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Autore: unaltrapelle    12/06/2014    1 recensioni
Una breve storia d'amore adolescenziale tutta da scoprire.
"Per pochi secondi i loro cuori, che già battevano all'impazzata, si sincronizzarono, come fanno le rondini nei nidi, aspettando l'inverno finisca, senza volere che duri troppo poco."
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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<< Era un mattino nebbioso quel giorno, in paese. La nebbia lo cingeva tutto come il fumo di una casa mangiata dalle fiamme. Comignoli, palazzi, le panchine ai lati delle più strette vie, tutto era annegato da una fitta nebbia che lasciava poco spazio ai sensi e un largo respiro all'istinto. Si respirava come una densa aria parigina, con il monte a fare da Torre Eiffel ed i grissini negli zaini a fare da controfigure alle baguette assenti. Tutto, tutto ciò che un occhio può vedere, era come immerso in uno stato di attesa ed allerta, come se ogni movimento dovesse essere guidato da astrusi ragionamenti. Persino l'autista, quel giorno, quasi esitava ad addentrarsi nel paese, scivolando in mezzo agli alberi, per giungere alla fermata. Quasi con esitazione, quell'anonimo pullman blu si fermò davanti a quelle quattro tavole in croce che qualcuno osava chiamare fermata. Tutto andava avanti col respiro sospeso, tutto tranne lei. Impeccabile come sempre saltò giù dall'ultimo gradino con una faccia di finta snob, di chi finge ma che l'umiltà ce l'ha dentro. Teneva stretta a se, sopra il petto, una comitiva di libri che spaziava dall'odiato latino ai sognanti romanzi d'amore. Li teneva stretti a se in un abbraccio geloso, come non volesse permettere a quei ragazzi perfetti che abitavano le pagine in rosa di fuggire via, per lasciarla sola anche tra un segnalibro e l'altro. Uno sguardo innocente il suo, che pulì spostando dagli occhi una ciocca ribelle sfuggita alla furia dell'elastico, che tanto le teneva i capelli legati e tanto la faceva sembrare indomabile. Come potevano sfuggire agli occhi dei passanti delle simili pennellate accese di rosso, su delle labbra nate turgide, da far invidia al botulino? Quel passo sicuro non la contava giusta a nessuno di quei muri colorati che truccavano le strade del paese, proprio a nessuno. Francesca, questo era il suo nome, era capace di soffocarti con un occhio e salvarti la vita con l'altro. Sapeva uccidere e dare la vita col suo sguardo stregante, quasi magico. Niente, però, lo rendeva ancora più fresco e vitale della vista delle sue migliori amiche - o almeno così credeva. Un abbraccio e due risate, un muro in pietra a fare da scudo, i libri sempre in braccio come fosse una mamma sempre attenta a dover accudire i suoi piccoli. Lei si sentiva al sicuro, le sue spalle no. Vedevano, sotto la sua maglia a righe bianche e rosse, che qualcosa non andava. Un'ombra, nuova, stava facendo breccia tra la nebbia. Con un gesto secco, lei, afferrò l'elastico che le cingeva i capelli liberando nell'aria la poca insicurezza che le gravitava attorno. Un vento sospirato le diede una mano a pettinarsi. Apparve raggiante come poche volte prima di allora. Nel mentre, come una pantera pronta all'attacco, dietro lei l'ombra si avvicinava. Due tizzoni ardenti dal colore del mare tagliavano a metà quel volto. Unto d'una sana magrezza, per qualcuno un difetto, per altri una nota in più ad una melodia ben scritta. Dicevano di lui che fosse come musica, un crescendo d'archi che trovava il meglio di se in un tripudio d'archi e una marcia di timpani e grancasse. Una musica che non finiva mai. Quel viso aveva anche due braccia, incredibilmente. Due braccia e due gambe, gambe che con un balzo costeggiarono quelle di Francesca. Due braccia che la strinsero forte dicendo più cose di qualsiasi silenzio. "Chi sono?", disse, l'ombra, spostando i suoi palmi sugli occhi di Francesca. "N-non…non lo so.", l'imbarazzo di Francesca si poteva mangiare insieme al pane. Con uno scatto si volto, cadendo vittima, come folgore, degli occhi di Lui. Un ombra che aveva finalmente un colore e che non dava più preoccupazioni alle sue spalle. Al cuore si. "Oddio, scusami!", disse il belloccio dai capelli bruni. "Ti ho scambiata per V…un altra persona! Sono Matteo, comunque" e tese una mano alla poverella. "Io Francesca. Comunque non…non ti preoccupare". Fu di congedo un sorriso accomodante, ed una ciocca portata dietro ai capelli. Persino le foglie avevano smesso di cadere. La polvere non voleva posarsi che altrove. L'aria di attesa ora aveva un perché. In fondo, come un grido disperato, urlava la campana. “Cazzo”, si lasciò sfuggire Francesca comunque elegantemente. Entrò pochi secondi prima della professoressa, scomposta e ancora sotto shock. Non capitava ogni giorno di avere una fortuna del genere e, quel calore, lei, non lo aveva provato mai. Non era un padre, non un fratello, non un amico. Aveva un gusto nuovo. Una cosa che aveva paura di nominare. C’era chi avrebbe osato chiamarlo Amore. “Ma no, dai – diceva tra se nel silenzio lungo una mattina – non ti montare la testa. Solo un equivoco, ecco cos’era. Non cercava me infatti. No no, anche se, quei capelli. No, era solo colpa della luce, fa sembrare tutto più bello, anche quei bellissimi occhi. Eh no. Non puoi pensarci tutta la mattina! Che ragazzo caldo. Forse è sembrato così a me. Il vento…”. Insomma, non si dava un attimo di pace. Nessuno in quella stanza poteva rendersi conto di tutti gli ingranaggi, quella rete in continuo ricamo dei suoi pensieri, il cuore, stretto, contratto, come in uno spavento. Non c’era mai stato in lei niente di simile. Campana dopo campana, trillo, squillo, suono d’allarme. Tutto le scandiva gli attimi prima di un prossimo incontro. Di un altro mangiare sguardi. “Drin. Drin. Drin.”, suonò quattro volte ancora. Era una prova antincendio. Tutti i passi attorno a lei scandivano i millesimi di secondo che precedeva quel momento. Un altro momento. Le ore le erano scivolate addosso veloci, tanto che l'unica motivazione per cui era andata a scuola era stata decisa dal fato. Non aveva parlato con nessuno quel giorno. Non che nessuno andasse da lei a parlare, solo che lei stava muta, voleva far fare tutto agli occhi per una volta, impulsiva e nevrotica com'era sempre stata. Preferiva pensare a lui e parlargli attraverso il vetro, tra gli alberi che si affacciavano dalla testa di quella casa rossa che stava a fissarla, gli stessi alberi che, nonostante fosse inverno, sfoggiavano una chioma più che rigogliosa. Discese le scale e giunta al cancello restò a fissare la folla che impaziente fuggiva da quel buco quadrato di scuola. A passi svelti le si avvicinò Giulia, un'amica gracile, ma determinata nel parlare. "Ohi, Fra' - girandosi di scatto Francesca la fulminò con lo sguardo - non ti ho notata oggi alla ricreazione, ma...cerchi qualcuno?". "No, nessuno in particolare", ribatté. "Vuoi stare sola?". "Si, scusa". E proseguì, sola, nella sua ricerca. Dov'era andata a finire quella camicia a quadrettoni blu? E quei capelli perfetti? I suoi occhi non c'erano. Ritornò il giorno dopo e per tutta la settimana ancora, ripetendo la scena all'infinito, sino a convincersi che fu un caso, o un'allucinazione, averlo trovato fuori da scuola quel giorno di dicembre. Le restava solo il ricordo e la voglia. Voglia di abbracciare ancora quegli occhi. Occhi che ormai sparivano. Sparivano scemando nel freddo di quel dicembre luminoso. Il 18 fu un giorno da ricordare. Quando ormai era solo un ricordo eccolo di nuovo. Camminavano affianco l'un l'altro quando lei voltandosi lo vide. "Matteo?" e gli occhi di lui si illuminarono, innamorati. Ricambiò con delle parole che non capì, tant'erano strette in un sorriso candido, sorriso sincero che le mozzò il fiato di netto. Chiunque da lontano avrebbe notato il rossore, la gioia e l'ingenua consapevolezza di un volersi scambiare un bacio alieno, placata dall'alienità stessa di quei sorrisi. Erano sconosciuti, quasi per finta. Sembravano conoscersi da mesi. Sembrava già tutto scritto. Probabilmente era così. Gli sguardi si scollarono in tempo per sfuggire all'apnea, appena in tempo per poter stampare quell'azzurro nei suoi occhi. Il tempo giusto per illuminare quell'ombra e avere ancora voglia di lui. La sua compagna di banco, Anna, che per qualche giorno aveva sofferto l'influenza ed era tornata tra i banchi con la bellezza di un fiore appassito, dovette bersi parole su parole, come fossero ancora medicine. "E se queste settimane fosse stato male? Non mi pare però, è ancora uguale. Quant'è bello. E se stesse pensando a me e per l'imbarazzo non fosse venuto? No ma che dico. Magari era a un viaggio. Mi avrà pensato? Profumava di muschio. Voglio abbracciarlo. Voglio sentire meglio il suo amor...odore. Insomma dai. È solo uno sconosciuto bellissimo. E si chiama Matteo.". "Silenzio voi due - interruppe la prof di biologia - o devo sbatterne fuori una?". I giorni allora si misero a correre, inciampando ogni giorno, nel sorriso di quello splendido ragazzo, sembrava quasi nascondesse qualcosa dietro quella faccia angelica e scomposta. Nella durezza del mento, la morbidezza di quelle labbra fini, sotto il sentimento vivo che trasudava dai suoi gesti c'era qualcosa che non andava. Era venerdì e cadde di 21. Era l'ultimo giorno prima delle tanto agognate vacanze di Natale. Uscivano tutti alla quarta. Lui compreso. In quella mescolanza di volti e zaini e jeans e leggins e giubbotti loro spiccavano su tutto. Non perché fossero stravaganti nel vestire, però si notavano. E lui notò lei. E lei notò lui. Le loro braccia si cercarono. I loro petti si strinsero. Per pochi secondi i loro cuori, che già battevano all'impazzata, si sincronizzarono, come fanno le rondini nei nidi, aspettando l'inverno finisca, senza volere che duri troppo poco. Lei, poco più in basso di lui, alzò la testa verso i suoi occhi a cercare un coccio di cielo pulito. Lui là guardava di già. Le testa si inclinavano, cedendo, silenziose, a un incontro lento. "Matte! Ti muovi?" e di scatto voltò la testa. Doveva andare. E non aveva più tempo. E il tempo si portava via lui. Le lasciò un tiepido bacio sul collo, profumato come rose. Un bacio e un brivido sulla schiena, come se avesse capito tutto. E ciò che la gente chiamava amore fosse vero. Sfiorandole la mano fuggì lasciandole un gesto leggero negli occhi, come foglia che cadeva. Un gesto naturale quanto quell'abbraccio che non sembrava avesse intenzione di finire lì. Passò le notti prima di Natale abbracciata a un cucino viola, sempre con gli occhi lucidi e quel bacio sul collo, in una stanza che nell'attesa, troppo lunga, della fine di quelle vacanze, sembrava avere l'aspetto di una prigione. 26. 27. 28. Si, 28 fu il numero giusto. Era annoiata e impaziente. Per fare lo sgambetto al tempo leggeva un libro che un'amica le aveva passato. Era d'amore, come tutte le letture che circolavano nel sottobosco rosa della sua classe. La vibrazione del telefono la fece balzar fuori dalla stanza in cui Abby e Travis, nel romanzo, litigavano. "Esci? Ho voglia di una passeggiata con te". L'espressione di dubbio mista a confusione che stava seduta sulla sua faccia non di può descrivere. Non si chiese nemmeno chi fosse. Sarebbe potuto essere chiunque. Di sicuro era una delle sue migliori amiche, col telefono della mamma, o della zia rimasta il a vivere per tutto il natale. "Arrivo, mi metto qualcosa di decente e sono fuori". Mise il cappotto nero e i jeans scuri che le piacevano tanto. Scarpe bianche e rossetto rosso. Bianche per poco, visto che uscendo finì in una pozzanghera. "Nonna, io esco. Di a mamma e papà quando tornano che sono uscita con le mie amiche" "Si, ciao tesoro. Non fare tardi!". È chiuse la porta. Uscita, strizzò gli occhi per non far entrare il freddo. Tutto era confuso, allora, lenta, li aprì, come un pacco di natale. L'erba, rabbrividita, ai margini della strada, la salutava contenta, agitata dalle ventate di ghiaccio che soffiavano da est, quasi sapesse fosse un giorno importante. Masticò qualche metro svelta, verso la piazza, come sempre. "Ehi! Ma dove vuoi andare?" disse urlando piano un qualcuno dalla voce non nuova, profonda, quasi roca, dalla sfumatura acutamente puerile. Si voltò di scatto mandando capelli in ogni dove, come una nuvola di fulmini nel mezzo di un cielo umido. Il vento gentile le liberò subito la vista. In fondo della strada quel qualcuno aveva un senso. Un nome, e degli occhi azzurri. Di li a poco, persino un sorriso luminoso. Lasciò andare la borsa panna per strada, non curante della strada bagnata dalla pioggia di una notte. Corse, come lui. Non sapeva cosa stesse accadendo in lei. Era bastato davvero uno scambio di sguardi e qualche ora passata a conoscersi tra numeri e parole indirette e sguardi e abbracci? Sapeva soltanto che non aveva di che attendere. Il tempo ormai si era consumato sin troppo, e il desiderio di sapersi l'un l'altro propri era troppo. Si incontrarono sotto la luce falsa di un lampione. Le loro braccia erano intrecciate ancora, stretti in un abbraccio che faceva invidia al caldo di un camino. E i cuori cantarono insieme in un coro di vene incontenibili, rossori di gote e mani come aggrappate in strapiombi di schiene. Le teste piano si avvicinavano e finalmente, senza urla che potessero disturbarli e con la testa impegnata a memorizzare il momento per l'eterno, abbandonarono i loro pensieri e si strinsero in un bacio, il primo di tanti milioni, lungo un infinito e dolce come il profumo di cui amava vestirsi. Poggiò lui per primo le labbra sulle sue, come un uomo stanco che torna dal lavoro e si stende nel letto per riposare. Francesca fu una perfetta complice, le schiuse come rosa lasciandosi andare. Il vento, nel timore di disturbarli, si fermò. Tutto attorno a loro era sospeso. Come quel giorno di fine novembre in cui un abbraccio di volle insieme. Si strinsero ancora e si dissero profonde parole d'amore. Presi per mano tagliarono la strada in due e cercarono un posto, un nido d'amore, rondini d'inverno alla ricerca di un intimo calore.>> lo scricchiolio della porta irruppe nella stanza, attirando l'attenzione delle bambine. "Disturbo, per caso?" disse piano la voce entrando dalla porta e le fessure degli stipiti. "Nonno!", urlarono in coro le bambine. Si sedette a fianco alla moglie, davanti ai letti delle bambine. "Bambine, la storia finisce qua. Anche perché il continuo già lo conoscete, e lo vedete voi stesse. Ora fatevi salutare che è davvero tardi per delle luccioline come voi che domani faranno 5 anni!". I nonni la baciarono in fronte e misero per bene le coperte. Presi per mano uscirono dalla stanza e fecero cenno di spegnere l'abat-jour mandando un bacio leggero come una farfalla. Si misero a letto e si guardarono negli occhi. "Mi ami sempre, vero Ma'?". "Come non potrei?". A luci spente e ad occhi chiusi, indovinando i lineamenti guidati dalla luna, si concessero un bacio come a dir buonanotte ed amami ancora. Francesca e Matteo anche quella notte dormirono abbracciati. Non contava l'età o i decenni che ormai erano trascorsi da quel 28 dicembre. Loro si amavano e si sarebbero amati ancora, come avevano fatto il giorno prima ed io giorno primo ancora. La notte si spense insieme agli occhi azzurri di quell'ombra innamorata dai capelli argento.
   
 
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