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Autore: Alaska__    30/05/2014    3 recensioni
{ One-shot • Serena and Lael Lysoon • DISTRETTO 4 • Spin off di Hurricane of fire }
«Davvero è per me?», domandò, avvicinando la conchiglia agli occhi e osservandola ancora più attentamente. La bambina annuì, sistemandosi la lunga coda di cavallo in cui era solita acconciare i capelli.
«Tutta tua. Ti piace?»
Lael annuì. «Grazie, sorellina», disse, mettendosi il nuovo regalo al collo. «È bellissima».
Scompigliò i capelli della piccola, dandole un bacio sulla guancia. «Ti voglio tanto bene, Sirenetta», aggiunse sottovoce, appoggiando la sua fronte a quella della sorella. E in quel momento, Lael capì di avergliene voluto per tutti quegli anni, anche se quell’affetto era rimasto sopito nel profondo del suo animo.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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« Hey brother, do you still believe in one another?

Hey sister, do you still believe in love, I wonder?
Oh, if the sky comes falling down,  for you
there’s nothing in this world I wouldn’t do »
 
Di sicuro, l’idea che aveva avuto suo padre – portare la moglie in barca – non era stata buona, considerato che quest’ultima era incinta di nove mesi.
Lael riannodò i lacci delle sue scarpe da ginnastica per quella che doveva essere la centesima volta. Fare nodi lo rilassava e  in mancanza di corde, visto che suo padre gli aveva proibito di prenderle, sfruttava i logori lacci della sue scarpe, mentre dall’interno della barca provenivano diversi rumori.
Sbuffò. Voleva andare a vedere, ma suo padre lo aveva costretto a starsene buono, nel mentre che lui avvicinava la barca alla riva per far salire delle persone.
Lael non aveva ben capito cosa fosse successo. Ad un certo punto, si era udito un rumore strano, sua madre si era irrigidita e aveva esordito con un: «Marcel, mi si sono aperte le acque», che Lael non aveva compreso. Suo padre sì, però, ed era sbiancato, per poi balbettare qualcosa di incomprensibile e portare il figlio fuori.
Forse – pensava Lael – aveva a che fare con la nascita del suo fratellino. I suoi genitori gli avevano rivelato pochi mesi prima che di lì a qualche tempo sarebbero stati in quattro. Non sapevano se fosse un maschio o una femmina, volevano tenere la sorpresa. I nomi, però, li avevano già scelti. Se fosse stato un maschio, si sarebbe chiamato George; in caso fosse nata femmina, le avrebbero dato il nome di Serena. Jillian e Marcel avevano discusso a lungo riguardo a ciò, interpellando, di tanto in tanto, anche il figlioletto di appena quattro anni. Lael non sapeva che nome dargli – a lui bastava avere un fratellino – ma ricordava che i genitori ci erano stati su per giorni, con quella storia. Sua madre aveva scelto George, perché riteneva avesse un bel suono ed era il nome di suo nonno. Marcel, invece, aveva optato per Serena. Inizialmente voleva scegliere Sirena, come le mitiche creature marine, protagoniste di tante leggende che giravano al quarto distretto. Tuttavia, Jillian si era opposta.
«Non chiamerò mai mia figlia Sirena, Marcel!», aveva esclamato esasperata, mettendosi le mani nei lunghi capelli biondi. «Scegline uno più normale, come Lael».
Marcel aveva messo su il broncio, ma poi aveva sospirato rassegnato. «D’accordo. Fammici pensare», aveva replicato, e due giorni dopo se n’era uscito fuori con un nuovo nome, Serena. Alla moglie era piaciuto tanto, così decisero di dare quel nome alla loro possibile figlia. L’uomo sosteneva che gli ricordasse molto la parola sirena e adorava il suono.
Quando lo aveva saputo, Lael era andato avanti per giorni a ripeterlo ed era giunto alla conclusione che gli piaceva di più il nome George. Lui voleva un fratellino, non una sorellina. Insieme ad un maschio avrebbe potuto fare molte più cose che con una femmina: giocare a calcio, nuotare, fare gare di tuffi e buttarsi dagli scogli.
«Lael?»
Una voce lo distrasse, facendogli smettere di allacciare le scarpe – gesto che ormai era diventato automatico. Il bambino si girò, ritrovandosi davanti suo nonno, il padre di suo padre che portava il suo stesso nome. Per scegliere il nome del loro primogenito, Marcel e Jillian non avevano dovuto discutere. Infatti, nonno Lael si era ammalato poco prima della nascita del piccolo e aveva fatto promettere al figlio di chiamare il suo bambino con il suo nome. Tuttavia, Lael Lysoon senior era miracolosamente guarito, proprio pochi giorni dopo la nascita del nipotino.
«Cosa?», chiese il bambino, fissando il nonno. L’anziano gli sorrise, per poi tendergli una mano. Lael la afferrò, tirandosi in piedi.
«Vuoi venire a vedere?», chiese il nonno. «È nata».
«Nata?», ripeté il bambino, inarcando un sopracciglio.
«Nata», confermò Lael senior. «È una bella bambina. Complimenti, sei l’unico ometto a casa».
Lo prese in braccio, trascinandolo fino all’interno della barca, dove c’erano tutti: i suoi genitori, i parenti, una strana signora che lui non conosceva.
«Non voglio vederla», protestò debolmente, cercando di scendere. Non voleva vederla per davvero. L’idea di avere una sorellina gli faceva storcere il naso.
«Smettila di agitarti», lo ammonì Marcel, prendendolo dalle braccia del padre e posandogli un piccolo bacio sulla tempia. «È bellissima, guardala!»
La indicò e Lael seguì la traiettoria del suo dito indice. Sua madre era sdraiata su un piccolo materasso, con la schiena appoggiata alla parete. Tra le braccia teneva un fagottino bianco. Lo guardava, sorridendo felice. Lael sentì una punta di gelosia in fondo al suo animo. La mamma doveva guardare lui così, non quella cosa che teneva tra le braccia.
«Lael», lo chiamò Jillian, facendogli cenno con una mano di avvicinarsi a lei. Marcel lo posò a terra, per dargli una spintarella incoraggiante sulla schiena. Lael si morse il labbro inferiore, indeciso se andare o no.
«Su, vai», sussurrò suo padre. Il bambino camminò piano, sentendosi addosso gli sguardi dei presenti. Erano tutti felici e contenti per la nascita di sua sorella. Tutti tranne lui.
Arrivò vicino a Jillian dopo un tempo che gli parve lunghissimo. Sua madre gli carezzò i capelli castano chiaro, mentre lui osservava con curiosità la sua sorellina. Vedeva solo la sua faccia, poiché il resto era coperto da una salvietta bianca che fungeva da coperta. La bambina dormiva beata, con le guance arrossate e la sua piccola bocca semiaperta.
«Ti presento Serena», mormorò Jillian, stringendolo a sé con un braccio. «Ti assomiglia tanto, sai? Eri anche tu così quando sei nato».
Lael scosse la testa, contrariato. «Io non voglio che mi assomigli», sussurrò. Jillian fece una risata.
«Ti abituerai alla sua presenza, Lael. Sono sicura che andrete d’amore e d’accordo».


***
 
 
«Lael!»
L’undicenne si girò, e il fastidio che provava gli si poteva leggere in volto.
«Aspetta», mormorò al suo amico, mentre Serena correva verso di lui, con la cartella che le sbatteva sulle spalle e un gran sorriso in volto. Il maggiore dei due fratelli Lysoon sbuffò seccato, ficcandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.
«Dove vai?», chiese la bambina, ansimando, quando giunse accanto a Lael. Lo guardava incuriosita, con gli occhi verdi spalancati. Serena lo seguiva dovunque, quando andava in giro, e lui non perdeva occasione di lamentarsi con sua madre per tutto ciò. La donna, però, risolveva tutto con una risata e con un «Serena è piccola, è ovvio che vuole seguirti dovunque».
La gelosia che provava nei confronti della sorella non era poi mutata, nel corso degli anni. Tuttavia, si era reso conto che sua madre non aveva ragione, quando diceva che i due si assomigliavano. Già intorno al secondo compleanno della più piccola Lysoon, Lael si era reso conto che erano davvero differenti: Serena era molto più bassa, tanto che a sette anni ne dimostrava ancora cinque; i suoi capelli castani erano tendenti al rosso, caratteristica ereditata dalla nonna materna; infine, i suoi occhi erano verdi, mentre Lael li aveva scuri – proprio come suo nonno paterno.
Da piccolo si era reso conto di essere felice di tutto ciò. E anche crescendo, sfruttava quella cosa a suo vantaggio, negando di essere parente di Serena. Sapeva che era un comportamento meschino, ma si sentiva messo da parte, dopo l’arrivo della bambina.
«In giro», fu la sua secca risposta.
«Posso venire con te?»
«No!», esclamò, senza neanche darle il tempo di finire la frase. «Va’ a giocare con le tue amiche», ordinò, voltandosi verso il suo amico che lo aspettava. «Ci vediamo a casa».
Sulla schiena sentiva ancora lo sguardo accusatore della sorella, ma non ci badò, continuando a camminare.
 
Rientrò a casa qualche ora dopo, con i capelli umidi per il bagno fatto nel pomeriggio – il primo della stagione – e un gran sorriso stampato in volto. Era stato tutto il tempo con i suoi amici, giocando a calcio e nuotando. Aveva vinto tutte le gare improvvisate, stracciando persino Takumi – uno strano tipo dagli occhi a mandorla, da tutti ritenuto il più bravo nuotatore del Distretto 4. Si era guadagnato il suo rispetto e il rispetto di tutta la sua gang, e non poteva non esserne felice.
Nonostante il suo sorriso, però, sua madre lo accolse con gli occhi sbarrati dalla paura e le mani che tremavano.
«Hai visto Serena?», lo aggredì, non appena mise piede in casa. Il ragazzino fece un balzo indietro, spaventato dall’irruenza di Jillian.
«No, perché?»
Sua madre ignorò la domanda, mettendosi le mani tra i lunghi capelli biondi e ripetendo qualcosa sottovoce.
«Mamma?»
Lael si avvicinò a lei, posandole le mani sulle spalle. «Cos’è successo?», chiese, facendola girare verso di lui.
«Serena è scomparsa», rispose, e Lael ebbe l’impressione che qualcuno lo stesse prendendo a pugni.
 
Corse per tutto il Distretto 4, più veloce che poteva, con il vento che gli fischiava nelle orecchie e i capelli tutti spettinati. Era ormai un’ora che girovagava, cercando Serena in ogni angolo del distretto, chiamandola a gran voce, aiutato dai suoi genitori, dagli zii e da Nathaniel, il migliore amico di suo padre.
«Serena!», urlò un’ultima volta, girando su se stesso e osservando tutto ciò che aveva intorno. «Serena!»
Nessuna risposta. Nessun segno di vita.
Si sedette su uno scoglio, con la testa tra le mani. Serena non si trovava da nessuna parte. Era terrorizzato, Lael. Aveva paura che sua sorella fosse morta, inghiottita dal mare. L’aveva trattata malissimo per sette anni e forse Serena non c’era più.
Sentì un singhiozzo in arrivo e una lacrima scese lungo la sua gota. “Che idiota”, continuava a ripetersi. “Stupido, stupido idiota”.
«Lael?»
Una vocina che udì appena lo distrasse dai suoi pensieri, facendogli alzare di scatto la testa. Per un istante pensò di essersela sognata, ma poi quella ripeté: «Lael?»
«Serena!», chiamò, alzandosi in piedi.
«Sono qui», sussurrò la bambina, spuntando fuori. Si era rannicchiata in uno spazio tra gli scogli. Era molto stretto, l’ideale per una bambina. Corse verso di lei, sollevandola da terra e stringendola a sé. Si accorse che anche lei aveva gli occhi rossi di pianto.
«Cosa cavolo ti è saltato in mente?», disse, rimettendola a terra. Serena si morse il labbro inferiore, che aveva iniziato a tremare. Una lacrima iniziò a scorrere lungo la sua guancia, seguita da un’altra, finché la bambina non scoppiò in un pianto a dirotto e non iniziò a singhiozzare.
«Ehi, ehi, va tutto bene», mormorò Lael, abbassandosi e abbracciandola. «Sono qui, va tutto bene», ripeté, mentre la bambina gli cingeva il collo con le braccia. All’improvviso, Lael si sentì un mostro per tutte le volte che l’aveva trattata male. Serena era solo una bambina di sette anni, molto introversa e con un carattere abbastanza difficile. Aveva notato che a scuola stava solo in compagnia della sua amica Raissa, senza nessun altro. Sua sorella era sola, ma lui era stato cieco e non se n’era accorto per tutto quel tempo, preoccupato solo dal fatto che nessuno lo aveva più notato dopo l’arrivo della bambina.
«Perché sei venuta fin qua?», domandò, guardandola negli occhi. Serena abbassò lo sguardo, fissando le sue scarpe e affondando con la punta del piede nella sabbia soffice.
«Perché ero triste», rispose. «Tu mi tratti sempre male», aggiunse, asciugandosi il naso con una manina.
«Sere – Lael le alzò la testa, mettendole una mano sotto il mento – sono stato davvero cattivo, perdonami. Ma non devi venire qui a nasconderti. Mamma e papà sono preoccupatissimi, ti stanno cercando tutti».
Serena annuì, ancora con la faccia crucciata e gli occhi gonfi. Tirò su con il naso. «Andiamo a casa», disse sottovoce, incamminandosi. Lael la prese per mano, desideroso di sistemare un po’ le cose tra loro due.
La bambina lo guardò, sorpresa. Lui sorrise, stringendo ancora di più la sua mano. Serena ricambiò il sorriso, e Lael sentì che il cuore gli si riempiva di gioia.
 
 
 
Quel giorno, la maestra aveva deciso di portare tutti i bambini sulla spiaggia, vista la giornata ormai estiva. Inizialmente, Serena non era stata entusiasta di quella proposta. Piuttosto che andare in giro con i suoi compagni, preferiva andare all’Accademia ad allenarsi. Le insegnavano tante cose, lì, come tirare con l’arco e usare un tridente, anche se lei non ne capiva il perché, visto che aveva solo sette anni e sua madre non la faceva neanche avvicinare ad un coltello, a casa. E poi, lei non voleva stare insieme ai suoi compagni, perché non riusciva a parlare con nessuno di loro, a parte Raissa e Leo, gli unici simpatici.
Tuttavia, dopo qualche minuto, Serena aveva iniziato a divertirsi, raccogliendo quante conchiglie poteva e schizzando l’acqua addosso ai suoi amici.
«Guarda che bella conchiglia!», esclamò, abbassandosi per prenderne una che aveva notato sul basso fondale marino. Per poco non cadde in acqua, ma la maestra lì accanto a lei la sorresse.
«Attenta, Serena!», la mise in guardia la donna, ridendo. «So che tuo papà ti chiama sempre Sirenetta, ma non penso sia felice di vederti tornare a casa bagnata fradicia».
Serena arrossì, stringendo forte la conchiglia che era riuscita a prendere. Suo papà forse non si sarebbe arrabbiato, ma sua madre sicuramente avrebbe dato di matto, vedendo i suoi vestiti bagnati. Anche lei avrebbe ripetuto la stessa frase della maestra.
Suo padre la presentava così a tutti: la Sirenetta. La chiamava così da quando era piccola, un po’ perché il suo nome gli ricordava la parola sirena, un po’ perché la bambina aveva imparato a nuotare molto presto.
«Vediamo questa famosa conchiglia».
La maestra si abbassò e Serena aprì la mano, mostrandole ciò che aveva trovato. La luce del sole si rifletté sulla conchiglia, facendo assumere uno strano colorito ad essa. Era di uno strano colore azzurrino. Serena non ne aveva mai viste così, e pensò che fosse la più bella che avesse mai trovato. Andava assolutamente inserita nella sua collezione, che custodiva gelosamente nella sua cameretta.
«Sarebbe perfetta per farci una collana», suggerì la maestra, rialzandosi. «Conosco una signora che le sa fare. Quando torni a casa, passa alla pescheria del signor Collins e chiedi di sua moglie. Di’ che ti ho mandato io», concluse, prima di allontanarsi per andare a separare due bambini che si stavano azzuffando. Serena osservò ancora la sua conchiglia, pensando che sarebbe stato un peccato sprecarla per una collana.
Però, un’idea le balzò in testa e decise che dopo sarebbe andata dalla signora Collins. Voleva fare un regalo. Un regalo speciale per una persona speciale.
 
Lael chiuse gli occhi, sdraiato sul letto. Era stanco. Quel giorno, l’istruttore dell’Accademia aveva tartassato lui e i suoi compagni, facendoli lottare tutto il pomeriggio con il tridente.
«L’anno prossimo sarete estraibili per gli Hunger Games, è bene che vi alleniate sodo»: era questa la frase che ripeteva da tutto l’anno, mentre loro si ammazzavano sui tappetini. Gli Hunger Games erano il fulcro delle loro attività. Si allenavano anni e anni solo per quello, nella speranza che qualcuno si offrisse volontario. Lael si diceva che non l’avrebbe mai fatto. Non ci teneva a lasciare la sua casa per la gloria personale, né di apparire in televisione per morire. Si sentiva solo, ogni tanto, quando pensava quelle cose, e aveva voglia di gridarle al mondo, ma non poteva. Di tanto in tanto ne discuteva con Finnick, il figlio di uno dei pescatori che lavoravano sulla barca di Marcel, e anche lui la pensava come Lael. Lì in barca, con il rumore del motore e il chiacchiericcio dei pescatori, potevano parlarne indisturbati, senza che nessuno venisse a sapere nulla.
Qualcuno balzò sul letto, spaventandolo. Aprì gli occhi di scatto e fece un salto, per poi accorgersi che era solo sua sorella. Serena ridacchiò, guardando la reazione di Lael.
«Sei tu», mormorò, sdraiandosi di nuovo e lanciando un’occhiataccia a sua sorella. «Mi hai spaventato», ammise, passandosi le mani sul volto come a volerlo asciugare. «Perciò mi vendicherò!»
Balzò addosso a Serena, mettendole le mani sui fianchi e facendole il solletico. La bambina lanciò un urletto, mentre rideva a crepapelle.
«Dai! Ti ho portato un regalo!», esclamò, cercando di spostare le mani di suo fratello dai suoi fianchi. Lael aggrottò la fronte. Si sedette a gambe incrociate sul letto.
«Ah, sì?»
«Sì», confermò la piccola, mettendo una mano nella tasca dei suoi pantaloncini. Tirò fuori una collana e la porse a Lael. L’undicenne la prese, studiandola con fare sorpreso. Non era un gran gioiello: un semplice spago nero attaccato ad una conchiglia di uno strano colore azzurro. Però doveva ammettere che quest’ultima era veramente bellissima perché molto particolare.
«Davvero è per me?», domandò, avvicinando la conchiglia agli occhi e osservandola ancora più attentamente. La bambina annuì, sistemandosi la lunga coda di cavallo in cui era solita acconciare i capelli.
«Tutta tua. Ti piace?»
Lael annuì. «Grazie, sorellina», disse, mettendosi il nuovo regalo al collo. «È bellissima».
Scompigliò i capelli della piccola, dandole un bacio sulla guancia. «Ti voglio tanto bene, Sirenetta», aggiunse sottovoce, appoggiando la sua fronte a quella della sorella. E in quel momento, Lael capì di avergliene voluto per tutti quegli anni, anche se quell’affetto era rimasto sopito nel profondo del suo animo.
 
***
 
« Hey brother, there’s an endless road to be discovered.
Hey sister, know the water’s sweet but blood is thicker.
Oh, if the sky comes falling down, for you
There’s nothing in this world I wouldn’t do »
 
Lael si passò una mano tra i corti capelli castani, spettinandoli in una maniera che sua madre non avrebbe approvato. Sospirò, poggiando la penna sul foglio e riguardando con aria impotente tutti i numeri che vi erano riportati sopra. Da quando suo padre era stato arrestato, gli affari non andavano affatto bene, a lui e agli altri pescatori della Jillian. Se solo Marcel fosse stato ancora lì, avrebbe saputo cosa fare, lo avrebbe aiutato. Invece, Lael era rimasto da solo a capo del peschereccio. Aveva solo diciotto anni e poca esperienza in merito. Fortunatamente, Nathaniel lo aiutava come poteva, anche se lui era rimasto scosso dopo il nefasto evento.
Il giovane lanciò un’occhiata nervosa alla porta d’entrata. Fuori era già buio. Il sole era già tramontato da ormai alcune ore. Jillian era andata a dormire, stremata dopo una giornata passata a cucire. Serena non si vedeva da qualche ora. Se n’era andata in giro, senza dire nulla né a Lael né a sua madre.
Era così da quando Marcel era stato arrestato. Serena si era chiusa ancora di più in se stessa, frapponendo una corazza tra lei e il mondo esterno. Stava perlopiù da sola sugli scogli, ogni tanto girovagava con i suoi amici Dave, Raissa e Leo. Ma era raro vederla sorridere persino con loro e Lael ci soffriva tanto.
Era anche arrabbiato con sua sorella, perché non dava segni di volersi riprendere. A Lael mancava la sua sorellina, la ragazza dal carattere lunatico, ma che sapeva renderlo felice. Non sopportava di vederla triste.
La porta si aprì piano. Serena fece il suo ingresso, guardandosi intorno con aria guardinga, conscia di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Lael si alzò dalla sedia.
«Buonasera», esordì, incrociando le braccia al petto e guardandola nel modo più serio possibile. La ragazza abbassò lo sguardo, grattandosi una guancia.
«Ciao», rispose, facendo per andarsene nella sua camera.
«Dove sei stata?», la bloccò Lael. Serena si fermò in mezzo al corridoio, per girarsi verso suo fratello. Lo guardò con espressione impassibile, quasi di sfida.
«In spiaggia», lo informò, fredda, trapassandolo da parte a parte con lo sguardo.
«Bene. Con chi?»
La ragazza alzò gli occhi al cielo, facendo cadere le braccia lungo i fianchi. «Con chi vuoi che sia stata?»
«Con Dave?»
«Esatto».
Rimasero in silenzio per un istante, fissandosi negli occhi, chiaro contro scuro, verde contro marrone. Serena era più piccola di lui, sia di età che di altezza, ma Lael si sentì piccolo, in quel momento, con i suoi occhi piantati addosso.
«Non mi va che tu stia in giro così a lungo con un ragazzo».
«E a me non va quando tu mi rompi le palle in questo modo», ribatté Serena, visibilmente arrabbiata.
«Non ti rompo le palle e tu lo sai». Lael si avvicinò a lei, ma la ragazza indietreggiò, mettendosi a braccia conserte.
«Questo lo dici tu. Non mi lasci nemmeno respirare, da quando…», si fermò, distogliendo lo sguardo. Erano passati già tre mesi, ma nessuno era ancora in grado di dire cos’era successo quella sera. La ferita era ancora aperta e pensarci non faceva che alimentare il dolore, come se qualcuno vi gettasse del sale. Bruciava, faceva male, e ci metteva parecchio a passare.
«Devo proteggerti, ora che non c’è più papà», mormorò il ragazzo, grattandosi la nuca.
«Ma tu non sei papà e io so badare a me stessa!», sbottò la ragazza. «Quindi, smettila di starmi addosso perché tu non sei papà e non puoi rimpiazzarlo, d’accordo?»
«E cosa dovrei fare, eh?», gridò Lael di rimando, sentendo la rabbia che prendeva possesso del suo corpo. Odiava quando Serena si comportava in quel modo, non sopportava quando faceva l’insolente. «Ti devo forse lasciar andare in giro con un ragazzo che neanche conosco, oltretutto più grande di te?»
«Ha solo un anno più di me», puntualizzò Serena. «Ed è il mio migliore amico, non puoi impedirmi di vederlo! Papà non avrebbe fatto tante storie!», urlò, puntandogli un dito contro.
«Lo so, ma ti ricordo che papà non è qui e forse non tornerà più! Lo sai che fine fanno quelli che vengono arrestati. Mi fai incazzare quando ti comporti così, sei l’unica che non vuole saperne di reagire!», ribatté Lael, sputando fuori tutto ciò che non era riuscito a dirle in quei giorni. Serena abbassò la testa, mordendosi l’interno della guancia.
«Se papà fosse stato qui in questo momento», cominciò, per poi fermarsi un attimo e deglutire, «avrebbe risolto tutto questo casino con una battuta», finì, stringendosi le braccia attorno al corpo, come a volersi dare un abbraccio da sola. «Mi manca», aggiunse, con la voce rotta dal pianto.
Lael finalmente la vide com’era davvero: una ragazzina di appena quattordici anni, spaventata a morte. Sentì rinascere in lui i sentimenti provati qualche anno prima, quando non riusciva più a trovarla e aveva dovuto cercarla in tutto il distretto.
Si avvicinò, stringendola forte a sé. Serena iniziò a singhiozzare, aggrappandosi alla sua schiena e affondando il viso nel suo petto.
«Manca anche a me», mormorò Lael, posandole un bacio sui capelli spettinati. «Ma lui vorrebbe che noi fossimo uniti, in bene e in male».
La ragazza tirò su con il naso. «Ho paura, Lael», mugolò.
«Anche io. Ma andrà tutto bene. Ce la caveremo. Io e te siamo forti insieme. E se ci aggiungiamo anche la mamma, siamo proprio una squadra imbattibile».
“Cadesse il cielo, ma io ti proteggerò sempre, sorellina”, pensò, prima di darle un altro piccolo bacio.
 
***
 
« What if I’m far from home?
Oh, brother, I will hear you call.
What if I lose it all?
Oh, sister, I will help you back home.
Oh, if the sky comes falling down, for you
There’s nothing in this world I wouldn’t do »
 
Lael fissava in maniera quasi maniacale lo schermo del piccolo televisore che avevano in salotto. La sua stessa posizione tradiva l’agitazione che provava in quel momento: era seduto proprio sull’orlo del divano, con i gomiti appoggiati sulle cosce e le mani sulle guance. Il busto era sporto in fuori, verso la televisione, come se volesse balzarvi dentro e raggiungere sua sorella.
Era già da trenta minuti buoni che non trasmettevano le immagini di Serena, concentrandosi invece sul ragazzo del Distretto 2 che camminava tra le macerie di un villaggio distrutto. Lo prese come un buon segno: se non facevano vedere Serena, significava che lei stava bene ed era viva. Di solito, trasmettevano solamente le immagini più interessanti e cruente. Quel giorno, però, non era successo nulla di particolare. Nella precedente giornata erano morte due ragazze, una Favorita e una ragazza dai capelli bianchi – Lael ricordava il suo distretto, il settimo.
«Sembra che Edgar King non riesca a trovare nulla di interessante». La voce di Caesar Flickerman distrasse per un istante Lael dallo strano mondo in cui si era rinchiuso per un attimo. «Quindi, vediamo cosa sta succedendo all’unica femmina rimasta ancora in vita. Ha la pellaccia dura, la nostra Sirenetta!», esclamò il presentatore, con un sorriso a trentadue denti. Lael rivolse uno sguardo arrabbiato alla televisione. Si erano presi tutti la briga di chiamarla così, Sirenetta. Loro, però, non potevano. Non potevano chiamarla con il soprannome datole dal padre quando era ancora bambina; non dovevano azzardarsi a chiamarla come l’appellava Lael. Era una cosa esclusiva della famiglia Lysoon e i capitolini non dovevano intromettersi.
«Sembra che sia immersa nel suo elemento preferito», commentò Caesar, mentre le immagini di Serena che nuotava fino alla riva di un’isola venivano trasmesse. «Un altro terremoto. Sembra che qualcuno voglia far incontrare la nostra giovane Sirenetta con Edgar, a giudicare dall’isola in cui è appena approdata», continuò Flickerman.
Lael si sporse ancora di più verso la televisione, spaventato dalla piega che avevano preso gli eventi e mormorando un «no» sottovoce.
Accadde tutto in pochi istanti. Serena incontrò Edgar e il loro scontro ebbe inizio. La ragazza se la cavava bene, ma non riusciva a star dietro alla forza del suo avversario.
«Dai, Sere. Dai, resisti, resisti». Jillian continuava a mormorare queste parole sottovoce, con gli occhi incollati alla televisione. Aveva le mani giunte, come se stesse pregando.
Lael non era messo meglio. Osservava lo scontro, impotente, mentre sua sorella soccombeva sotto gli attacchi di Edgar.
Non riusciva più a guardare. Non voleva vedere sua sorella morire, in preda ad atroci dolori, trafitta dalla spada del ragazzo del Due. Serena doveva tornare a casa, sana e salva, tornare da lui. Si era ripromesso che l’avrebbe salvata in ogni caso, ma si accorse di quanto quella promessa fosse stata inutile. Serena stava per morire – doveva ammetterlo a se stesso – e lui non poteva far nulla. Allungò una mano verso lo schermo, proprio nel momento in cui la  lama incontrava lo stomaco di sua sorella, imprimendovi una lunga linea rossa.
 
Serena era stremata. Sebbene la crema avesse fatto effetto e la ferita si stesse rapidamente rimarginando, non si sentiva bene. Non era una cosa fisica – forse solo in parte, visto il combattimento – ma mentale. Aveva in ancora in testa l’immagine di Alex e del suo corpo trafitto dalla spada di Edgar. Non riusciva a pensare all’hovercraft che raccoglieva il suo cadavere perché faceva troppo male. Era mai possibile, tutto ciò? Era davvero così facile morire? Un minuto prima, Alex era vivo. Poi, era diventato cibo per i vermi. Ed era morto per salvare lei. La sua giustificazione era stata quella di aver rivisto per un istante sua sorella.
Mareike.
Serena si prese la testa tra le mani. Mareike aveva solo sette anni, era malata e suo fratello – andato agli Hunger Games per salvarla – era appena morto. Per un istante, Serena si mise nei suoi panni. Immaginò che ci fosse Lael al posto della piccola Turvic, Lael che guardava impotente la televisione mentre lei moriva.
Le mancava suo fratello. Le mancavano gli abbracci stritola-costole che le dava sempre, il suo sorriso, vederlo pescare con quell’aria fiera e ormai matura, dopo che suo padre era stato arrestato.
Serena era ormai ad un passo dalla vittoria. Erano rimasti in due nell’Arena, e lei avrebbe potuto uscirne indenne e tornare da Lael, sua madre e i suoi amici. Doveva rimettere piede al Distretto 4 e denunciare tutto ciò che era successo a suo padre, raccontare la verità riguardante la sua estrazione per gli Hunger Games. Doveva tornare per Lael e per sua madre, perché non avrebbero sopportato un’altra perdita. Dave, Issy e Leo sarebbero sopravvissuti. Ci sarebbero stati male, certo, ma dopo qualche anno le loro vite sarebbero andate avanti. Ma suo fratello e sua madre non ce l’avrebbero fatta. Erano stati forti per tanto, troppo tempo.
“Cascasse il cielo, io tornerò a casa”, pensò, e per un istante immaginò di sentire la voce di suo fratello che la chiamava. 

Paola's corner

Hallo! Rieccomi, potete pure trucidarmi nel peggior modo che conoscete (?)
Oh, insomma, ho una lista lunga 3489 km con delle storie che voglio scrivere e la sto sfoltendo. Devo farlo perché ho due long in corso, in più sto organizzando un'interattiva e un'altra long. E poi, voglio scrivere! Non voglio studiare! 
Comunque, Lael e Serena sono due miei OC, personaggi della long Hurricane of fire. Ho scritto questa shot per approfondire il loro rapporto e per parlare di Lael perché gli ho dedicato troppo poco spazio nella long. 
E niente, sono due pazzi. Ah, poi Lael è stato scelto per partecipare agli Hunger Games a dodici anni, ma è stato sostituito da un volontario. Serena ha partecipato alla settantatreesima edizione per motivi che non spiego. Sono spiegati nella long e ho poco tempo, quindi non ho voglia di scrivere. xD
Che dire, il nome Takumi mi è venuto fuori ad cazzum. Non so, stavo pensando ad uno dei personaggi di Cercando Alaska. Ah, le parti in corsivo sono tratte dalla canzone Hey Brother di Avicii.
Scappo perché devo lavarmi!
Un baciotto,
Paola. 
   
 
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