Confusion   Aprendo gli occhi, quello che si trovò dinnanzi fu la visione di un soffitto chiaro e intonso, con i margini ancora offuscati di stanchezza e sfumature di un sogno indecente. Ciò che ricordava meglio era confusione liquida: il sapore della passione frettolosa, del bisogno, della sfida. Mai si sarebbe immaginato di assaggiare quelle labbra con l’inclinazione sfrontata e il sorriso strafottente, neppure di desiderarle tanto ardentemente da sembrare febbricitante; eppure era successo, si era lasciato cadere in un varco privo di fondo, dimentico della realtà logica, e aveva continuato a precipitare giù – sempre più giù – quando i tocchi si facevano intensi e divenivano certezze. Le carezze mutavano in prese, i baci si convertivano in morsi affamati e il sangue che scorreva placido nelle sue vene aveva preso a rombargli nelle orecchie come fosse un fiume in piena, un tornado vero e proprio. Continuava a fissare quel soffitto quasi si trattasse di un appiglio, ma non aveva agganci ed era così lontano che neppure riusciva a sfiorarlo – poteva solo battere le palpebre, sciogliere i muscoli e aspettare che tutto quanto assumesse delle connotazioni più vivide. Il peso del suo corpo lo ancorava sul divano, gli premeva contro senza farsi scrupoli e si scostava appena per fargli dispetto solo quando aveva scovato un nuovo segreto da tormentare e pizzicare con la punta delle dita. Si comportava nel sesso quasi più egoisticamente che in gioco, adorando quei momenti di spasmo che nascevano nell’altro per coinvolgerlo in una ripresa lenta e sfiancante dove gli ansiti regnavano subalterni e la voce si mozzava in gola con offese trattenute a stento. Aomine Daiki aveva suonato alla sua porta come se nulla fosse e si era lanciato contro di lui per tenergli salda la nuca nel costringerlo a un contatto umido che aveva dell’irreale. Mordendogli le labbra, poi, aveva scoperto quanto fosse detestabile una sconfitta al di là del campo da basket, come se quella non bastasse, perché gli era parso di sentirlo ridacchiare divertito prima di farlo cadere giù, lì dov’era ancora, per stabilire ruoli e limiti di entrambi. Con un’occhiata decisa e qualche parola ben assestata, si era imposto oltre la vergogna e la negazione, dopodiché l’aveva annullato con famelici silenzi, mentre i vestiti frusciavano con foga e divenivano troppo stretti o troppo larghi allo stesso tempo – non c’era spazio per respirare, ma ne esisteva troppo per quell’imposizione. La resistenza che aveva opposto era plausibile per ben più di un motivo, anche se non sarebbe neppure riuscito a elencarne qualcuno in quella circostanza, ma la diffidenza era sciamata, si era persa nell’aria soffocante di quel salone, e i pensieri, annullati, erano diventati vitrei al di là del velo d’eccitazione che gli si era posato contro per appannargli la vista e annebbiargli i sensi. Esistevano solo le sue espressioni fatte di guizzanti motti di vittoria, baci di fuoco che gli riscaldavano il collo e gl’incendiavano il ventre quando le mani cercavano una pelle rovente e in attesa al di là dei pantaloni; allora sì che le parole si erano disperse, ebbre d’adrenalina e sconnesse da gemiti strozzati.   Era stato solo un sogno, ma tanto reale da fargli saltare i nervi di prima mattina.   Note: Dedico questa storia a Nahash, visto che in qualche modo è stata da me contagiata con questa coppia e dal momento che, implicitamente – ma neanche troppo implicitamente (?) – me l’ha chiesta. La ringrazio per avermi fatto notare l’errore di dislessia e adesso festeggerò per averne commesso solamente uno ~