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Autore: theOldEnnui    10/06/2014    12 recensioni
Sherlock fa un sogno bizzarro e decide di raccontarlo a John.
John non è granché entusiasta.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Ehilà fandom, da quanto tempo... did you miss me? lol Comunque! Spulciando fra i documenti salvati sul mio portatile ho trovato questa roba, scritta secoli fa per il p0rnfest, ma poi tristemente dimenticata e ho deciso di pubblicarla, anche se è corta e particolarmente stupida, perché chissenefregaecco. u__ù
Grazie a chiunque deciderà di leggere! <333333
((((il titolo è stupido odio i titoli ;_____;)))))


 

*

DREAM A LITTLE DREAM


 

È lunedì mattina e John è quasi in ritardo per il lavoro.

Sta scalpitando al cospetto del tostapane, quando Sherlock appare sulla soglia della cucina, avviluppato mollemente fra le spire del suo lenzuolo. Non serve il genio di un consulting detective per capire che, sotto a quello sgualcito strato di cotone, il suo spudorato coinquilino è nudo: la bianchissima porzione di coscia e l’interminabile profilo di clavicola che si scorgono fra i drappeggi sono più che sufficienti allo scopo.

Sherlock non è mai stato un tipo granché pudico e questa non è certo la prima volta in cui un’evenienza del genere si presenta: nulla fuori dall’ordinario, dunque, se si ignora il difficilmente ignorabile protuberare di stoffa che, all’altezza del cavallo di Sherlock, assomiglia in maniera assai sospetta alla sagoma di un’erezione.

La cosa non è di alcun interesse per John e su di lui non sortisce davvero nessun effetto.

La vaga sfumatura scarlatta che da qualche istante a questa parte ombreggia il suo incarnato, è il risultato di una mera contingenza. La colpa è tutta da imputare al suo ultimo sorso di tè: ingurgitato troppo  in fretta e rivelatosi, poi, così inaspettatamente incandescente.

Sherlock si lascia franare con regalità sulla sua sedia e attende che John, come di consueto, gli posizioni dinnanzi la sua tazza e una variegata selezione di biscotti, prima di annunciare con voce ancora stropicciata dalla notte appena trascorsa: «Ho fatto un sogno bizzarro».

Mentre spalma di confettura la prima fetta di pane tostato, John si produce in un mugolio di tiepido interesse e non si lascia in alcun modo distrarre dal pensiero di Sherlock nudo accanto a lui, né dal miraggio di ciò che potenzialmente si erge fra le sue gambe, né tanto meno si impegna ad arginare la cascata di brividi che il riverberare di quel baritono arrochito lungo tutta la sua spina dorsale gli ha provocato.  Pfftnon esiste nessuna dannata cascata di brividi!

«Un sogno su di te, in effetti,» precisa il grande detective, fissando il vuoto che gli sta davanti con appeso al volto un cipiglio che riesce ad essere insieme la maschera più torva e la più spaesata che John lo abbia mai visto sfoggiare. È chiaro che i suoi neuroni apprezzano il torpore che segue una bella dormita e sono decisi a non lasciarsi sfuggire in fretta una grazia tanto rara.  Gli infami paiono davvero poco collaborativi, John prova quasi pietà per lui: a giudicare dalla curva imbronciata delle sue sopracciglia, sbrogliare l’intricato bandolo onirico aggrovigliato attorno alle sue sinapsi, si sta rivelando un processo più impegnativo del previsto.

Tentando di combattere un sorriso compiaciuto, il buon dottore continua a contemplarlo mentre si lambicca con tenacia le meningi. Ha i ricci in disordine, la guancia destra segnata dalle pieghe del cuscino e un aspetto insolitamente morbido-- il paradosso!

John sente una bolla di torpore formicolargli nel petto.

Vorrebbe toccarlo. In maniera del tutto innocente, s'intende.

Far scorrere le dita fra i suoi capelli. Sui suoi zigomi. Su quel collo chilometrico. Vorrebbe mordere e mappare una a una sulla sua pelle bianca, le costellazioni di nei che può scorgere ammiccare da oltre gli sbuffi del lenzuolo.

Deglutisce.

L'eco di un presentimento foriero di catastrofe gli stringe lo stomaco. È facile fingere che si tratti di fame, a quest'ora di mattina e John non ha voglia di farsi domande, così decide di ignorare l'istinto che d'improvviso ha preso ad urlargli di fuggire lontano e invece resta fermo dov'è.

Non ha nulla da temere, è solo fame.

Mentre Sherlock e la sua ancora irremovibile erezione proseguono ad esistere in cogitabondo silenzio a qualche passo di distanza John, da bravo soldato, combatte la tentazione di incalzarlo a continuare e decide di rivolgere tutte le sue attenzioni al toast che sta preparando. È davvero un gran bel toast. Dorato al punto giusto, ricoperto da una generosa dose di marmellata, distribuita sulla sua superficie da mano sapiente, croccante anche agli occhi: il buon dottore ne è molto fiero. È un toast meraviglioso, forse il migliore mai arrangiato nella storia della razza umana, ma poi Sherlock prosegue: «Eri nudo,» e quel capolavoro di arte culinaria, quel gastronomico portento di gusto e semplicità, si sfracella miseramente al suolo.

John impreca e poi ridacchia, perché non ha idea di che altro fare: Sherlock ha un’erezione e l’ha sognato e non esistono guide che spieghino come sopravvivere a situazioni del genere e se anche esistessero, comunque al momento lui non sarebbe in grado di leggerle. In effetti al momento non è in grado di fare proprio un bel nulla se non, con fatica, respirare.

«Ero morto su un tavolo dell’obitorio?» domanda per alleviare il cappio che gli annoda la gola e rende difficile il riciclo del sangue dentro al suo cervello, ma certo non ne ostacola il fluire più in basso.  

«Eri molto vivo e sul mio letto, in realtà,» dichiara Sherlock. E poi prende un sorso di tè. Il bastardo.

A questo punto, John è certo che si tratti di un qualche tipo di esperimento. Non riesce proprio a immaginarsene l’utilità, ma servisse anche a salvare la vita di un un triliardo di cuccioli di foca, prova l’urgenza meschina di farlo deragliare. Decide di non voler dare a Sherlock nessuna soddisfazione e si impegna affinché il suo volto si tramuti in una maschera di artico distacco, mentre si china a raccogliere il cadavere della sua colazione. Riesce a raggiungere risultati accettabili e a mantenerli tali per un dignitossissimo quarto di secondo, ma poi il suo insopportabile coinquilino deve aprire di nuovo quella sua dannata boccaccia e il bluff di John diventa evidente dal modo in cui si lascia sfuggire dalle mani i resti del toast appena recuperati.

«Ma prima,» infierisce Sherlock, che pare quasi parlare a se stesso, lo sguardo annebbiato a mollo sul fondo della sua tazza di tè, «prima ho sognato che mi spingevi contro a questo tavolo, ti inginocchiavi di fronte a me e poi procedevi a usare la lingua per—»

John si lascia sfuggire un rantolo basso, che pare riscuotere l’attenzione del suo carnefice.

Sherlock alza gli occhi su di lui e gli toglie il fiato inchiodandolo sul posto con le sue iridi di ghiaccio, prima di proseguire mitragliando le parole al ritmo concitato che usa per le sue deduzioni: «Mi ha sempre affascinato la tua lingua. Hai l'abitudine di passartela sulle labbra con una frequenza superiore alla media— a volte capita che il verificarsi di tale fenomeno comprometta le mie capacità di concentrazione. In genere le mie capacità di concentrazione sono ottime, ma tu—» Sherlock si interrompe e lo fissa con cipiglio arcigno e quasi risentito per una manciata di secondi, prima di tornare a declamare: «Di solito leccarsi le labbra è un indicatore di gradimento. Tu te le lecchi soprattutto quando sei in presenza di donne ritenute convenzionalmente piacenti, verso le quali sei così banale da sperimentare attrazione fisica o in piccola parte intellettuale, ma di recente ho notato che la frequenza con cui cedi a questo impulso accresce di molto anche quando siamo io e te, a trovarci in situazioni di prossimità. Ovviamente i dati sono ancora in fase di elaborazione, come sai questo non è il mio principale campo di competenza, ma ho formulato un'ipotesi a riguardo che, per quanto improbabile, ritengo in possesso di un certo grado di plausibilità.»

«Sherlock…» John si cattura la lingua fra i denti appena un secondo prima che la meschina tenti di sgusciare fuori dalle sue labbra.

Sherlock cambia di nuovo binario, torna a guardare dentro al suo tè con la fronte aggrottata e l’espressione assorta, come se cercasse di decifrare un geroglifico nascosto sul fondo della tazza: «Usavi la lingua su di me— immagino di avere un po’ esagerato il tuo talento: considerato quanto ritieni sempre così indispensabile sbandierare in giro il fatto che non sei gay, dubito molto che tu sia un grande esperto di tecniche di fellazione. Mi tenevi le mani sui fianchi e non mi facevi spingere in avanti, premevi forte, perché non facevo che dimenarmi… come ho detto penso di aver esagerato il tuo talento. Immagino che se non fosse stato un sogno ora avrei dei lividi con la forma delle tue dita nella zona sopra all’osso coxale. Il mio corpo è particolarmente incline alla formazione di ecchimosi, suppongo l’avrai notato, dottore.» Sherlock deglutisce e fra le ciglia gli scocca uno sguardo che brucia. Per un momento John è certo di essersi scordato anche come respirare. Dentro ai pantaloni, il suo finora-sempre-fidato-compagno-di-gozzoviglie1 sta reagendo alle insolite circostanze in una maniera non propriamente eterosessuale.

A John non importa. Vuole solo che Sherlock continui a parlare.

Vuole che smetta.

Vuole staccargli la testa, scuoterlo, prenderlo a schiaffi, piegarlo contro al tavolo della cucina, farlo implorare pietà— tre volte.

«E poi... e poi all’improvviso eri nudo e sul mio letto e mi permettevi di esplorare ogni centimetro della tua pelle, mi lasciavi toccare la tua cicatrice, quando la baciavo ti agitavi sotto di me, ma non mi fermavi e io continuavo a baciarti e a leccarti e tu avevi le dita nei miei capelli e mi ripetevi quanto mi— quando fossi bravo e— penso di aver esagerato anche le dimensioni del tuo pene, non ho nessun parametro di comparazione naturalmente, ma era così grande e duro per me—»

John ha raggiunto il suo limite massimo di sopportazione ed è in ritardo per il lavoro: «Cristo,» ringhia, passandosi una mano sul viso accaldato «devi smetterla di— non sono la tua dannata cavia da laboratorio, Sherlock!»

Sherlock sembra confuso. Apre la bocca per ribattere, ma il buon dottore non gliene lascia il tempo e si catapulta fuori dalla cucina con passo svelto ed encomiabilmente deciso, soprattutto considerato lo stato di generale instabilità in cui versa la metà inferiore del suo corpo.

«John? John dove stai andando? John? John, aspetta!»

«Sto facendo tardi per il lavoro» grugnisce afferrando la giacca e precipitandosi fuori dal soggiorno.

Sciaguratamente il suo persecutore sembra non aver finito con lui e decide di pedinarlo. Quando si trova a metà delle scale che conducono al piano di sotto, John capisce che l'infame non ha intenzione di mollare l'osso, così frema la sua discesa, piroetta su se stesso e ruggisce: «Cosa?»

Sherlock sbatte le palpebre un paio di volte, lo misura in silenzio per un manciata di istanti e poi proclama, in un tono di voce che suona insieme compiaciuto e sorpreso: «Avevo ragione, sei attratto da me».

«Cosa?!» ripete oltraggiato il buon dottore, sforzando fuori una risata ed ottenendo soltanto un rantolio pietoso. Tutta questa faccenda è ridicola, ma per qualche incomprensibile motivo al momento lui non si sente granché prono all'ilarità.

«Sei attratto da me», ripete Sherlock a sua volta, con più sicurezza e un ghigno soddisfatto sulle labbra. John stringe il pugno sinistro per cercare di catturarvi dentro gli ultimi sfuggevoli brandelli di autocontrollo che gli restano.

«No.» risponde col tono secco e deciso del Capitano Watson.

«Sì.» ribatte Sherlock che incombe su di lui. Vicinissimo e per la maggior parte nudo.

«Sherlock, io non sono—»

«John. Hai le pupille dilatate, il respiro affannato— ti sei appena leccato le labbra, per non parlare di— Sherlock lascia cadere la frase la frase e lo sguardo. I suoi occhi indugiano sull'evidente rigonfiamento sul davanti dei suoi pantaloni e il suo ghigno si ammorbidisce, lascivo, «Forse non ho esagerato, dopotutto».

John sente le guance in fiamma e fatica deglutire.

«Ora,» prosegue Sherlock, producendo il suo cellulare da una delle pieghe del lenzuolo. «Posso suggerirti di chiamare l'ambulatorio e darti malato così che io possa finire di raccontarti nel dettaglio il mio sogno?»


 


 


 


 


 


 


 






 

1 Ma è possibile che all'italiano manchi una parola che sta nel mezzo fra pene e cazzo, EH???? è un problema solo mio? Perché? Com'è possibile che quei marpioni anglofoni c'abbiano prick e dick e cock e noi niente? COME? PERCHé? QUANDO? IO DISAPPROVO. Tutto questo per dire: scusate la perifrasi scema, non è colpa mia ma dell'italiano. (o magari cazzo sembra estremamente volgare solo a me???? potrebbe essere.) 

  
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