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Autore: caleidoscopio    07/06/2014    10 recensioni
“Mi chiamo Jenny, e…”, sto per ripetere la mia presentazione standard, quando una voce femminile dall’altro lato mi precede. Sembra lontana, quindi capisco che non sta parlando direttamente dentro la cornetta, ma probabilmente a quello che la sta tenendo in mano. Capto solo qualche parola del discorso, “stanza”, “disordine”, “disastro”.
“Scusa, puoi aspettare un istante?” dice poi la voce, quella che aveva risposto per prima.
Grandioso, pure quando voglio suicidarmi mi mettono in attesa.
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Closer to the Edge.
 
 











Parlare non è per niente facile, quando hai voglia di ammazzarti. Un pensiero così sovrasta qualsiasi altra cosa e non si tratta di un disturbo mentale: è una cosa fisica, vale a dire che è fisicamente impossibile aprire la bocca e far uscire le parole. Non vengono fuori lisce e collegate al cervello come succede alle persone normali: escono a pezzi, neanche venissero fuori dal dispenser del ghiaccio tritato del frigorifero, e tu ci incespichi sopra man mano che ti si raccolgono dietro al labbro inferiore. Perciò stai zitto.
Semplicemente questo: stai zitto e lasci che la vita ti scorra accanto, senza intervenire in nessun modo per cambiarla, in meglio o in peggio che sia. Oppure la finisci, alla svelta, e ti togli il pensiero.
Ed è per questo che sto camminando da esattamente trentacinque minuti avanti e indietro per il salotto di casa mia, in uno strano moto ciclico tenuto sotto stretta sorveglianza dal mio Labrador Retriever, Max, accucciato davanti alla porta della cucina con gli occhioni languidi che mi scrutano perplessi.
Cammino fino al portone di casa, penso di essere abbastanza forte, so che all’esterno troverò la mia bicicletta più-o-meno nuova blu, che dovrò salirci e pedalare velocemente fino al ponte di Brooklyn, fino al punto più alto, quello dove il vento tira più forte e da cui, di notte, si gode della migliore vista sulla costa illuminata di Manhattan. So che mentre pedalerò non penserò a nulla, che il vento mi scompiglierà i capelli neri e li renderà uno schifo più di quanto già non siano, so che l’aria gelata di dicembre mi fischierà nelle orecchie e mi darà un fastidio del cacchio, ma alla fine chissene frega, io starò andando ad ammazzarmi, quindi.
Ma appena arrivo a sfiorare il pomello della porta, tutto ciò che riesco a fare è tornare indietro, sui miei precedenti passi, come se la maniglia scottasse, o come se dal nulla fosse apparsa una gigantesca bocca che con tono da capitano mi stesse urlando: “Soldato, che accidenti stai combinando!?”
E questo processo va avanti da ormai troppo tempo. Voglio uccidermi ma non voglio uccidermi.
Che scelgo?
Vorrei anche mangiare, ma il mio stomaco me lo impedisce. Non mangio da diciannove ore e la cosa incredibile è che le ho pure contate, le ore.
Vorrei mangiare, ma so che, se mi concedessi questo lusso, il mio intero organismo me la farebbe pagare alla svelta. Come se in fondo al mio stomaco ci fosse un piccolo omino che regola ciò che può entrare o meno nella mia pancia. Quello che secondo lui non può starci, viene rigettato in meno di quindici secondi. E quello che non ci può stare ormai include più o meno ogni cosa commestibile sulla faccia della Terra. A parte lo yoghurt al caffè, e io sono stufa marcia dello yoghurt al caffè.
Quindi non mangio, ecco, ma alla fine chissene frega!? Io sto andando a farla finita.
Quindi è così, soldato? Siamo al capolinea?
Sembra proprio di sì.
Non è una sensazione così brutta come sembra. Ad un certo punto, per la prima volta in tutta la mia vita, sembra che io possa scegliere autonomamente le mie azioni. Come se la mia vita fosse un vaso di ceramica, e io potessi scegliere se buttarlo per terra e farlo andare in mille pezzi, se poggiarlo sul mobile e abbandonarlo al suo destino polveroso, o riempirlo d’acqua e farlo diventare la nuova abitazione di, che so, un fiore, una rosa, una margherita. Io amo le margherite. Sono semplici, ma belle, e sono facili da riconoscere. Le margherite sono i fiori più semplici del mondo, persino un bambino le saprebbe riconoscere. Perché la vita non può essere semplice come una margherita?
Soldato, non ti distrarre, hai preso una decisione.
Giusto, ho preso una decisione, e voglio portarla a termine. La decisione, e anche la vita.
Butterò il vaso di ceramica giù dal ponte di Brooklyn.
Mi avvicino ancora alla porta d’ingresso. Poggio la mano sulla maniglia e la stringo forte. Il cuore accelera, come se avesse già capito che qui qualcosa non quadra e stesse cercando di battere quanti più colpi riesce tutti in una volta.
Badabum, badabum, badabum.
Lo sento, il mio cuore. Lo sento nel petto, nelle orecchie; sento la vena del polso che mi batte sulla manica del magione, e sento il respiro accelerato e la mano trema, che scivola giù dal pomello e va a riprendere il suo posto lungo il fianco.
Sbuffo e torno indietro. Max alza il testone e mi guarda con la lingua a penzoloni.
“Bel casino, eh?” lo apostrofo, poggiandomi una mano sul fianco.
Lui ruota la testa di lato e abbaia una volta, cosa che può voler dire solo: “che vuoi che me ne importi, sono un cane. Portami un biscotto quando hai finito di passeggiare per il corridoio”.
Ho sempre pensato che quel cane mi odiasse. Non che la cosa non fosse reciproca, anzi, ma è una cosa buffa, se ci pensate. Riesco a far provare sentimenti negativi verso di me persino a esseri che, generalmente, non dovrebbero provare sentimenti.
Bel colpo, davvero.
Quando mi giro per l’ennesima volta, invece di tornare davanti alla porta e guardarla con aria minacciosa, mi butto sul divano. Guardo il soffitto. È una cosa che faccio spesso, ultimamente.
Guardo il soffitto, ma non lo guardo per davvero. Davanti agli occhi mi passano milioni di flash di immagini della mia insulsa vita. Se vogliamo proprio dare loro un nome, possiamo catalogarli come: “Motivi validi per suicidarsi”.
Non sono sempre stata così. Ricordo che lo scorso autunno ero la persona più esuberante che conoscevo. Ero io il filo conduttore che tirava avanti il mio modesto gruppetto di amici, ero io che cucinavo alla sera, quando mia madre rincasava stanca dal lavoro e mi chiedeva come fosse andata a scuola e io le rispondevo: “Bene!”. Perché “bene” era andata per davvero.
Poi il mio inutile cervelletto aveva smesso di funzionare correttamente, mandando tutto a puttane, e da allora  a mia madre continuavo a rispondere “bene”, ma “bene” non era andato un cazzo di niente.
Ok, soldato, la tua esistenza è leggermente pessima. Che si fa?
Persino la mia vocetta interiore è terribilmente irritante.
Mi alzo ancora in piedi, ma non vado verso la porta. Punto verso il mobile nell’angolo e afferro il telefono con una mano, mentre con l’altra accarezzo la superficie liscia e pulita del legno di noce, facendo lo slalom con le dita tra i soprammobili e le foto accuratamente incorniciate. Foto mie, per la maggior parte. Foto di me al mare, foto di me con un vestito elegante addosso, foto di me con il mio diploma del corso di sci quando avevo otto anni…
Schiaccio numeri a caso sulla tastiera del telefono e premo decisa il tasto verde, prima di portarmelo all’orecchio.
Uno squillo.
Che stai facendo, soldato?
Due squilli.
Non lo so cosa sto facendo. Faccio passare il tempo.
Tre squilli.
“Pronto?” risponde una voce femminile, leggermente gracidante e tendente allo scocciato.
“Voglio suicidarmi” butto lì.
“Chi parla?”
Tossicchio. “Mi chiamo Jenny e voglio ammazzarmi. Cioè, voglio farlo, ma allo stesso tempo ho paura. Mi spiego? Lei che mi consiglia di fare?”
Il segnale viene interrotto. Tututu.
Bene, sai che mi importa.
Digito altri numeri sulla tastiera e aspetto. Questa volta, prima che una voce maschile e soffocata risponda, passano otto squilli.
“Buongiorno, come sta?” esordisco questa volta.
“Chi è?”
“Mi chiamo Jenny.”
“Non voglio comprare niente…”
“Oh, no, niente del genere. È che sono indecisa se farla finita con la mia stupida vita o vivere un altro giorno e vedere se migliora. Lei dice che migliora? Pronto?”
Di nuovo la linea cade, e io rimango ad ascoltare per qualche attimo il vuoto dall’altra parte della linea.
E sarà sempre così, mi dico. Sarà sempre con questo assoluto, totale e onnipresente vuoto che avrai a che fare. Il vuoto sarà il tuo unico amico, perché questo è tutto ciò che ti meriti.
Sto per posare il telefono sul mobile, ma poi sbuffo, e opto per un ultimo tentativo.
Stesso procedimento.
Numeri. Tasto verde. Attesa.
Squilli. Tre squilli. Tanti squilli. Troppi squilli.
“Pronto?”, una voce, infine.
“Ciao” rispondo.
“Chi è?”
“Mi chiamo Jenny, e…”, sto per ripetere la mia presentazione standard, quando una voce femminile dall’altro lato mi precede. Sembra lontana, quindi capisco che non sta parlando direttamente dentro la cornetta, ma probabilmente a quello che la sta tenendo in mano. Capto solo qualche parola del discorso, “stanza”, “disordine”, “disastro”.
“Scusa, puoi aspettare un istante?” dice poi la voce, quella che aveva risposto per prima.
Grandioso, pure quando voglio suicidarmi mi mettono in attesa.
Dall’altra parte della linea sento delle urla, una porta che sbatte, altre urla e una serie di colpi, orribilmente simili a quelli di una pistola. Oh, cielo. Sto assistendo telefonicamente ad un omicidio?
Poi la voce iniziale riprende: “Scusa, mia madre è leggermente suscettibile.”.
Deglutisco. “E… E l’hai ammazzata?”
“Come?”
“Ho sentito dei colpi. Hai sparato a tua madre?”, Dio, che conversazione assurda.
“No! Oh, Dio, certo che no! Mi era solo caduto il telefono.”
Oh, bene. Tiro un sospiro di sollievo.
“In ogni caso, chi sei?”
Oh, giusto. “Mi chiamo Jenny.”
“Ci conosciamo?”
“No.”
Intuisco la sua perplessità e mi affretto ad aggiungere: “Ho chiamato un numero a caso perché mi serve un consiglio.”
“Oh. Cosa molto strana da fare.”
È una voce maschile. Ed è bella. La definirei “musicale”, anche attraverso la linea telefonica.
“Tu come ti chiami?”
Lui esita un attimo. “Luke” risponde piano, probabilmente indeciso se riattaccare semplicemente o aspettare e vedere che succede. “Che consiglio ti serve?”
Sospiro. “Stamattina mi sono svegliata in modo strano.”
“Strano come?”
“Stavo facendo un sogno. Non ricordo cosa, ma quando mi sono svegliata ho avuto la spaventosa certezza di essere sveglia. Come se mi fosse arrivata una mattonata in pancia.”
“Una mattonata in pancia?”
“Sì. E non volevo svegliarmi, perché stavo meglio nel sogno. Che è una cosa davvero patetica. Era come un incubo al contrario, hai presente? Come quando uno si sveglia da un incubo e si sente sollevato. Io, invece, mi sono svegliata dentro l’incubo.”
“E che incubo sarebbe?”
“La vita.”
“La vita è un incubo?”
“Esatto.”
Un attimo di silenzio. Momento cosmico, immagino. La vita è davvero un incubo?
Ci serve qualche istante per rifletterci.
Poi è Luke a parlare: “E cosa hai fatto quando ti sei resa conto di essere sveglia?”
“Sono rimasta a letto”, scrollo le spalle, anche se lui non può vedermi. “Fino a quando non mi sono resa conto di essere in ritardo e mi sono alzata in fretta.”
“Quindi la vita è un incubo e…?” mi sprona.
“E io non voglio vivere in un incubo, capisci? Che senso avrebbe vivere in un posto dove non si è mai felici e dove tutto è così… così difficile?”
“E quindi?”
Sbuffo. “E quindi niente.”
“Vuoi… cioè,  ammazzarti?”
“L’idea sarebbe quella.”
Silenzio. Per un attimo temo che possa aver attaccato. Ma poi la sua voce riprende: “Non pensi che varrebbe la pena aspettare? Quanti anni hai?”
“Diciassette.”
“Anch’io” ridacchia. “Dicevo, cosa ne sai se domani la tua vita non migliorerà se non sarai lì per verificarlo?”
“E se poi va peggio?”
“Ma se invece va molto meglio?”
“Difficile.”
“Non è detto.”
Sbuffo sonoramente. Mi viene da piangere, ma non importa. “Lo vedi? È tutto un ‘se’. Se andrà meglio, se andrà peggio. Solo che le probabilità che tutto vada peggio sono decisamente superiori alle altre. E io sono già stufa marcia delle cose che vanno male, e ho solo diciassette anni.”
“Posso farti una domanda, Jenny?”
Annuisco. Poi mi rendo conto che lui non è davvero qui, che non può vedermi, quindi mi affretto a rispondere: “Certo.”
“Se sei così decisa a ucciderti, perché mi hai chiamato?”
“Non avevo davvero intenzione di chiamare te” preciso.
“Lo so. Ma hai capito cosa intendo.”
Mi mordicchio il labbro inferiore. “Perché c’è qualcosa che mi blocca. Voglio farla finita, ma allo stesso tempo... penso di avere paura.”
“Paura?”
“Sì. Ma è ridicolo, non trovi? Ho sempre pensato di avere più paura di vivere che di morire. Ma adesso mi trovo nella situazione di aver paura sia di morire che di vivere. E allora cosa faccio?”
“Davvero vuoi lasciare che sia uno sconosciuto a dirti se vivere o morire?”
Alzo le spalle. “Non è che io mi conosca così bene da non potermi ritenere una ‘sconosciuta’. Capisci? Anch’io a volte mi sento tanto una sconosciuta nei confronti di me stessa. Quindi non è che cambi molto.”
Luke sospira. “Jenny, ti rendi conto di quanto assurda sia questa conversazione?”
“Un po’.”
“Non ti uccidere, Jenny, non ne varrebbe la pena.”
Sospiro, con una gran voglia di piangere. Ma non devo farlo, non ancora.
Mi rendo conto di aver finito le parole. Resto in ascolto per qualche attimo. Dall’altra parte, oltre al silenzio frammentato dai respiri di Luke, riesco ad ascoltare anche qualcos’altro. “Stai guardando la tv?” chiedo di punto in bianco.
“Sì. Un film.”
“Che film?”
“Il Signore degli Anelli” risponde, “ti piace?”
Sorrido, scuotendo la testa. “In realtà no. Il mio ex ragazzo diceva sempre che se un uomo mette il primo gioiello, poi non torna più indietro.”
Luke ride. “E che cavolo centra!?”
“Non lo so, ma basare un’intera storia su uomini che mettono anelli mi è sempre sembrata una cosa strana.”
Sento la sua risata dall’altro capo della linea. “Tu sei una ragazza stranissima.”
“In che senso?”
“Scusa. Forse dire a una ragazza che si vuole uccidere che è ‘stranissima’ non è esattamente una genialata. Ma io lo intendevo in senso positivo.”
Sorrido. “Quindi sono strana ma nel senso buono del termine?”
“Esatto.”
Ci penso un attimo. Mi ero mai accorta di essere ‘stranissima’? No, non credo. Nessuno me l’aveva mai detto.
“Grazie” rispondo.
“Allora, cosa farai, Jenny?”
Sospiro, chiudendo gli occhi. Buio. Sono pronta ad essere immersa nel totale e assoluto buio? Ma, in un certo senso, non lo sono già?
“Non lo so” rispondo affranta. Sposto il telefono da un orecchio all’altro e mi strofino gli occhi chiusi con una mano.
“Io ti posso solo dire che non puoi morire senza aver mai visto ‘Il Signore degli Anelli’.”
“Giusto” rispondo, ridacchiando.
“Di dove sei, Jenny?”
“Brooklyn” replico, “e tu?”
“Pasadena.”
“In California?”
“Già.”
“Oh.” Un bel po’ di chilometri. “Magari un giorno ci incontreremo” dico, sorridendo.
E mi immagino anche Luke che sorride, anche se non ho idea di come sia fatto, se sia bello o brutto, castano o biondo, magro o cicciottello, so che il suo sorriso deve comunque essere stupendo. Lo deve essere, per forza.
“Magari sì, un giorno. Dipende da te.”
Ed è assurdo, ma sento il nodo che mi lega lo stomaco slegarsi appena.
“Grazie Luke” sussurro, prima di riattaccare.
Mi tolgo la giacca e la riaggancio all’appendiabiti all’ingresso. Max dorme profondamente e io cerco di non svegliarlo, passandogli lentamente accanto.
Vado in camera e mi ripeto che sto bene, che andrà tutto per il meglio. Che fino a domani si può ancora andare avanti. Ed è proprio in quella direzione che voglio andare: avanti.
Soldato?
Sì?
Felice di averti ancora a bordo.
 
 



 
OLLÈ
Era un secolo che non pubblicavo una one shot AHAH
Non so cosa dire a dir la verità. È una storiella decisamente  veloce, che si conclude con questo finale aperto, così ognuno può pensare a come andrà a finire la storia di Jenny.
Mi sono un po’ ispirata al libro “Mi ammazzo, per il resto tutto ok” di Ned Vizzini (il titolo originale sarebbe “It’s Kind of a Funny Story”) che sto leggendo adesso, e niente, mi sono immaginata questa piccola scenetta e ho voluto metterla per iscritto (:
Il titolo è una canzone dei 30 Seconds to Mars (che novitààà), che vi consiglio di ascoltare perché io la adoro. Accidenti, io amo tutte le canzoni dei Mars, in effetti.
Bene, dopo questo inutile blateramento posso anche andarmene (:
Spero che abbiate voglia di lasciarmi una piccola recensione, perché so già che un secondo dopo averla pubblicata, mi verrà subito voglia di eliminarla, questa storia, per pura e semplice paura D:
Insomma, ditemi cosa ne pensate (: Se avete voglia…
Ok, me ne vado.
A presto allora (:
Caleido.


 
  
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