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Autore: m a y h e m    11/06/2014    2 recensioni
Dal testo:
Le note della canzone esplodono nuovamente nell’aria, riscuotendomi dall’intorpidimento momentaneo e permettendomi di riprendere a scattare fotografie all’evento. Una nuova istantanea di Joey, un’altra di Troy, l’ennesima di Michael, una smorfia di Dean… e poi, immancabilmente e instancabilmente, torno sulla figura del leader del gruppo. Davvero non riesco a fare a meno d’immortalare lui, la sua incredibile statura, il modo in cui scosta i capelli dalla fronte; il mio obiettivo è l’ago magnetizzato di una bussola, e Joshua è il suo Nord.

→ Joshua Homme x OC
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle entità realmente esistenti citate, né offenderle in alcun modo. Tutti i fatti narrati sono puramente inventati o sola fonte d’ispirazione.

 

A Laura, dalla cui penna virtuale è nata Lena

 

 

 

Aspiro con tranquillità una delle ultime boccate della sigaretta che tengo tra le dita, gettando poi il filtro a terra e spegnendolo con la punta della scarpa. Qualcuno alle mie spalle, nell’edificio improvvisato con muri e soffitti di resistenti pannelli di plastica, sta sbraitando ordini a destra e a manca.
Afferro la maniglia esterna dell’uscita di sicurezza e torno nel trambusto dell’organizzazione. Brian, il tarchiato uomo di mezza età che mi ha ingaggiata, corre trafelato verso di me.
«Lena, finalmente ti ho trovata… stanno per cominciare, puoi andare» mi dice, dandomi il via libera.
Sono a Werchter, in Belgio, ed è la seconda volta che mi ritrovo a un concerto dei Queens of the Stone Age come loro fotografa semi-ufficiale. Brian mi ha subito pensata quando gli avevo confidato di aver bisogno di un lavoro che mi mettesse sotto i riflettori, e dopo avermi detto la famigerata frase “Ho qualcosa che fa al caso tuo” mi ha spedita a seguire il gruppo di Palm Springs. Ho imparato tante cose del mondo della musica da loro, ma soprattutto ho imparato a conoscere la persona che è dietro l’artista.
È un individuo singolare, il leader della band: per quei pochi istanti in cui ho potuto parlargli ho capito che, quando c’è lui intorno, non puoi fare a meno di prestargli attenzione. Non importa se sta parlando, se è in silenzio e se ne sta semplicemente seduto su un divanetto nel backstage, a bersi una bottiglia di vodka. È una cosa che, volente o nolente, impari subito: nessuno sfugge dall’aura magnetica di Joshua Homme.
Mi sposto con la mia macchina fotografica professionale proprio sotto il palco, davanti alle transenne dove centinaia di fan urlanti premono addosso ai bodyguard per scavalcare e avere la possibilità di avvicinarsi al palco. I Queens of the Stone Age salgono sul palco, e i membri sono più o meno tutti visibilmente sbronzi e, con ogni probabilità, anche fatti.
Sollevo subito la macchina, scattando le prime fotografie: Michael, l’ultimo arrivato nella band, accorda il basso con attenzione; Joey si siede alla batteria, sorridente, e rigira tra le dita le bacchette; Dean si sistema alla postazione e ne immortalo il viso serio e la fronte corrugata, segno di concentrazione. Troy e Josh stanno parlando mentre sistemano le chitarre, e non posso fare a meno di notare come i capelli di Josh abbiano una sfumatura rossa così particolare da risultare quasi bizzarra, innaturale. Continuo a scattare, senza sosta, mentre loro cominciano a suonare; un primo piano del basso di Michael, uno del volto di Joey, tutto intento a picchiare su rullanti e piatti, un altro ancora del volto piuttosto emaciato di Dean e uno dei capelli scuri di Troy. Dopo questi, mio malgrado, il mio obiettivo si sposta in continuazione su Josh: un dettaglio delle sue dita tatuate, uno delle buffe espressioni che fa per colpa degli effetti di alcol e, quasi certamente, anche qualche canna, uno del ciuffo fulvo e ribelle.
Le canzoni sfilano una dietro l’altra, quasi senza pause. Il mio obiettivo punta senza remore a Josh: la sua zazzera rossa, il suo sorriso strafottente, i suoi occhi di quel colore indefinito cerchiati di rosso a causa della cannabis. E la musica continua, percuotendomi dentro mentre realizzo, con una freddezza razionale che mai ho immaginato di possedere, di essere caduta nella rete magnetica di Joshua Homme.
Le note diventano quelle di Feel good hit of the summer, una delle canzoni della band che ho presto imparato ad apprezzare e, infine, a preferire per il suo testo totalmente insano. A metà della canzone e dopo uno spaventoso assolo, Joshua incita la folla e ricomincia a cantare, storpiando il testo della canzone.
«Everybody knows you dance like you fuck, you dance like you fuck, you dance like you fuck…» canta, mentre forma un cerchio con pollice e indice della mano sinistra, per poi penetrarlo con il medio della mano destra, in un chiaro mimo dell’atto sessuale.
«Everybody knows you dance like you fuck, you dance like you fuck, you dance like you fuck… oh yeah!»
Lo fotografo anche in quest’occasione, lo sguardo a mezz’asta ma nonostante tutto malizioso e sensuale oltre ogni limite, i tatuaggi sulle braccia che si muovono quasi fossero animati, la camicia nera sbottonata in alto che aderisce alla perfezione al suo petto.
«Quindi, come scopate qui in Belgio? Questo è quello che voglio sapere…» dice nel microfono. La folla alle mie spalle urla, piuttosto debolmente, e Josh si “lamenta” di questo.
«Oh dai, dovete scopare meglio di così! Come scopate in Belgio?» domanda di nuovo, e l’urlo della folla questa volta è un boato assordante.
«Uh… questo andava bene, cazzo» commenta Joshua, fingendo di farsi aria con una mano e ghignando sornione. Lo fotografo nuovamente, e prima di tornare a cantare la canzone si volta appena verso di me.
È un istante, è un momento in cui i suoi occhi incrociano i miei, un attimo in cui capisco che sono irrimediabilmente fottuta. La canzone ricomincia ed io ho la mia macchina stretta tra le mani, mentre cerco di razionalizzare anche questo: Josh mi ha destabilizzata, e qualcosa mi dice che passerà del tempo prima che io possa uscirne.
«Nicotine, valium, Vicodin, marijuana, ecstasy and alcohol… c-c-c-c-c-co-caaaaiiiine!»
Le note della canzone esplodono nuovamente nell’aria, riscuotendomi dall’intorpidimento momentaneo e permettendomi di riprendere a scattare fotografie all’evento. Una nuova istantanea di Joey, un’altra di Troy, l’ennesima di Michael, una smorfia di Dean… e poi, immancabilmente e instancabilmente, torno sulla figura del leader del gruppo. Davvero non riesco a fare a meno d’immortalare lui, la sua incredibile statura, il modo in cui scosta i capelli dalla fronte; il mio obiettivo è l’ago magnetizzato di una bussola, e Joshua è il suo Nord.

Il concerto finisce più di mezz’ora dopo. I Queens of the Stone Age abbandonano gli strumenti sul palco, che riesco a fotografare prima che qualcuno arrivi e li porti via. Il pubblico continua a urlare, e ormai si è fatta sera; rimane solo una band a esibirsi dopo il gruppo californiano, un gruppo di Seattle piuttosto sconosciuto. I camerini sono quasi vuoti, così che alla fine nel backstage rimaniamo a grandi linee solo io, i Queens of the Stone Age e qualche tecnico del suono.
L’Olandese* e Dean sono i primi ad abbandonare il luogo del concerto. Non sono i più vecchi del gruppo – Joey li batte entrambi di qualche anno, mi pare – ma sono piuttosto stanchi. Dean è stato debilitato da una recente influenza, mentre Troy sicuramente avrà già trovato con chi passare la notte.
«Buona fortuna» gli augura Josh, facendogli l’occhiolino.
Sono oziosamente seduta su una poltrona del piccolo camerino del cantante; Joey, palesemente scazzato per un motivo tutto suo, sta raccogliendo la sua roba per andarsene a sua volta. Dopo pochi minuti, gli unici sopravvissuti siamo io, Josh e Mikey Shoes**.
Joshua sta bevendo tranquillamente da una bottiglia di vodka, mentre io l’osservo di sottecchi e mi chiedo come possa trattenere tutto quell’alcol in corpo; Mikey, invece, si sta fumando una canna ed è in viaggio verso mondi che noi “mortali” possiamo solamente immaginare.
«Beh, abbiamo suonato bene, no?» Josh posa la bottiglia a terra, ma essendo troppo sbilanciata questa cade e il prezioso contenuto si rovescia a terra. «Porca puttana…» mormora il rosso, prima di afferrarla con una manona tatuata e rimetterla al suo posto. Si rimette a posto anche lui, le gambe troppo lunghe e alte per sedersi comodamente sul divano a due posti.
«Hey, tu» richiama la mia attenzione con un cenno del capo verso di me. Per fortuna già lo stavo guardando, o non mi sarei mai accorta che si stava rivolgendo a me. «Vieni qua con quella macchinetta, fammi vedere le foto di questa sera.»
Batte appena la mano accanto a sé, sulla pelle nera del divano su cui si trova. Come un automa mi alzo e lo raggiungo, senza aver nemmeno considerato la possibilità di rifiutare la sua richiesta e tornarmene a casa, come dovrei fare. Mi accomodo accanto a lui sul morbido divano, mentre Michael si alza svarionato dal divanetto opposto al nostro e ci sorride, strafatto.
«Bella, io… chiamo un taxi, ok?»
Joshua annuisce appena, un movimento così impercettibile che me ne accorgo solamente io che gli sono accanto. «’Notte Mikey, fila dritto a casa» gli raccomanda, ghignando.
Shuman esce dalla porta con un sorriso ebete sulle labbra e le scarpe che strisciano sull’improvvisato pavimento di linoleum; cerca di procedere in una traiettoria rettilinea, ma la cosa gli risulta piuttosto difficoltosa. Nascondo un sorriso e Josh si volta verso di me. Lo guardo appena, non osando sfidare del tutto quegli occhi verdemare.
«Allora, queste foto?» chiede, accendendosi una sigaretta presa da un pacchetto posato a terra e inspirando a fondo.
Io mi sporgo appena verso di lui e, in silenzio, accendo la digitale. In un secondo sono sugli scatti di quella sera: le espressioni di Dean, i movimenti fulminei di Joey, i capelli color pece dell’Olandese, le guance paffute di Mikey e i tatuaggi blu di Josh sono tutti lì, sotto i nostri occhi. Il rosso scorre velocemente le immagini, osservando con relativo interesse – ho capito solamente tempo dopo che gliene importava davvero, davvero poco di quelle immagini – i momenti che ho immortalato.
«Qual è il tuo nome?» mi chiede improvvisamente, staccando gli occhi dalla digitale e puntandoli sul mio volto. Abbasso istintivamente i miei, incapace di reggere – o meglio, resistere – il suo sguardo.
«Lena» rispondo, il tono basso e piuttosto roco, per colpa delle sigarette e dell’imbarazzo di quel momento.
«Lena» ripete lui, allungando appena le vocali del mio nome. «Mi hai scattato un’enorme quantità di fotografie, sai, Lena?» il suo tono carezza appena il mio udito, la voce bassa e ammaliante.
Mi azzardo ad alzare lo sguardo, ed è qui che mi fotto da sola: gli occhi verdemare di Josh che fanno a pugni con i suoi capelli sono il maleficio più potente di questo mondo. Mio malgrado non sono in grado di distogliere lo sguardo dal suo, inchiodata dall’incapacità di ragionare che quegli occhi mi causano.
Vostro Onore, richiedo che l’imputata sia dichiarata incapace d’intendere e di volere.
E lo sono davvero, soprattutto quando percepisco chiaramente il sentore del suo alito – il forte odore acre della sigaretta unito a quello etilico della vodka –, segno che si è fatto più vicino a me. Maledetto.
Josh sa cosa vuole e, cosa ancora più importante, sa come ottenerlo. Sa che non deve fare altro che sbattere le lunghe ciglia fulve per farmi sospirare, sa che non deve fare altro che leccarsi lentamente le labbra – come sta facendo in questo momento, mettendo a dura prova il mio autocontrollo – per farmi agognare un suo bacio, sa che non deve fare altro che rigirare la sigaretta tra le dita per far sì che io desideri che queste percorrano la mia pelle.
La sigaretta cade sul linoleum, continuando a bruciare lentamente fino al filtro. L’odore di questa si è diffuso nello spazio angusto che Josh ed io dividiamo, togliendoci ossigeno di cui, in ogni caso, nemmeno c’importa.
Libere da ogni impedimento, le mani di Joshua sfilano con lentezza studiata la Reflex dal mio collo, posandola poi su un tavolino lì accanto. Quando anche la digitale se n’è andata – e la cosa mi fa pensare che probabilmente non è così ubriaco come credevo – le sue dita s’intrufolano velocemente sotto la mia canotta larga, una rappresentazione rossa del simbolo della pace su uno sfondo grigio. Un sospiro sfugge dalle mie labbra, la schiena che si piega involontariamente all’indietro e l’uomo che si stende sopra di me.
Sul suo volto è dipinto un sorriso strafottente, un sogghigno in barba alla vittoria che ha avuto su di me e sul mio corpo: vorrei riuscire a mandarlo a fanculo per questo suo carattere, per la sua spudorata sicurezza, per il suo essere così Joshua, ma l’unica cosa che riesco a sentire è l’eccitazione che sale, e le sue mani consapevoli di esserne la causa.
La sua bocca si avventa sulla mia con una ferocia che ho potuto solamente sperare, e che finalmente ho ottenuto. I suoi denti mordono, la sua lingua lambisce e bagna ogni centimetro che raggiunge, le sue labbra morbide hanno il sapore acre delle sigarette – come lo devono avere le mie – e quello forte dell’alcol.
Ci spogliamo di tutto: dei nostri vestiti, delle nostre difese, dei nostri ruoli, delle nostre identità, e la notte nel camerino è la notte più breve della mia vita.

*

«Dicono farà piuttosto caldo, oggi» commenta Josh alle mie spalle, gli occhi verdemare socchiusi a causa della luce fastidiosa. Il bulbo di luce, che illumina la stanza senza alcuna protezione attorno, ronza fastidiosamente, probabilmente fin troppo per le orecchie ipersensibili di Joshua. Passare la serata a suonare, bere e fumare non dev’essere un toccasana per il corpo.
Alzo le spalle, infilando velocemente gli slip e gli shorts. «Poco importa, devo passare il resto della giornata al pc per fare un edit delle vostre foto, e poi devo postarle sul sito ufficiale» mormoro appena, con un disperato bisogno di un caffè ma, prima di tutto, di una sigaretta.
Ne prendo una dal pacchetto di Josh e in un istante la sua mano tatuata ha acceso lo zippo e me lo sta porgendo; inspiro forte e poi rilascio il fumo, mentre il rosso imita i miei gesti. Con la sigaretta stretta tra le labbra raccolgo la mia borsetta e la borsa della mia macchina digitale, riponendone con cura l’obiettivo, e sistemandomele poi entrambe in spalla. Rimango a fissare Joshua per un istante, poi gli sorrido.
«Ci si becca in giro, eh?» lo saluto, poi per uscire e chiudere la porta alle mie spalle.
L’ombra di un sorriso ancora aleggia sulle mie labbra quando mi allontano in taxi dal luogo del concerto: questa notte ha vinto lui, ma la prossima sarò più battagliera.

 

 

*Il soprannome Dutch (Olandese, appunto) viene attribuito a Troy Van Leeuwen.
** Mikey Shoes è, invece, il soprannome di Michael Shuman.

 

Note:
Ho scritto questa shot qualche tempo fa, quando avevo da poco conosciuto la persona cui l’ho dedicata. Laura ha infatti scritto una versione ‘presente’ di Lena, descrivendo il suo rapporto presente con Joshua, mentre io l’ho immaginata nel passato, durante uno dei primi incontri con lui. Non sapevo bene cosa fare di questa storia, a dire il vero, ma mi sono infine decisa a revisionarla e postarla.
L’input per la storia l’ho avuto da questo video, in cui ritroverete fatto per fatto tutto ciò che ho fatto ‘dire’ a Joshua – escludendo l’inquietante parte in cui dice «Se Amy Winhouse avesse preso tutto quello che ho preso io, sarebbe una ragazza morta», in una sorta di cupo presagio di morte, lol, poor Amy.
Beh, credo sia tutto. Spero, naturalmente, che la storia vi possa piacere c:
A presto!
Rigmarole

   
 
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