suo autografo. Era stato famoso e non solo nella sua città. Sua moglie aveva raccolto tutti gli articoli che erano stati pubblicati su di lui, tutte le sue foto, tutte le pagine dei siti internet.

A lui non interessavano quelle cose, ma amava che lei fosse fiera dei suoi successi.

Poi lei era morta e il dolore che aveva nel cuore, unito a quello che si era, da un po’, impossessato della sua gamba destra lo avevano portato ad abbandonare la danza per sempre e così il mondo si era dimenticato di lui.

Pensarci gli faceva male e così il vecchio decise di abbandonare tutti quei ricordi e di lasciarsi catturare da quel sonno che già da un po’gravava sulle sue palpebre.

 

Ma un angelo per caso passava lì

E gli si mise accanto

I suoi capelli bianchi accarezzò

 

“È lui?”

L’angelo dai capelli scuri si avvicinò ad esaminare il vecchio e annuì appena nella direzione dell’altro, biondo e più giovane che, però, vestiva la sua stessa tunica nera. Joshua era l’angelo della morte da quattrocento anni, oramai e aveva deciso che era ora di insegnare il mestiere ad un altro per potersi godere, finalmente, qualche secolo di vacanza.

Si ricordava di quell’uomo. L’aveva già visto quarant’anni prima, quando il Grande Capo lo aveva mandato a prendere sua moglie. Non si sarebbe mai dimenticato di quella donna che sembrava tanto fragile quanto in realtà era forte. La leucemia l’aveva debilitata fisicamente, ma quello che ne aveva realmente sofferto di più era stato proprio il marito, che si era ritrovato in pochi mesi da solo con tre figli da crescere. Ora lei lavorava come angelo custode di una delle sue nipotine e chiedeva continuamente quando avrebbe potuto rivedere quello che era stato l’amore della sua vita. I suoi occhi, quando Joshua le aveva comunicato che quel giorno sarebbe arrivato presto, comunicavano una gioia che l’angelo persino in Paradiso aveva visto raramente.

“Sei sicuro che non sia già morto?” Gilbert, l’angelo apprendista, passò una mano tra i capelli canuti del vecchio, ma Joshua lo redarguì immediatamente.

“Sì, certo, svegliati, Gilbert! Siamo noi quelli che aiutano la gente a passare di là. Senza di noi non lo possono fare.”

“Oh, scusa… Che facciamo ora?” Domandò Gilbert, la gaffe già dimenticata.

Joshua sorrise all’entusiasmo tipico dei giovani e pensò che presto quel ragazzo sarebbe diventato un ottimo angelo della morte.

“Ora mi guardi e del prossimo ti occupi tu.”

“Ma ti ho già visto lavorare! Lo so fare!”

“Lo so, Gil, ma questa persona è particolare. È il marito della mia migliore amica e voglio fargli un regalo.”

“Che regalo?”

“Gli farò rivivere i momenti più belli della sua vita.”

 

E il vecchio per incanto

Ridiventò bambino

E sorrideva perché

Stringeva tra le mani

Speranze del domani

 

“Mi raccomando, bambini, fate i bravi. Papà viene a prendervi alle quattro, ok? Vi voglio bene!”

“Ok, mamma!” Risposero in coro i biondissimi gemelli Evans, dando un bacio a testa alla madre e correndo verso l’ingresso della scuola che li avrebbe ospitati fino al loro ingresso al liceo.

Gli altri bambini, vedendo passare quei due piccoli lord vestiti in modo così diverso da loro, iniziarono a discutere tra loro e già all’ora del primo appello del primo giorno della prima elementare erano divisi in due fazioni che sarebbero rimaste tali finché non fosse arrivata una bella e talentuosa ragazza di nome Gabriella Montez a sconvolgere tutto.

Già in quelle poche ore gli alunni della scuola elementare di Albuquqerque si erano divisi in chi ammirava i gemelli e voleva sopra ogni cosa diventare loro amico e in chi li trovava strani e fuori luogo e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenersene alla larga.

“Guarda, Ryan!” esclamò Sharpay, indicando due bambini, uno biondo e detentore di un paio di fenomenali occhi azzurri e l’altro proprietario di una straordinaria massa di ricci castani. “Voglio fare amicizia con lui!” Decise la biondina, senza specificare di quale lui si trattasse e avviandosi a passo di marcia verso i due, trascinandosi dietro il fratello, che la seguì senza protestare.

Fu così che Troy Bolton e Chad Danforth entrarono nelle loro vite. Vite dalle quali per il resto del tempo a loro concesso avrebbero tentato, con scarso successo, di evadere.

Quel primo giorno di scuola fu per il piccolo Ryan Evans l’inizio di qualcosa che non sarebbe finito fino a quella sera, sulla panchina del parco. Fu l’inizio della sua vita, di quella vera, fatta di relazioni, belle o brutte, esterne al nucleo famigliare a quella nube di non meglio definiti domestici che levitava nell’orbita di Villa Evans.

Ryan era un bambino allegro, positivo e tranquillo, a cui non dispiaceva stare all’ombra della sorella, perché tanto chi gli voleva bene sarebbe comunque andato da lui, anche se questo avesse dovuto significare scavalcare Sharpay.

Un bambino con i capelli color del grano e gli occhi della stessa tinta del cielo che viveva di sogni e della certezza che quei sogni si sarebbero realizzati.

 

E il più bell’aquilone del mondo

Da lui volò

E anche la primavera si risvegliò

 

Ryan Evans era triste.

Stava seduto sul prato del parco in centro ad Albuquerque in un bel venticinque di luglio ed era triste.

Era triste perché esattamente un’ora più tardi avrebbe compiuto undici anni e nessuno sembrava essersene ricordato. Nessuno si era riportato alla mente il fatto che quello stesso giorno undici anni prima non era nata solo Sharpay, ma anche lui.

Quindi era lì, solo in mezzo ad un mare di gente, chiedendosi perché mai sua sorella fosse tanto più importante di lui.

Ad un tratto, qualcosa gli planò dritto dritto in testa, costringendolo ad interrompere le sue divagazioni filosofiche.

Un aquilone.

L’oggetto volante non meglio identificato era un semplice aquilone di quelli vecchio stile, fatto di due bastoncini di legno incrociati e di tela multicolore.

E gli era letteralmente piovuto sulla testa, tanto per aumentare la sua convinzione di essere una delle persone più sfortunate degli Stati Uniti.

“Oh, scusami!” Esclamò una voce sottile proprio dietro di lui, strappandogli il giocattolo dalle mani e facendolo voltare.

“Non fa…”

“Scusamiscusamiscusami! Ti ho fatto male? Non è che ti ho colpito in un occhio, vero? La testa sta bene? Ho sentito dire che anche un colpo microscopico può provocare traumi gravi, dipende dal punto in cui vie…”

“Sto bene, grazie.” Dichiarò Ryan, gelido, alzandosi dall’erba e ripulendosi i pantaloni, mentre quella ragazzina evidentemente affetta da forte ipocondria gli ballonzolava intorno, continuando a scusarsi per qualcosa che non era nemmeno colpa sua.

“Senti, è tutto ok, ok?”

“Ma io ti ho fatto volare il mio aquilone addosso…sono un disastro.” Si lamentò, mentre un paio di grossi lucciconi si affacciavano dietro le lenti degli occhiali tondi.

“Non sei un disastro. È che io ho il malocchio.”

“Che cos’è il malocchio?” Domandò la bambina, improvvisamente dimenticato ogni timore per la salute dell’altro.

“Vuol dire che una strega mi ha fatto un incantesimo e io adesso attiro la sfortuna.”

“Non credo più alle streghe da quando andavo all’asilo.”

“Ah no? Beh, fai male.”

“E chi sei tu per saperne così tanto?”

“Io sono Ryan Anthony Evans.” Disse semplicemente il biondino, come se il suo nome spiegasse tutto.

“E io sono Kelsi Nielsen e sono sicura che le streghe sono solo dei personaggi inventati per far paura ai bambini stupidi come te.”

“Io non sono stupido.”

“Certo che lo sei. Tutti i maschi lo sono.”

“Le femmine di più. Mia sorella è una femmina ed è stupida.”

“Beh, anche io sono una femmina ma sono intelligente.”

“Questo lo dici tu.”

“Dimostra il contrario, Ryan Anthony!”

“Non chiamarmi Anthony!”

…e quello era stato l’inizio di un’amicizia.

Della più grande, a dire il vero.

 

E venne il tempo

E disse stasera io

Gli faccio un favore

 

“Che forza!” Esclamò Gilbert, mentre Joshua trafficava con alcuni fili per riportare alla mente del vecchio i ricordi più belli della sua vita. “Che sono quei cosi?”

“Sono i fili del tempo.” Rispose il più vecchio, iniziando con quelli a creare una forma con le mani abili ed allenate. “Sta a vedere cos’altro sono in grado di fare, questi gioiellini…”

 

Ritorno a quando lui si sedeva lì

Col suo primo amore

 

La stagione turistica era ormai alla fine e il Lava Springs era deserto, eccezion fatta per quei pochi membri dello stuff che stavano finendo di mettere in ordine le ultime cose, prima di tornare a casa per una buona notte di sonno.

E poi c’era lui, seduto sul bordo della piscina con le gambe in ammollo e gli occhi chiari puntati su quella macchia scura che con la luce sarebbe stato possibili distinguere come la sedia della bagnina.

Come quel giorno di sette anni prima, Ryan Evans era triste, ma questa volta non era uno stupido compleanno a renderlo tale, ma gli occhi castani di una ragazza che gli aveva letteralmente cambiato la vita.

Qualcosa, però, non era cambiato e perciò la persona che si avvicinò per consolarlo era sempre la stessa.

“Devo farti cadere in testa un aquilone o posso sperare che tu mi parli anche senza fare tutta quella fatica?”

Ryan si voltò, sorridendo alla ragazza che si stava sedendo accanto a lui, gli stessi occhiali di sempre e quel sorriso che non cambiava mai e che mai sarebbe cambiato.

“Ciao, scricciolo.” La salutò, spostandosi in modo da appoggiare il capo sulle sue gambe. Kelsi era la sua migliore amica e con lei poteva permettersi di essere debole quanto voleva. “Problemi di cuore, diciamo.”

“Gabriella?” Domandò lei, accarezzando le folte ciocche bionde e ammirando i giochi che le piccole luci poste sul fondo della piscina disegnavano sul pelo dell’acqua.

“Gabriella.” Rispose semplicemente lui, chiudendo gli occhi sotto la delicatezza del suo tocco. “Kelsi, secondo te io sono una bella persona?”

“La migliore che abbia mai conosciuto, Ry.” Replicò lei senza esitazioni.

“E lei lo noterà mai?”

“Se non lo fa è una vera idiota.” Un sorriso si dipinse sulle labbra sottili della ragazza, mentre la sua mente vagava tra i ricordi di quello che era stato l’inizio della loro amicizia, l’unica che per lei contasse davvero. “D’altronde, solo le ragazze intelligenti capiscono certe cose, no?”

Ryan ridacchiò, asciugandosi dalla guancia una goccia d’azzurro che era sfuggita ai suoi occhi.

“E Gabriella lo è?”

Kelsi lasciò che una leggera amarezza prendesse possesso del suo viso.

“Gabriella…sì, Gabriella è molto intelligente.” Dichiarò, mentre con tutta se stessa sperava che non lo fosse poi così tanto.

 

E venne il cielo

A dire stasera io

Vi accendo le stelle

E a quei due innamorati

Su quella panchina

Offrirò le più belle

 

“E così è finita, eh?” Domandò Ryan sedendosi accanto a Kelsi su una delle panchine del parco.

“Già…” Rispose la ragazza con gli occhi persi a rimirare un punto non meglio definito del cielo stellato sopra di lei. “Mi mancherà la vecchia East High.”

“Ti sembrerà incredibile, ma mancherà anche a me. New York è così lontana…Se le cose andranno bene potrò vedervi una volta ogni due mesi, quando tornerò a casa.”

“Ma ci scriveremo!” Si affrettò a dire Kelsi, non ben sicura se le sue parole servissero a rassicurare lui o se stessa.

“Lo sai anche tu che non sarà la stessa cosa.”

“Ehi…” Sussurrò la ragazza, sollevando con due dita il mento dell’amico. “Non ti preoccupare, non riusciresti a liberarti di me nemmeno volendo. Ora tu devi andare a New York e studiare per diventare ciò che vuoi, ciò che sogni. Io farò lo stesso, ma questo non vuol dire che ci perderemo di vista, ok?”

“Promesso?” Domandò lui, porgendole una mano, che lei strinse come per sottoscrivere un accordo.

“Promesso.”

Ne erano passati di anni da quel lontano venticinque di luglio…Il mondo intorno a loro era cambiato, loro stessi erano cambiati, ma la loro amicizia era sempre rimasta un punto fermo.

Tuttavia, anche i punti fermi a volte si modificano e questo era ciò che, Ryan aveva constatato già da un po’, ormai, stava accadendo anche al loro rapporto.

Kelsi non era più la bambina fifona e intelligente che aveva conosciuto in quello stesso parco grazie ad un aquilone maldestro. Ora era una donna e lui se ne rendeva perfettamente conto.

Una donna la cui vicinanza gli provocava un sospetto ma piacevole batticuore. Una donna bella e intelligente che gli era sempre stata accanto senza mai chiedere niente in cambio se non la sua amicizia.

Chissà se anche lei avrebbe voluto qualcosa di più…

“Kelsi?” Chiamò quasi senza rendersene conto, seguendo il filo dei propri pensieri.

Lei rispose semplicemente alzando il capo dall’incavo della spalla di lui, dove era solita appoggiarsi quando trascorrevano insieme quei momenti dove le parole sarebbero state solo di troppo.

“Facciamo un gioco?”

“Ok.” Replicò lei. Se era sorpresa non lo diede a vedere. “Obbligo, giudizio o verità?”

“Giudizio.” Chi rimase realmente stupito fu, paradossalmente, Ryan: aveva indovinato il gioco che aveva in mente di proporle.

“Quanto ti mancherò da uno a dieci?”

“Quindici!” Rispose lui, sicuro, beccandosi come ricompensa un pugno sulla spalla.

“Dovevi dire almeno cinquanta! Ora tocca a me… verità!”

Ryan esultò e si maledisse allo stesso tempo per la sua scelta: ora avrebbe davvero dovuto chiederglielo.

“Mi ami?” Domandò a bassa voce, un po’ insicuro ma con gli occhi ben puntati nei suoi.

Il cuore di Kelsi si fermò per qualche istante, onde poi riprendere a battere al doppio della velocità, quasi avesse voluto recuperare il tempo perso.

“Io…Sì, ti voglio bene.” Rispose, pensando di aver male interpretato la domanda.

Il giovane, dal canto suo, interpretò altrettanto male la risposta.

“Oh…beh, anche io…” Per mascherare la delusione, decise di continuare con il gioco. “Obbligo.”

“Dammi un bacio.” Disse lei, risoluta. Con delicatezza, Ryan le posò un bacio leggero sulla guancia dalla temperatura più alta del dovuto.

“Hai sbagliato mira, scemo!” Lo rimbeccò la ragazza, attirandolo a sé per il colletto della camicia e baciandolo sulle labbra con molto più trasporto di quanto Ryan si sarebbe mai aspettato.

E lui a quel bacio rispose, accantonato ogni dubbio, con la forza prorompente di un amore tenuto prigioniero per troppo tempo, una more che conosce se stesso e sa che non saranno delle misere distanze ad affievolirne la potenza.

 

Ho visto una panchina

Di notte volare via

E mille e più panchine

Seguire la sua scia

Con sopra tanta gente

Che non aveva più età

Stanotte diamo stelle a chi non ne ha

 

“Che bei ricordi…” Commentò Gilbert. “Altro che malocchio, quest’uomo è stato davvero fortunato.”

“Sì, lo è stato, Gil, soltanto che, come tutti, ha sempre fatto fatica a rendersene conto.”

“Che facciamo ora?”

“Se non vi dispiace, me ne occuperei io.” Li sorprese una morbida voce femminile alle loro spalle. Lì, in mezzo al sentiero nel parco di una Albuquerque addormentata, stava in piedi una piccola donna vestita solamente di una tunica più bianca della neve e di un paio di grossi occhiali dalla montatura nera e spessa. Gilbert si ritrovò, meravigliato, ad ammirare la stessa ragazza che aveva visto poco prima nella memoria del vecchio, forse soltanto un po’ più vecchia e con negli occhi la luce che solo il regno divino sa dare.

“Kelsi!” La salutò Joshua. “Aspettare non è mai stato il tuo forte, vero?”

La donna sorrise, avvicinandosi lentamente alla panchina. Gilbert, affascinato, si fece da parte, quasi temesse di trovarsi davanti ad un’eterea allucinazione.

“No, mai.” Rispose lei, sedendosi sulla panchina accanto al marito e sfiorandogli il volto con una carezza.

Allora accadde una cosa che Gilbert aveva già visto accadere mille volte, ma alla quale non si sarebbe abituato mai.

I capelli candidi dell’anziano Ryan Evans presero pian piano a tingersi di un biondo dorato, mentre le rughe scomparivano dal suo viso e dal suo corpo e tutto il suo aspetto tornava ad essere quello di un ventenne. Gli occhi azzurri si aprirono ancora una volta sul mondo, non più bisognosi di occhiali, e il suo sorriso, al trovarsi la moglie davanti, fu il più grande e sincero della sua vita.

Non dissero niente.

Kelsi si limitò a stringergli forte la mano e a chinarsi verso di lui per deliziare ancora una volta la sua bocca con un bacio del quale aveva ormai quasi scordato il sapore.

E fu allora che la panchina che aveva ospitato il primo e l’ultimo bacio di quelli che erano stati i coniugi Evans si alzò in volo nella frescura di quella notte limpida, accompagnata da tante altre panchine di tutti i parchi del mondo, sulle quali sedevano persone per cui il tempo non era ormai che qualcosa di vago e indefinito, qualcosa che a loro non sarebbe servito più.

 

Solo su una panchina

L’hanno trovato così

Quel che è sembrato strano

È che aveva una stella in mano…

 

Albuquerque dice addio a Ryan Evans

 

            È stato trovato questa mattina, seduto su una panchina del parco pubblico, il corpo senza vita dell’ex campione olimpico di danza sportiva Ryan A. Evans, da sempre orgoglio della città di Albuquerque e di tutti gli Stati Uniti.

            Evans, ottantatré anni, vincitore di ben tre ori olimpici e di numerosi titoli mondiali, padre di tre figli residenti a Washington e vedovo della musicista di fama internazionale Kelsi Nielsen, si è spento questa notte serenamente nella stessa solitudine che aveva accompagnato gli ultimi anni della sua vita.

            Ciò che è parso strano a Roland McLoffy, il nostro concittadino che lo ha trovato, è che le sue labbra erano piegate in un sorriso che l’uomo non si permetteva da tempo e la mano destra era stretta intorno ad un ciondolo a forma di stella di metallo Swarowski che tutti sapevano essere stato sepolto insieme alla moglie quarant’anni fa.

            Come durante la sua vita, anche nella morte la farfalla di Albuquerque ha deciso di sorprenderci con un mistero che, temo, rimarrà tale per sempre. Come sindaco e come amico non posso fare altro che dire addio a quest’uomo meraviglioso con cui ho avuto la fortuna di condividere gli anni migliori della mia vita.

            Ciao, Ryan, ricordati di noi e saluta per me i Wildcats che ti hanno preceduto in questa tua nuova avventura.

                                                Il sindaco

                                                Troy F. Bolton

   
 
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