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Autore: ilovebooks3    10/06/2014    0 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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“I should go to the airport” (P. Jane)
 
Un po’ di alcool è tutto quello di cui ho bisogno.
Adoro i frigobar delle camere di albergo. Sono così pittoreschi. E utili, in momenti come questo.
Afferro un paio di bottigliette di liquori, sono piccole e invitanti; troppo piccole, forse.
Accendo la tv e sprofondo nella poltrona. Stanno trasmettendo delle immagini di tramonti paradisiaci sull’oceano. Scene che mi ricordano qualcosa che è successo tanto tempo fa e di cui non vado fiero. Qualcosa che, comunque, rifarei mille volte. Le avevo salvato la vita. Certo, le avevo mentito. Ma tutti mentono; e la sincerità è sopravvalutata.
Vorrei spegnere la televisione con i suoi paesaggi irritanti, ma non ho voglia di alzarmi.
Fingerò che non esista. Come ho fatto con mille altre cose.
Lisbon adesso sarà su un aereo; tra poche ore sarà tra le braccia di Pike. Un uomo ottuso che non la merita.
Anzi no. Un brav’uomo che non la farà soffrire. Cosa che, invece, io ho fatto troppe volte. Urrà. Dovrei essere felice per lei. Invece una sensazione estremamente sgradevole mi attraversa il corpo.
Le ultime parole che mi aveva detto, così giuste e così ingiuste, continuano a rimbombarmi nelle orecchie. Temo che mi perseguiteranno per molto tempo. Dovrò imparare a conviverci. Come ho fatto per anni, con cose ben peggiori. Ma ad aiutarmi c’era sempre stata lei.
Basta pensare a Lisbon! Ha fatto la sua scelta e la cosa non mi riguarda. Non più.
D’altronde, ho sempre detto che si meritava di trovare amore e felicità; gliel’ho sempre augurato sinceramente.
Cosa è cambiato? Cosa mi prende ora? Anzi, cosa mi è preso da qualche tempo a questa parte?
Ok, è la mia partner, è l’unica vera amica che ho e mi mancherà, ma non posso pretendere che Lisbon non desideri farsi una vita sua. Se la merita. Si merita tutto il bene del mondo. E io dovrei esserne contento.
Una volta avevo detto che quando lei è infelice, io sono meno felice. Dovrebbe valere anche il contrario. E infatti è così.
Allora perché sto così male che vorrei urlare? E dov’è finito il razionale mentalista che non ama mostrare le sue emozioni nemmeno a se stesso? Patetico. Non mi riconosco più.
Ma posso rimediare. Mi rimetto la mia maschera preferita, quella di indifferenza verso il mondo, e bevo un sorso di rhum.
Va meglio.
O forse no.
Provo con un altro sorso.
Non la rivedrò mai più.
Vorrei poterla abbracciare. Sono sempre stati buffi i nostri abbracci. Ero sempre io ad abbracciarla, spesso con un secondo fine: che poteva essere rubarle qualcosa, chiederle scusa o impietosirla.
Poi, però, quando la toccavo cambiava tutto.
Quello che era nato come un trucchetto dei miei si trasformava in un abbraccio vero, e io mi sentivo bene. Il suo corpo, all’inizio, era sempre un po’ rigido, tra l’imbarazzo e la diffidenza. Dopo qualche secondo, però, le sue difese calavano e i suoi muscoli si rilassavano. Quando vuole, e spesso non vuole, Lisbon sa essere molto dolce. A modo suo.
Non mi sono mai chiesto perché abbracciarla e sentire il suo profumo di shampoo alla fragola fosse così piacevole.
Non mi sono mai chiesto se abbracciarmi facesse anche a lei uno strano effetto. Ora non importa più.
Non importa neanche che non la vedrò mai più sorridere.
E’ così bella quando sorride. Anche quando non vorrebbe. Tipo quando ne combino una delle mie e lei mi rimprovera ma, in realtà, vorrebbe solo riderne. Pensa che io non lo sappia.
Una volta, quando avevo perso la vista, l’avevo accarezzata per sentire il suo viso mentre sorrideva. Una sensazione strana. Piacevole. Vorrei farlo ora. Vorrei chiederle di perdonarmi e di sorridere.
Invece non ci siamo nemmeno detti addio. E non le ho mai detto quanto è importante per me. Senza trucchetti manipolatori, intendo.
La mia mente corre a tutte le volte che ho rischiato di perderla.
Come quando era attaccata a una bomba; ok, avevo detto che era una donna dinamitica, ma non intendevo in quel senso. Io cercavo di tranquillizzare lei e me stesso con le solite frasi alla vedrai-che-andrà-tutto-bene, ma non ci voleva un sensitivo per capire che avevo paura. Tanta.
Come quando mi aveva telefonato chiedendo il mio aiuto per disinnescare una bomba in una casa; una mocciosa incosciente non voleva muoversi da lì, io a un certo punto non avevo sentito più niente e avevo temuto il peggio. Non riuscivo a respirare. Poi, ecco la sua voce. Stava dicendo alla bambina che era una ragazza cattiva. Ma era lei la ragazza cattiva. Quella che mi aveva spaventato a morte. Avevo ricominciato a respirare.
Come quando ero al centro commerciale e non immaginavo che, da lì a poco, avrei ucciso un falso John il Rosso. Al telefono avevo sentito che Lisbon era nel bel mezzo di una sparatoria. Ero stato in apnea per un tempo indefinito; poi, quando avevo appurato che era sana e salva, o che ,per lo meno, lo sarebbe stata presto, avevo aspirato grandi boccate d’ossigeno. Dicesi iperventilazione da stress.
Come quando John, quello vero, l’aveva presa. Per colpire me. Due anni fa. Avevo sempre saputo che sarebbe accaduto prima o poi.
Per questo, all’inizio, avevo cercato di tenerla a distanza.
Per questo le dicevo solo il 30 % delle cose. Non me lo sarei mai perdonato se le fosse accaduto qualcosa. Alle persone che si avvicinano a me succede sempre qualcosa di male. Non l’avrei sopportato di nuovo.
Ricordo ancora il gelo che mi aveva immobilizzato quando quella melliflua voce al telefono mi aveva detto che Teresa non poteva rispondere. Lo stesso gelo di dieci anni prima, quando avevo letto il biglietto di avvertimento sopra la porta di quella dannata camera della mia villa di Malibu.
Anche quella volta al telefono avevo capito subito che era lui. Avevo capito subito che l’aveva presa. Poteva averla già uccisa.
Invece no. Era stato un avvertimento. L’avevamo ritrovata, priva di sensi, col viso dipinto col sangue. Maledetto smile. L’avevo lavato via subito. Non potevo vederlo sulla faccia di Teresa. Ma era viva. E di questo non potevo far altro che ringraziare quell’entità che gli altri chiamano Dio e a cui io non ho mai creduto.
Quando si era svegliata in quel letto di ospedale sembrava una bimba indifesa. E’ raro vederla così. E’ sempre così forte, lei. Anche se, a volte, è tutta apparenza. Ma, in quel momento, era terribilmente fragile. Disarmata. Le avevo accarezzato i capelli e le avevo sussurrato che andava tutto bene, che era al sicuro. E lo sarebbe stata davvero. Non avrei più permesso che accadesse di nuovo.
Per questo, da quel giorno, più mi avvicinavo a John il Rosso e più tentavo di tenerla a distanza.
Per questo le ripetevo fino allo sfinimento di stare attenta con i sette sospettati della lista.
Per questo le avevo detto brutalmente che non era più coinvolta nella faccenda.
Per questo le avevo impedito di venire con me a catturare John nella mia casa di Malibu. Quella dove tutto è iniziato.
La vendetta era solo mia. Lei non c’entrava. Doveva starne fuori.
Ovviamente, Lisbon è molto più testarda di me e non mi aveva dato retta. Mi aveva telefonato mentre stavo preparando le munizioni. La sua voce era colma di emozione, come non l’avevo mai sentita. Mi aveva implorato di non buttare via la mia vita, di non farlo senza di lei.
Ma era proprio quello che avevo intenzione di fare: buttare via la mia vita e farlo senza di lei. Era quello che aspettavo da dieci anni. Il fine della mia vita. O, eventualmente, la fine della mia vita.
Lei mi aveva urlato con voce rotta “Jane, no!” e io le avevo buttato il telefono in faccia. Quasi irritato dalla sua insistenza. Cosa si aspettava? Dopotutto l’aveva sempre saputo come sarebbe andata a finire la storia. Vero, lo faceva per me. Ma per me non poteva fare più nulla, ormai.
Non sapevo se sarei uscito vivo da lì, non sapevo se lei se lo sarebbe mai perdonato, ma era la cosa più giusta da fare.
In quel momento di follia avevo avuto la lucidità di pensare a quanto male avessi fatto a Lisbon, l’unica persona che tenesse davvero a me. Ma c'erano altre priorità.
Poi la faccenda era andata come era andata. Cioè male. E la prima cosa che avevo visto quando mi ero svegliato in ospedale era stato il viso di Lisbon. Una gioia per gli occhi. E per il cuore.
Era successo molte altre volte. Quando tornavo alla vita c’era sempre lei ad aspettarmi. A darmi il bentornato.
Ma l’attesa stanca e Lisbon, ora, ha deciso che ne ha abbastanza. Attesa di cosa, tra l’altro?
Bevo un altro sorso di rhum. Ma l’immagine dei suoi occhi verdi colmi di indignazione non mi abbandona.
Ne ho passate di peggiori. Eppure non riesco a sopportare il pensiero di averla delusa. Ancora una volta. Quando il suo perdono è tutto quello che voglio. Anzi, lei è tutto quello che voglio. Sì. Lei.
Cos’ho detto? Sarà colpa dell’alcool.
O forse no.
Ne ho bevuto poche gocce.
Sono confuso come non sono mai stato. Immaginarla tra le braccia di Pike mi rivolta lo stomaco. Non ne capisco il motivo. O, forse, non lo voglio capire.
Lisbon è la mia partner. E’ la mia amica di sempre. E’ la mia ancora di salvezza. E’ la persona che mi ha reso un uomo migliore. Quella che mi conosce di più al mondo. Quella che mi ha mostrato come incanalare le mie capacità in qualcosa di buono. Quella che ha tentato di arginare il mio desiderio di autodistruzione. Quella che tiene a me e l’ha sempre dimostrato. Quella che conosce i miei fantasmi, e li ha sempre accettati. Quella che ha sempre visto il peggio di me, ma ha sempre creduto nel meglio.
Mi blocco, improvvisamente.
Un ricordo, sotterrato da altri mille piani del palazzo della memoria, riaffiora.
Un video. Quello che avevo girato per risolvere un caso che coinvolgeva un’agenzia di appuntamenti. Era stata una messinscena, ma alla telecamera avevo rivelato davvero quello che cercavo in una donna. Cioè, non quello che cercavo, quello che avevo già avuto e che immaginavo di aver perduto per sempre. Ero stato sincero, senza maschere alla Jane.
Qualcuno di cui fidarmi, qualcuno forte, che sia in pace con se stesso. Qualcuno migliore di me. Qualcuno che ami il lato peggiore di me e mi ami ugualmente.
Come mia moglie.
Come Lisbon.
Era alla prima che avevo pensato in quel momento. Lo era.
E’ alla seconda che sto pensando ora. Lo è.
Non è possibile. Siamo amici, io e Lisbon.
Ok, a nostro modo siamo una famiglia. Tutto qui.
Io non posso amare di nuovo. Non me lo merito. Ho avuto la mia opportunità, tanti anni fa, e ho distrutto tutto. Non è più roba per me. E, di certo, non posso amare Lisbon.
Non scherziamo, siamo amici, è ovvio.
Allora perché non riesco a smettere di pensare a lei? Perché non riesco a smettere di pensare che sto distruggendo tutto per una seconda volta?
Rifletto. In questo sono bravo. Una volta, a qualcuno che ci aveva scambiati per una coppia, avevo detto che il nostro era un amore platonico. Avevo sorriso; era una battuta ma neanche troppo, avevo pensato. L’amicizia è una forma di amore, tutto sommato.
Ora penso al significato letterale della parola “platonico”. Non è esattamente quello che sto provando in questo momento.
Penso al significato di “rapporto fraterno”. Non è esattamente quello che voglio.
Vorrei solo stringerla forte e non lasciarla andare via. Mai più.
Oh. E’ tutto chiaro, ora. Forse lo è sempre stato, da anni, ma non l’ho mai voluto vedere. Altro che sensitivo. Non riesco a leggere nella mia mente, figuriamoci in quelle altrui. Che idiota.
Eppure era così ovvio. Così semplice.
Ma anche così difficile.
Ero, e sono ancora, terrorizzato dalla remota possibilità di legarmi a qualcuno.
Prima, il dolore era troppo intenso per desiderarlo. Poi, lo era il senso di colpa. Poi, il disprezzo verso me stesso. Che non mi abbandona mai.
Compiuta la vendetta, in due anni avevo ritrovato me stesso, o quello che era rimasto di me stesso; avevo rimesso insieme i cocci, avevo cercato di trovare la voglia di ricominciare. Sentivo di non meritarlo, ma ci provavo davvero a vivere. E lo facevo grazie alla tranquillità di un paradiso blu lontano dal mondo e grazie a Lisbon. Prima erano il pensiero di lei e le lettere che le mandavo a tenermi vivo; lettere in cui ero diventato improvvisamente espansivo come non lo sono mai stato. A distanza è tutto più semplice.
Poi, una volta tornato, era il lavoro al suo fianco a darmi nuova energia. Come sempre. Era già tutto così chiaro. Chiunque, dall’esterno, avrebbe potuto capirlo. Ero tornato solo per lei.
Ma io non sono un normale essere umano. Ha ragione Lisbon. Non sono più abituato a provare sentimenti veri. O a riconoscerli.
E se una piccola inconsapevole parte di me avesse anche potuto sospettare la verità, ci avrebbe pensato la brillante mente razionale di Patrick Jane a metterla a tacere.
Abituato alla rassicurante presenza di Lisbon, davo tutto per scontato, me ne stavo confinato nel terreno conosciuto delle battutine e del flirt facile. Senza chiedermi altro.
Probabilmente non mi sarei mai accorto di nulla, se non fosse arrivato Pike. Che ha cominciato a minare le mie certezze.
Lo devo ringraziare, in effetti. Quella cosa che ora posso chiamare gelosia mi ha aperto gli occhi su quello che provo davvero. Che provo da molto tempo.
Ma non importa, ormai.
Patrick Jane è merce avariata. Patrick Jane non si merita di amare; e, tanto meno, si merita di amare Lisbon. Una donna buona, generosa e giusta; la persona più onesta che io conosca. Il mio opposto.
Io sono un bugiardo, un truffatore, un disonesto, un egoista, non sono un normale essere umano. L’ha detto anche lei. Sono un uomo spezzato. E Lisbon se ne merita uno tutto intero. Sono un assassino. E Lisbon si merita un brav’uomo.
Lancio la bottiglietta ormai vuota nel cestino della spazzatura. Ho fatto centro, sono il migliore. Vorrei poter lanciare anche la mia testa nel cestino e non pensare.
Ho capito tutto. Ma è troppo tardi. Ed è meglio così, forse. Perché la gente che amo muore. John il Rosso non esiste più, ma questo mio terrore non se ne andrà mai.
Si spalanca la porta. C’è un uomo con la pistola. Non mi interessa. Almeno mi distoglie da riflessioni che non portano da nessuna parte. Se mi uccide nessuno piangerà la mia morte. Anche Lisbon sarebbe troppo arrabbiata con me per farlo. Non mi importa.
Osservo meglio quell’uomo e penso che, tutto sommato, non mi ucciderà. E’ l’avvocato Randolph. I miei riflessi sono un po’ intorpiditi dalle recenti rivelazioni, ma capisco che è lui l’amante segreto della donna uccisa. Ora vuole vendicarsi. Che cosa romantica, ironizzo.
Eppure nessuno può capirlo meglio di me. Che della vendetta avevo fatto la mia ragione di vita per dieci anni.
Il tizio, piuttosto su di giri, mi identifica come innocuo e abbassa la pistola. Gli confesso di aver scritto io la lettera. Mi chiede spiegazioni, ma non ho nessuna voglia di dargliele. Accenno soltanto che si tratta di una storia lunga e triste. E’ vero. Non c’è nient’altro da dire, ormai.
Non faccio in tempo a fare un sospiro di sollievo che entra una seconda persona armata. Evviva, tutti qui. Il mio codice dev’essere stato troppo semplice.
E’ il ragazzo che era stato accusato ingiustamente dell’omicidio. Il vero assassino gli ha rovinato la vita e ora vuole vendicarsi di lui. Non ci vuole un sensitivo per capire che non ci sparerà. Infatti, quando capisce che ha di fronte a se’ due disgraziati che non c’entrano niente, Wes Baxter abbassa la pistola. Propongo una bella bevuta e offro l’alcool rimasto. L’avvocato ricorda il passato. Non ho nessuna voglia di sentire i suoi rimpianti. Sono già io l’uomo dai mille rimpianti.
Mi dice che si amavano molto, lui e Greta Dejorio. Lei avrebbe lasciato il marito, ma lui per timore di uno scandalo e di ripercussioni sulla sua professione, l’aveva lasciata. Quando si era reso conto del suo errore, aveva cercato di rimediare, ma era troppo tardi: lei era morta. Se ne sarebbe pentito per tutta la vita. Era stato un vigliacco. Un cieco, stupido vigliacco. Che aveva distrutto la cosa più bella che gli fosse capitata.
Rifletto. Vigliacco come me. Che lasciavo andare via la cosa più bella che mi fosse mai accaduta. Solo per paura. E per odio verso me stesso. Io e quel tipo siamo più simili di quanto avrei mai potuto immaginare.
Ma io sono ancora in tempo, forse. Non voglio pentirmi tutta la vita di aver distrutto, per la seconda volta, ciò che la illuminava.
Io amo Teresa Lisbon.
Ecco. L’ho ammesso a me stesso. E’ già qualcosa. Suona strano, anche solo nella mia testa. Figuriamoci se dovessi dirlo ad alta voce. Eppure è proprio quello che ho intenzione di fare.
Probabilmente non è giusto che io la ami. Non è giusto per Angela. Non è giusto per Charlotte. Non è giusto per Lisbon.
Ma ora so che cosa devo fare.
Devo andare in aeroporto.
Devo essere sincero con me stesso e con lei, per la prima volta in vita mia.
Devo dirle tutto quello che sento. La verità. Ammesso che ne sia ancora capace.
Anche se sono un delinquente, un manipolatore, un assassino. Anche se non mi merito nulla. Lo devo a tutti e due. Forse è tardi. Non importa.
Comunico ai miei compagni di bevuta che se la dovranno cavare da soli. Mi precipito ad aprire la porta ed esco dalla stanza. Vorrei volare. Forse questo albergo superaccessoriato prevede un jet privato in dotazione. Inizio a correre. So che sto facendo la cosa giusta, è un peccato non averci pensato subito. Che stupido. Proprio io che mi ritengo la persona più intelligente che conosco. Ma sono ancora in tempo per rimediare.
O forse no.
Due donne mi bloccano, una ha la pistola. Mi costringono a rientrare nella stanza.
Non è possibile. Proprio adesso. Dopo anni di silenzio, di ottusità e perdite di tempo.
Non ci siamo capiti, ragazze, sono di fretta. Devo andare. Adesso.
Ma alle due donne non sembra interessare molto. Le guardo negli occhi, e capisco che la nera, quella che ha la pistola, ha tutta l’intenzione di spararci.
Ma io non voglio morire. Non ora. Sarebbe un crudele scherzo del destino. Tutto sommato, me lo meriterei. Lo so, sono sempre stato piuttosto spavaldo con la mia vita. Ma solo perché non avevo niente da perdere. Ora ce l’ho.
Cerco di comportarmi come sempre. Con indifferenza. Di solito il mio atteggiamento spiazza il cattivo, che tende ad abbassare la guardia, o ad alzarla troppo, fino a commettere un errore.
Ora, però, ho paura. Una paura fottuta di non riuscire a dire a Lisbon quello che avrei dovuto dirle secoli fa. Perché intrappolato in una stanza d’albergo proprio mentre il suo aereo sta partendo, o perché ammutolito per sempre da una spietata killer.
E’ una situazione paradossale. Se non fosse reale, ci riderei su. Ma è tutto vero.
Dico alle due nuove arrivate che sono dell’FBI e che i miei colleghi, in realtà ignari di tutto questo pandemonio, stanno arrivando. Consiglio loro di scappare immediatamente, in questo modo non ci saranno conseguenze.
Non me ne frega niente se verranno arrestate o no. Voglio solo andare all’aeroporto.
Ovviamente, non credono sia un federale. Non posso dargli torto. Non ho la faccia da piedipiatti. Mostro il tesserino. A quello non possono fare altro che credere.
Le due sono in panico. Ma io, mentre tergiversano e discutono tra loro, sono riuscito a prendere il mio cellulare dalla tasca e a nasconderlo dietro la schiena. Col dito compongo quello che spero sia un SOS. E lo mando alla prima persona della mia rubrica. Abbot. O almeno spero. Andando alla cieca, potrei aver scritto “Ciao” a Rigsby. Che, ovunque si trovi, non vuole più avere nulla a che fare con pistole e polizia. Ma mi fido della mia memoria tattile.
Nel frattempo, prima che arrivi la cavalleria, l’unico mezzo per salvarci è la mia parlantina. Sono disposto a tutto. Voglio solo andarmene da qui. Ora.
Cerco di convincere le due donne che nessuno potrebbe dire che siano due assassine. Non ci sono prove. E’ chiaro che hanno ucciso Greta, ma, in questo momento non mi importa di legge e giustizia. Ci sono cose più importanti. Lisbon, ad esempio. Che non approverebbe molto quello che sto per fare. Voglio solo che queste pazze se ne vadano e mi lascino andare.
I due miei compagni di bevuta, però, non sono molto d’accordo con me. Proprio quando le assassine hanno deciso di scappare e lasciarci in pace, quell’idiota di Wes recupera la sua pistola e rovina tutto.
Oddio, ha sparato. Questo non me l’aspettavo. Ma, l’ho sempre detto, non sono un sensitivo; i sensitivi non esistono. E ha sparato anche lei. Questo sì che me l’aspettavo. Ce l’aveva scritto in faccia che aveva una voglia matta di farlo.
La bionda scappa. I due idioti sono a terra. Feriti. Ma vivi.
E’ la mia occasione. Sono libero. Tranquillizzo entrambi a mio modo, e spiego che dovranno fare a meno della mia presenza.
Poi la porta si apre. E’ Abbot. Allora la mia memoria tattile ha funzionato. Adoro il suo cognome.
Ho bisogno del suo aiuto. Chiedo se ha un’auto con la sirena. Sì, ce l’ha. Io adoro Abbot.
Mi servono le chiavi. Gli dico che è un’emergenza e che devo andare all’aeroporto. Lui mi chiede dove sia Lisbon.
"E’ in aeroporto!", grido. Diamine, è la cosa più scontata del mondo, non ho voglia di perdere tempo inutilmente. Mi sembra di averne perso già abbastanza. Una decina d'anni, per esempio.
Ma Abbot è un tipo sveglio, anche se non sembra. Lo è molto più di me, visto che aveva capito tutto fin dall’inizio. Mi aveva tirato parecchie frecciatine a riguardo. E aveva pure fatto in modo che io e Lisbon andassimo a cena insieme al Tavolo Bianco, sperando in un avvicinamento, complice una bottiglia di Brunello.
Devo ricordarmi di ringraziarlo e di fargli i complimenti per essersi dimostrato un mentalista più bravo di me.
Ora non c’è tempo. Mi lancia le chiavi con un’occhiata comprensiva. In cambio, gli spiego rapidamente chi sono i buoni e chi i cattivi in quella confusione di personaggi e pistole.
Corro. Sento Abbot che mi augura buona fortuna e il povero Cho che non capisce nulla di quello che sta succedendo.
Mi precipito fuori dall’albergo, salgo in macchina, metto in moto, aziono la sirena e sfreccio alla velocità della luce.
Spero di non sfracellarmi da qualche parte, pure questo sarebbe un bello scherzetto del destino; che me ne ha fatti molti, in effetti. Ma sono un ottimo guidatore, anche se quella malpensante di Lisbon non si è mai fidata molto della mia abilità.
Lisbon. La chiamo. C’è la segreteria telefonica. Ha spento il cellulare, quindi sarà già su quel dannato aereo. Lascio un messaggio inutile in cui le dico di richiamarmi. So che non lo farà.
Vorrei pregare, ma non so a chi rivolgermi. Posso solo premere il piede sull’acceleratore. Sicuramente è più utile.
E’ paradossale tutto questo. Sto rischiando di fare un incidente per andare da una donna che è al mio fianco da una dozzina d’anni. Ho deciso di dirle che la amo proprio ora che sta partendo. Perché l’ho scoperto solo dieci minuti fa. Che idiota. E' uno dei peggiori chiché delle più scadenti commedie romantiche che ho sempre detestato. Peccato che quelle hanno sempre il lieto fine.
La amo. Assurdo. In realtà, è probabile che il mio inconscio lo sappia da molto tempo. Non è un caso che, quando riesce a sfuggire al controllo della mia parte razionale, abbia sempre cercato di farmi aprire gli occhi.
Quando avevo perso la memoria, avevo visto Lisbon per quella che era in realtà: una donna bella e sexy che qualunque uomo sano di mente avrebbe cercato di conquistare. Solo che io, con tutte le mie difese mentali, non me ne ero accorto. Senza quelle barricate, le avevo chiesto se eravamo andati a letto insieme e, dalla sua reazione inorridita, avevo intuito che ci stavamo lavorando.
Quando avevamo fallito la cattura di John il Rosso ed eravamo noi due a terra, sul ciglio della strada, esausti ma vivi, la mia mano aveva cercato la sua. Mi ero aggrappato a quella mano, come se stessi affogando e lei fosse il mio ossigeno.
Quando avevo avuto le allucinazioni per colpa della belladonna, mia figlia Charlotte, ovvero quella che immaginavo sarebbe potuta diventare Charlotte, aveva cercato di avvisarmi. Mi aveva suggerito che Lisbon fosse la persona che più mi conosceva al mondo. Era vero. E mi aveva posto qualche domanda imbarazzante. Che piccola scostumata, chissà da chi ha preso!
Ebbene sì, mia figlia avrebbe preferito sapermi con Lisbon, piuttosto che ossessionato dalla vendetta. L’avevo zittita. Era assurdo.
Colpa della belladonna, ovviamente. Che aveva il merito di farmi parlare con mia figlia morta, con l’effetto collaterale di confondermi le idee.
Ma Charlotte non era altro che il mio inconscio.
Forse anche la vera Charlotte vorrebbe qualcosa del genere. E’ un pensiero che mi fa stare bene. Probabilmente Lisbon le sarebbe piaciuta.
Sciocchezze. Non si sarebbero mai conosciute. Neanche io l’avrei mai conosciuta. Sarei felice con mia moglie e mia figlia.
Ma loro non ci sono più. E io, felice, in realtà non lo sono mai stato, nemmeno quando avevo la famiglia perfetta. Perché all'epoca ero un bastardo, un truffatore che viveva per arricchirsi sfruttando il dolore altrui. Ora, invece, sono una persona diversa e, forse, potrei ancora avere l'ultima possibilità per esserlo. Con Lisbon.
Non è giusto nei confronti di mia moglie, lo so. Eppure, paradossalmente, era stata proprio Angela a condurmi da Lisbon, l’agente che indagava sul caso del suo omicidio. Forse qualcuno lassù immaginava che poteva essere l'unica persona che avrebbe potuto rendere accettabile la mia esistenza. O forse no. Di solito odio questi discorsi mistici e non credo a nulla che non sia il libero arbitrio dell'essere umano. Ma ora sono troppo confuso per essere razionale.
Penso di non fare un torto a nessuna dicendo che le amo entrambe. Il passato e quello che spero potrà essere il mio futuro.
Futuro. Giusto. Il futuro esiste. Da quando la mia famiglia è stata distrutta, ho sempre vissuto giorno per giorno, perché non avrei sopportato piani a lungo termine. Nella mia testa, la vita si sarebbe fermata quando avrei ucciso John il Rosso.
Ma non si era fermata. Non avevo premuto il grilletto di quella pistola che, per un attimo, avevo rivolto verso di me. Ero sopravvissuto e avevo dovuto reinventarmi. Dunque, anche per me esisteva un futuro. Ma può esistere un futuro con Lisbon? Che la risposta sia affermativa o negativa, io ho paura in ogni caso.
Per la prima volta mi chiedo cosa succederà quando avrò svuotato il sacco. Se sarò ancora in tempo per svuotarlo, ovviamente. Forse non succederà nulla. Ma io avrò fatto ciò che devo.
Per la prima volta mi chiedo cosa provi Lisbon per me. Egoista fino all’ultimo, lo so. Sono abituato a pensare a me stesso e, solo molto dopo, agli altri. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Ma la verità è che non mi aspetto nulla. Voglio soltanto liberarmi di questo peso ed essere sincero, una buona volta. O, almeno, fingo che mi basti questo.
Il concetto, però, è interessante. E intrigante. Cosa prova Lisbon?
Lo so, ha sempre tenuto a me, non ci vuole un sensitivo per capire che mi ha sempre voluto bene. Quando mi impediva di fare pazzie, chiedendomi di pensare alle persone che avevano bisogno di me e che mi volevano bene, si riferiva a lei stessa. L’ho sempre saputo. Ma bene, fino a che punto?
Guido alla velocità della luce e intanto medito su cose mai capite.
Quando c’erano di mezzo altre donne, Lisbon sembrava innervosita. Avvertivo una maggior tensione nel suo corpo, una più elevata acutezza della voce e un’espressione tristemente sarcastica.
Per non parlare di quando era comparsa Lorelei.
Lisbon era convinta che la ragazzaccia seguace del mio nemico numero 1 non mi fosse indifferente, dal momento che era stata la prima donna con cui ero stato, dopo mia moglie.
Mi aveva sorpreso, cosa che non fa spesso. Mi aveva chiesto cosa provavo per Lorelai, quasi con le lacrime agli occhi. Anche a uno che ama sfuggire ogni tipo di domanda, la sua reazione era sembrata esagerata.
Ma ne andava dell’esito delle indagini, di sicuro lei era preoccupata per quello.
O forse no, ma era più comodo pensare fosse così.
Io le avevo assicurato che per me era solo un mezzo per arrivare a John il Rosso. Le avevo chiesto di non ascoltare la nostra conversazione, ma lei l’aveva fatto. Mi ero arrabbiato, quando l’avevo saputo. Mi aveva mentito. In realtà si era comportata da agente scrupolosa. Ma una piccola parte di me aveva sospettato che ci fosse dell’altro.
Mi aveva sentito mentre bluffavo spudoratamente, promettendo a  Lorelei di farla scappare. Era fuori di sé, raramente l’avevo vista così. Mi aveva ricordato che mi aveva avvertito di non farmi coinvolgere troppo. Non era la mia ragazza, era un poliziotto, mi aveva detto. Poi però mi aveva rinfacciato di aver baciato una detenuta. Strana reazione.
Io avrei detto qualunque cosa a Lorelei pur di arrivare a John. Anche che l’avrei sposata.
In realtà, per un attimo, avevo davvero pensato che fosse la donna adatta a me. Eravamo simili, noi due. Troppo simili. Mi rendeva un uomo peggiore di quello che già ero. Esattamente il contrario di quello che fa Lisbon. Il buio e la luce.
Però era furba, Lorelei. Più di me. Aveva deciso che ero un po’ innamorato della mia collega.
Sorrido; eh già, giusto un po’.
All’epoca, avevo pensato fosse un suo giochetto mentale. Come quelli che facevo io. Per questo, dico che ci somigliavamo. Forse mi meriterei di amare una donna come lei, piuttosto che un piccolo angelo arrabbiato di nome Teresa Lisbon.
Penso a quando le avevo detto la stessa frase che vorrei dirle ora. Ti amo. Vorrei dirgliela senza che ci sia una pistola di mezzo.
Era strana, Lisbon, quando mi aveva chiesto spiegazioni; spiegazioni che io, ovviamente, non avevo dato. Forse, all’epoca, provava qualcosa per me. Non me lo sono mai chiesto. Anzi, ho finto di non volermelo chiedere. Ma non è poi così impossibile.
Bosco, prima di morire, mi aveva detto qualcosa del genere. Mi aveva detto che lei teneva a me più di quanto potesse immaginare lei stessa; e che lui sperava che anche per me fosse la stessa cosa, altrimenti me l’avrebbe fatta pagare, anche da morto.
Non l’avevo mai detto a nessuno. Erano le ultime parole di un uomo che se ne stava andando, innamorato di Lisbon per giunta.
D’altronde, tutti amavano Lisbon, avevo pensato all’epoca; faceva strage di cuori tra poliziotti senza accorgersene. Non che la cosa mi facesse molto piacere, diciamo che ne prendevo atto con una certa inspiegabile irritazione. Che ora è fin troppo spiegabile.
Al discorsino minatorio del povero Bosco non avevo mai più pensato, lo avevo rilegato in una stanzetta polverosa e affollata del palazzo della memoria.
Ora quelle parole sono riemerse dall’oblio e mi danno un po’ di speranza.
Non sono poi così male d’altronde. So di piacere alle donne.
Ma Lisbon non è una donna come tutte le altre. Con lei i giochetti non funzionano. E da quel giorno lontanissimo in cui un uomo geloso stava morendo, ne era passata di acqua sotto i ponti. Gliene avevo fatte passare troppe.
Però solo una donna innamorata avrebbe potuto perdonare un farabutto ogni volta che ne combinava una delle sue.
Una donna innamorata oppure Lisbon. Buona e generosa, pronta a catturare assassini ma anche a vedere il buono nelle persone. Me compreso.
La nostra amicizia può spiegare il fatto che mi avesse dato la sua pistola per uccidere un uomo. Io non l’avevo usata, non l’avrei mai messa volontariamente in un casino del genere, e, poi, avevo sempre immaginato di uccidere John il rosso con le mie mani. Non poteva accadere diversamente. Ma lei non poteva prevederlo.
La nostra amicizia può spiegare tutte le volte in cui ha rischiato il suo lavoro per me.
A volte mi sono chiesto perché lo facesse, ma non ho mai saputo cosa rispondermi e ho preferito non indagare oltre, rinunciando perfino a battutine sarcastiche e a letture a freddo. Ora pagherei oro per saperlo.
La mia mente vaga a episodi che pensavo di aver dimenticato.
Un sensitivo, anzi un ciarlatano, perché i sensitivi non esistono, aveva detto che Lisbon era un po’ innamorata di me, e lei non aveva battuto ciglio. O non si era presa il disturbo di negarlo perché era assurdo, o non lo aveva fatto perché era vero.
Mi ero posto, per una frazione di secondo, questa domanda. Ma non avrei voluto conoscere la risposta. C’erano cose più importanti da affrontare: la mia vendetta, per esempio.
Magari, quando tutto sarebbe finito, sarei ritornato sul discorso, pensavo. Ma, quando tutto era finito davvero, ero stato troppo vigliacco per farlo.
Molto tempo fa avevo detto al finto John il Rosso che avrei trovato una donna da amare con cui costruire una famiglia solo quando lui sarebbe morto.
Ora ci siamo. John non c’è più. Io, evidentemente, sono capace di amare di nuovo. Più o meno. Sono terrorizzato, ma ce la posso fare. Solo che, nel frattempo, è arrivato Pike. Un uomo che in due minuti le ha detto di essere innamorato di lei. Lisbon aveva accettato in quattro e quattr'otto di lasciarsi tutto alle spalle e di trasferirsi a Washington. Non è da lei fare colpi di testa. Deve essere ben sicura della sua decisione. Probabilmente, lo ama. E io non ho nessun diritto di rovinare tutto.
Ma sono un egoista, e lo sarò fino in fondo. Sono finalmente pronto a dire la verità a Lisbon. Lei sarà pronta ad ascoltarla?
"Ora cercherò di dirtelo e fare in modo che tu capisca", come dice la sua canzone preferita, quella sulle cui note cui abbiamo ballato insieme, molto tempo fa.
Ma io, in queste cose non sono mai stato bravo con le parole. Come Manet. L’avevo detto proprio a Lisbon, durante delle indagini. Avrei dovuto trovare altri modi. Come Manet che aveva dipinto un quadro. Ma io altri modi non li ho trovati. O meglio, avevo saputo inventare solo trucchetti meschini, tipo una lettera falsa e qualche bel vestito.
E ora non mi restano che le parole. Spero di riuscire a metterne insieme qualcuna di sensata.
Sono arrivato. Abbandono la macchina, senza neanche spegnere il motore e la sirena. Guardo le partenze sul tabellone, individuo l’aereo per Washington, l’aereo di Lisbon. Mi precipito al gate.
C’è una breve coda di passeggeri ritardatari. Lisbon non c’è. Deve essersi già imbarcata. Supero la coda, comunico alla hostess di essere dell’FBI e che si tratta di un’emergenza.
Lo so, devo avere un’aria sconvolta e poco raccomandabile; la donna, come prevedibile, mi chiede un documento.
Il mio badge è rimasto nella stanza di albergo e il portafoglio è in macchina. Cerco di spiegare tutto questo. Parlo di una macchina federale posteggiata davanti all’ingresso dell’aeroporto. Farfuglio.
So di avere uno sguardo spiritato piuttosto inquietante. La hostess mi guarda con diffidenza. Capisco che non posso ricavare nulla da lei. Non mi crede, potrei essere un terrorista, e non posso darle torto. Neanch’io mi fiderei di me.
Torno indietro, non c’è tempo per andare in macchina e prendere i documenti. E poi, senza badge, non ho nessuna possibilità di salire su un aereo senza biglietto.
Esco. Vado al cancello che delimita la pista. Riconosco l’aereo per Washington, è della linea Pacific, come avevo letto sul cartellone delle partenze. E’ proprio lì, a pochi metri da me.
Ho l'istinto di tornare indietro, a cercare un altro punto d'accesso.
Poi capisco che c’è un’unica cosa da fare: scavalcare il cancello e salire su quel maledetto aereo.
Mi arrampico. Anche se non sono mai stato un uomo particolarmente atletico. E, infatti, nell’atterraggio cado. La caviglia mi fa male, ma non importa. Mi rialzo. Corro. Devo fare presto. Non sento neanche più il dolore. Ci sono cose molto più importanti a cui pensare: farsi aprire il portellone dell’aereo, ad esempio.
Tutti i passeggeri si sono imbarcati, ma, per fortuna la scaletta è ancora lì. Salgo i pochi gradini che mi separano dal portellone. Busso. Attraverso il vetro intravedo la testa di una hostess. Urlo di aprirmi e, non so come, lei lo fa. La sicurezza aeroportuale americana non è poi un gran che.
Le dico che sono dell’FBI e che devo fare un controllo. Potrei essere un Bin Laden tinto di biondo, ma all’ingenua ragazzotta non importa.
Entro. E’ un miracolo. Ce l’ho fatta.
Poi capisco che la parte più difficile deve ancora cominciare.
 
 
  
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