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Autore: Sherlocked_96    30/05/2014    1 recensioni
John, tornato a casa ubriaco, si dichiara a Sherlock, ma la mattina dopo non ricorda nulla. Sherlock, però, inizia a nutrire dubbi su cosa prova verso il suo coinquilino. Proprio quando decide di non far crollare la "barriera" che aveva innalzato attorno a sé, un terribile dolore lo porta in ospedale, dove gli viene diagnosticato un tumore.
[ritorno di Moriarty] [Johnlock]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4

John non la prese bene quando tornai al 221B.
Mi gridò contro per un po’, credo, ma devo ammettere che non stavo ascoltando granché.
- Cosa diavolo ti è passato per la testa, di tornare all’una di notte! – notai che quando gridava la bocca gli prendeva una buffa piega – Sherlock! Mi stai ascoltando?!
Continuavo a fissargli le labbra e compresi dagli attimi di silenzio che mi aveva fatto una domanda. Alzai velocemente lo sguardo.
- Sì, sì, ma certo.
- Mi prendi anche in giro!
- Non ti sto prendendo in giro, John.
- Ah no? E cosa sto dicendo, allora?
- Varianti sul tema del mio essere un dannato bastardo per essere tornato così tardi.
- Dannato bastardo non l’avevo ancora detto.
- Già, te lo saresti tenuto per la fine.
- Insomma! Da oggi ti proibisco categoricamente di uscire senza il mio permesso!
- Cosa sei, mio padre?
- Sei fortunato che io non lo sia, altrimenti ti avrei già dato un sacco di botte.
- La vedo difficile, considerando che sei molto più basso di me.
Mi lanciò un’occhiata truce.
- Comunque, si può sapere cos’hai combinato tutto questo tempo?
- T’interessa?
- Sì, potresti esserti andato a drogare, o magari ti sei fidanzato, sarebbe una buona cosa, oppure…
- Davvero gradiresti la notizia del mio fidanzamento?
- No, non particolarmente. Cioè, intendo, sei liberissimo di fidanzarti e fare ciò che preferisci... 
- Tranne uscire.
- Tranne uscire.
Rimanemmo in silenzio, seduti vicini sul divano. Sentivo il suo ginocchio contro la mia gamba.
- Quindi… ti sei fidanzato? – chiese dopo un po’.
- No, certo che no.
- Uhm.
Guardai la notte avvicinarsi da dietro la finestra.
- Ti darebbe fastidio?
- Cos…? Ma, no, forse, insomma, sarebbe strano, ecco tutto.
Un ubriaco cantava stonato dalla strada.
- Comunque, davvero, cos’hai combinato? Giuro che non dirò niente a tuo fratello, e…
- Niente di che, è tornato Moriarty. E Mycroft non è proprio la persona giusta, al momento.
Sgranò gli occhi e il suo sussulto si perse nelle grida dell’ubriaco.
- Come sarebbe a dire… tornato? – chiese con voce strozzata.
- Che è ancora vivo; non è mai morto, in realtà.
- E… e tu… credi che vorrà ucciderti?
- Senza dubbio, ne abbiamo parlato gran parte del pomeriggio.
Si portò le mani alle tempie.
- Cristo, se facevo bene ad essere preoccupato.
- Uhm, no, era chiaro che non volesse ammazzarmi da subito.
John mi guardò intensamente, mentre altre voci si aggiungevano al coro stonato della strada.
- Sai, non c’è una versione di questa storia in cui io ne esca vivo. Ma non se ne dovrebbe fare un dramma: nessuno esce vivo dalla vita – spiegai tranquillamente.
Le mani gli erano ricadute vicino al corpo e si vedeva che stava facendo un incredibile sforzo per non perdere il controllo.
- Devi chiedere aiuto a Mycroft – disse poi.
- No.
- Perché?
- Perché molti anni fa, lui… - m’interruppi. Non mi andava di raccontarlo, non lo avevo mai detto a nessuno, neanche a nostra madre.
Il mio coinquilino capì.
- Me lo spiegherai un’altra volta.
Sembravano divertirsi davvero molto le persone in strada, anche se a me sembravano solo un branco di idioti. Non m’importava di loro, dopotutto. M’importava solo dell’uomo vicino a me e del suo respiro regolare e dei suoi occhi così verdi e azzurri e del fatto che fosse preoccupato per me.
Sarei rimasto a guardarlo per ore, ma lui disse che era ora di andare a dormire.
Di sonno non ne avevo davvero, ma lo assecondai.

Era iniziato un temporale. Sdraiato sul mio letto, potevo sentire la pioggia battere rapida e regolare oltre la finestra. Dalla strada non si udivano più le grida dell’ubriaco.
Lasciai passare un paio ore; poi, il più piano possibile, uscii dalla mia stanza. Il parquet scricchiolava appena sotto i miei piedi nudi, non vi prestai attenzione. Attraversai il pianerottolo e sgusciai nella camera di John.
Nella penombra lo vidi adagiato sotto le coperte. Sembrava così calmo, mentre dormiva. Come un bambino. Potevo sentire il suo odore, dopobarba e caffè, riempire lo spazio attorno a me, e mi ci abbandonai.
Sapevo che non avrei dovuto aver bisogno di vederlo, che era sbagliato trovarmi lì, ma non ne potei fare a meno.
Rimasi a contemplarlo fin quasi al mattino.
Aveva smesso di piovere e cominciava a schiarire. La luce bianca e debole si specchiava sulla sua pelle candida. Mugugnò appena e si girò tra le coperte. Decisi che quello era il momento giusto per andarmene.
Mi sdraiai sul mio letto in uno stato di dormiveglia per le poche ore restanti di sonno.
Mi svegliai verso le sette e mezza. Scesi in salotto, già pervaso dall’odore del tè, dove trovai un sorridente John Watson ai fornelli.
- Buongiorno! Sto facendo un tè.
- Ho notato.
- Ne vuoi?
- In realtà…
- Era una domanda retorica, Sherlock, te lo sto già preparando – mi fulminò prima che potessi dire nulla.
Accettai la cosa con rassegnazione, afferrando la tazza calda che mi porgeva.
Si sedette davanti a me.
- Sai che giorno è?
- Non ne ho la minima idea.
- Domenica. Oggi non vado all’ospedale.
- Mhm, bene.
Credo di non essere sembrato molto convinto. Ma ne ero felice per davvero. In quella pallida mattina, sebbene non presentasse stimoli intellettuali di alcun tipo, mi crogiolavo con un certo torpore. Era da tanto che non provavo un momento di tranquillità come quello, e avrei voluto goderlo fino in fondo assieme a quegli occhi verdi e azzurri che mi sorridevano dall’altro capo del tavolo.
Come al solito, mio fratello rovinò tutto. Il mio cellulare squillò e vidi il nome di Mycroft illuminare il display. Risentito lo afferrai.
“Perché non me lo hai detto?” sembrava arrabbiato.
“Che cosa?”
“Di Moriarty”
“Non ritenevo importante che tu lo sapessi, Mycroft”
“Stupido, avrei cominciato da prima ad aumentare il livello di sicurezza attorno a te!”
“Te l’ha detto Lestrade?”
“…Sì.”
“Non provarci subito, avrai molte più possibilità lasciando passare un po’ di tempo”
“Non è di questo che volevo parlarti! È una cosa seria, sei in pericolo, e…”
“Come se non stessi comunque per morire. Buona mattinata Mycroft” e ho attaccato, cominciava davvero a seccarmi.
- Tuo fratello? – chiese John.
Io annuii. Lui non fece altre domande e si limitò ad intaccare le uova strapazzate. Chissà come faceva a mangiare così tanto di prima mattina, io avrei vomitato subito.
Il giornale piegato in una mano, il cellulare stretto nell’altra, guardavo nel vuoto.
- Ah, Sherlock, stasera…
- Ho sempre trovato Mycroft insopportabile – lo interruppi, alzando lo sguardo su di lui – Ma cominciai a detestarlo intorno ai quindici anni, dopo la morte di nostro padre.
- Uhm. – John posò forchetta e coltello e incrociò le mani sotto il mento.
- Mi aveva mentito, sai. Mi aveva detto che non aveva nulla di grave, che era in ospedale solo per un controllo. È morto due settimane dopo per carenza cardiaca. Non ho potuto neanche salutarlo, non pensavo che fosse una cosa grave. Avevo litigato con lui la mattina precedente al suo ricovero. Non me lo sono mai perdonato, mi sarei dovuto scusare con lui, fargli sapere che gli volevo bene, e… - m’interruppi; non l’avevo mai raccontato e non pensavo che potesse fare ancora tanto male – Mycroft  pensava di farlo per proteggermi dal dolore, mentirmi, sai. Mi considerava ancora un bambino. Be’, non ero un bambino. Avevo diritto a vederlo un’ultima volta. Mia madre ebbe un crollo emotivo e psicologico dopo la sua morte e la dovettero ricoverare in un centro di riabilitazione. Mycroft era già maggiorenne, se n’era andato da casa. Io venni mandato in un college in campagna. Dio, quanto odiavo quel posto. Non ho parlato con mio fratello per diversi anni, finché non ho terminato gli studi e mi sono trasferito a Londra.
John rimase in silenzio, con lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Sherlock. Non cambierebbe molto se ti dicessi che ha mentito credendo di farti del bene, vero?
- No.
- Già.
La mia placida mattina si era intristita solo grazie ad una chiamata. John si era intristito. Provai un terribile rimorso, non avrei dovuto raccontargli quella storia.
- Prima… sai, prima che mi spiegassi… volevo chiederti se, ehm…
- Sì?
- …se ti andasse di venire a cena, stasera, con me. Alle otto. Non da Angelo. Ho trovato un bel posto, a Dover Street, volevo provarlo.
Un nodo mi salì alla gola. Tentai di deglutire, ma non funzionò. John mi stava invitando a cena. Proprio me, malato terminale minacciato da un pericoloso criminale apparentemente tornato dall’oltretomba.
L’eccitazione mi montò nel petto, aspettavo da molto tempo un’occasione del genere. Ma poi mi tornò alla mente quello che Moriarty mi aveva detto e l’immagine del cadavere di John Watson mi balenò per un istante davanti agli occhi. Tutta l’eccitazione sparì, lasciando posto all’amarezza.
- Io… non posso, John, mi dispiace, è che…
- Oh, certo, non ti preoccupare, ho capito – si grattò nervosamente un occhio e tentò di sorridere, ma la bocca gli si distorse in una smorfia. L’avevo deluso, l’aveva preso come un rifiuto.
- Davvero John, io…
- No, no, fa niente. Ormai ho prenotato, ci andrò da solo, sì, nessun problema. Scusa, vado a fare due passi, torno subito.
Non feci in tempo a dire niente che la porta si richiuse dietro di lui. Merda.
Merda, merda, merda!
Mi arruffai i ricci per tentare di pensare. Perché l’essere umano non è logico? Cos’ha di sbagliato? Perché non può essere dedotto come una scena del crimine?
Camminai avanti e indietro per il salotto. Notai che mi stavo mordicchiando un’unghia. Io non mi ero mai mangiato le unghie.
Non ne potevo più, decisi di uscire a prendere un po’ d’aria. Andai al miny-market, la marmellata di ciliegie era finita e la ricomprai. Risalii a casa, posai il barattolo sul tavolo e ci lasciai sopra un pezzo di carta con su scritta una parola, “Scusa”. Non ero bravo in quelle cose, proprio per niente.
Ridiscesi le scale.
- Oh Sherlock, cos’è tutto questo andirivieni? – mi chiese la signora Hudson all’ingresso.
- Niente, mi ero scordato una cosa di sopra.
- Sei sicuro di poter uscire, caro?
- Sicurissimo. 
Nel pomeriggio vagai per le strade di Londra. Da ragazzo amavo perdermi tra i vicoli, ma adesso li conoscevo tutti con tale precisione che sarebbe stato impossibile. Tuttavia quella città continuava ad esercitare un’inspiegabile fascino su di me. A volte anche una cosa conosciuta può essere amata.
Avevo spento il cellulare, ma ero sicuro che se l’avessi acceso mi sarebbero arrivati numerosi messaggi d’avvertimento per le chiamate perse da John Watson.
Iniziò ad imbrunire senza che io avessi dato ancora un senso a ciò che stavo facendo. Il dolore alla testa sembrava avermi lasciato in pace, quel giorno. Alle sei piovigginò appena e io mi tirai più su il colletto del cappotto per ripararmi le orecchie.
Verso le sette e mezza, credevo di aver esaurito le strade. Avevo tentato di evitare Dover Street e tutta la zona che la circondava, ma alle sette e tre quarti non riuscii più a trattenermi.
Era chiaro quale fosse il posto adocchiato da John: un luminoso ristorante al centro della strada. “Da Menphis” si chiamava.
Alle 19:58 vidi il mio coinquilino vestito di tutto punto con giacca e cravatta entrarvi. Rischiai di avvicinarmi un altro po’ e lo osservai da dietro la vetrata prendere posto ad uno dei tavoli all’entrata. Non mi notò. Sembrava nervoso. Forse aveva invitato qualcun altro o, peggio, qualcun’altra. Guardava spesso l’orologio, in maniera quasi maniacale.
Alle otto e venti non ressi più. “Che si fotta, Moriarty”. Ed entrai a passo deciso nel ristorante.
Appena mi vide, John mi mostrò uno dei suoi sorrisi più belli. E sollevati. Credeva che non sarei venuto. O forse sì, visto che mi aveva aspettato per ordinare.
- Ti sei fatto attendere?
- Ho avuto problemi col traffico, sai.
Presi posto davanti a lui. Non riuscivo a fare a meno di sorridere come un idiota.
- Ho trovato la marmellata. Grazie, mi ha fatto piacere. Perché non rispondevi al cellulare?
- Era scarico.
- Uhm?
- Uhm.
Non ero bravo a mentire. O meglio, ero molto bravo a mentire, ma non con John.
- Vorrei che sapessi – iniziai con voce leggermente tremante – Che dal primo momento in cui me l’hai proposto sarei voluto venire a cenare con te, ma…
In quel momento arrivò il cameriere, che chiese con voce neutra e nasale: - Siete pronti per ordinare?
- Non può passare più tardi, non vede che siamo impegnati? – devo essere suonato altamente scocciato, perché il cameriere si allontanò subito mentre John ridacchiava.
- Stavi dicendo?
- Sì, dicevo. Sarei voluto venire da subito, ma non potevo. Moriarty ha minacciato di farti del male, se mi fossi avvicinato a te. – John schiuse la bocca, incredulo – Volevo che lo sapessi. Ora che ne sei a conoscenza so che non vorrai cenare con me, quindi me ne vado anche subito, se vuoi… - ma la sua mano afferrò la mia prima che io potessi alzarmi.
- Non ho nessuna intenzione di farmi condizionare da Moriarty, Sherlock Holmes.
La sua mano calda e la sua presa solida rischiarono di mandarmi in tilt.
- Quindi…
- Possiamo essere tutto quello che vogliamo, Sherlock. Moriarty può fare ciò che vuole, io non ho intenzione di lasciarti andare.
- John… sai che sono un malato terminale, sì? Probabilmente morirò fra due anni o poco più.
- Non m’importa, non m’importa affatto. E se è così questi saranno i due anni più belli della tua vita. Chi se ne frega del tumore e di Moriarty. Siamo io e te, va bene?
- Va bene, sì, credo di sì – la bocca mi si storse in un sorriso sbilenco. Non riuscivo a credere che fosse vero, che quel dottore stesse dicendo quelle cose proprio a me.
Il cameriere dalla pronuncia nasale minacciava di venire di nuovo verso di noi con aria arcigna.
- Vieni, scappiamo – disse John alzandosi e continuando a tenermi per mano.
Sgusciammo fuori dal ristorante e corremmo – sempre per quanto il mio “squilibrio motorio” lo permettesse – per la strada. Pioveva un poco e mai come in quel momento mi sentii vivo.
Non prendemmo taxi, Dover Street era molto vicina a Baker Street. Entrammo nel 221B ridendo e salimmo in fretta le scale.
- Insomma, cos’è questo baccano? – chiese la padrona di casa dal piano terra.
- Niente, signora Hudson! – gridammo in coro.
In salotto finalmente ci fermammo, bagnati di pioggia e col fiatone. Fissai i suoi occhi azzurro/verdi nei miei e non esistette nient’altro. Quelli furono i due secondi più lunghi della mia vita, ma in futuro niente sarebbe stato meraviglioso e carico d’emozioni come quella breve attesa.   
Lo baciai e i nostri corpi iniziarono la loro danza armoniosa, mentre ci toglievamo i cappotti e ci slacciavamo le camicie.
Quella notte fu lunga e calda e al mattino, quando mi risvegliai nel torpore del letto di John col mio coinquilino che dormiva sereno e nudo al mio fianco, pensai che non ci fosse niente, a questo mondo, in grado di competere con quella sera.  

  
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