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Autore: Ermellino volante    16/06/2014    1 recensioni
Siamo intorno agli anni '80 del 1900 in una tranquilla zona periferica londinese, dove vive una non del tutto tranquilla famiglia di licantropi inglesi: gli O'Connel. Creature fornite di zanne, artigli e occhi gialli, sì, ma anche di intelligenza altalenante, corpo in via di sviluppo e ormoni fiammeggianti. Soprattutto per quanto riguarda il secondogenito Jared, almeno; o per il primogenito Daniel, la terzogenita Tiana, il quartogenito Connor, o anche per i membri del branco avversario, quello dei Mickey, che forse tanto avversario non è. Creature terrificanti, gli adolescenti affetti da licantropia: impossibili da controllare e con la testa del tutto persa. Eppure, anche loro hanno i loro piccoli grandi problemi, che possono andare da storie amorose che rasentano l'assurdo a creature sconosciute che minacciano il buon equilibrio di famiglia.
Perché si sa, in guerra e in amore tutto è concesso, e questa storia tratta un po' di tutti e due.
Oswald Mickey detto Oz lo accolse porgendogli quella che sembrava una canna molto artigianale.
« Solo sigarette per me, lo sai » replicò lui, respingendola.
« Come sei noioso, Jar.»
« L’ultima volta che ho preso una di quelle sono finito ad ululare sul tetto della preside. Vorrei evitare.»
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You just have 
to claw your way.

 
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If you'd like to find out 
what's behind these cold eyes)




 



0.
Prologue



 

« Dove credete che abbia trovato la tequila, quella tipa? » Un ragazzo biondo, dai capelli a spazzola e grandi occhi grigi, smise un attimo di unirsi alle risate che risuonavano nel vicolo da ormai qualche minuto, assumendo un’espressione seria. O almeno, la parvenza di un’espressione seria. Lo sguardo interdetto si soffermò sulle ombre lasciate dal calare del sole; presto si sarebbe fatto buio.
« Dio, l’avrà fregata a qualche negozio. Ti preoccupi di queste cazzate, Malcolm? » Un tipo tarchiato, con un marcato tatuaggio sul collo, parlò con voce rauca dalle risa. « Passamene un sorso. »
Malcolm obbedì. Il ragazzo che sedeva su un bidone della spazzatura, a gambe incrociate, continuò a esibire un sorriso malizioso. « Se fosse stato per me, me la sarei fatta. Un pochino. »
« Aveva un culo da paura, » commentò il tatuato, le guance presto rosse per l’alcol ingerito. Malcolm si ritrovò ad annuire, con un grande sorriso. « Se ne trovano poche di gnocche così ai tempi d’oggi. »
« Non era più tanto carina, con la faccia coperta di lividi, » sghignazzò il ragazzo a gambe incrociate. L’intera combriccola – non più di quattro o cinque ragazzi tra i sedici e i diciannove anni – scoppiò in una seconda fragorosa risata, incuranti delle gole secche.
« Aveva le tette un po’ deformate dopo quei pestoni, » ghignò un tipo appoggiato al muro, un bicchiere vuoto stretto nella mano. Il suo viso era quasi del tutto oscurato. « Ops. »
« Sua madre è una puttana di merda, la vedi più in tangenziale che a casa sua, » disse il tatuato. « Tale madre, tale figlia. E per le stronzate si paga. » Gli altri membri del gruppo annuirono, gli sguardi seri stampati sui volti praticamente paonazzi. Malcolm si rese conto che era quello con meno alcol in circolazione; si affrettò a buttare in gola altre rapide sorsate, per non sembrare il sobrio della situazione. Era l’ultima cosa che voleva, fare la figura del ragazzino innocente che era all’inizio della scuola.
Era per quello che l’aveva picchiata, in fondo, quella ragazza di cui nemmeno sapeva il nome. Lei e le altre vittime della gang. Lo aveva fatto per ricevere un po’ di quel rispetto che riteneva di meritare sin dalla nascita, ma che purtroppo il fisico magrolino e gli occhiali non gli avevano mai concesso.
Eccolo, il suo momento di riscatto.
« Merda, gli sbirri! » urlò qualcuno mentre Malcolm rifletteva. Il ragazzo sbarrò gli occhi spaventato, mentre il resto della combriccola si scrollava improvvisamente, cominciando a muoversi con fare intontito dalla troppa tequila; le voci erano deformate, anche dalla paura di venire sbattuti in riformatorio. Probabilmente la maggior parte di loro aveva già passato in gattabuia almeno un paio di giorni; ma questo non era un valido motivo per ripetere l’esperienza, anche considerando che la loro incarcerazione avrebbe potuto incoraggiare la ragazza pestata a sporgere denuncia.
« Correte, stronzi, correte! » urlò il tatuato, afferrandolo per la maglietta e spingendolo via. Malcolm inciampò sui propri piedi, sentendosi spinto via da centinaia di corpi in preda al panico; poi prese la carica e scattò via, il più lontano possibile dalle luci che si avvicinavano rapide e minacciose. Presto le voci concitate cominciarono a sfumare via, sostituite dal suono dei suoi piedi che battevano sull’asfalto e del respiro che usciva dalle sue labbra.
Non aveva la più pallida idea di dove andare. Troppo tardi si rese conto, appoggiandosi contro un muro per prendere fiato, di essere tornato nella zona dove un’oretta prima avevano picchiato la ragazza. Improvvisamente la paura lo colse intorno allo stomaco, facendogli venire la nausea; desiderò allontanarsi da quel luogo seduta stante, tornare a casa, infilarsi nel letto e rimanerci fino a che il sole non avesse illuminato del tutto il cielo. Scrutò il paesaggio intorno a lui, troppo poco illuminato per rivelargli una via di fuga sicura.
« Cazzo. » Nell’istante in cui pronunciò quella parola, qualcosa si mosse nell’ombra, minaccioso e fugace. Negli occhi di Malcolm si raccolse, più che paura, vero e proprio terrore; il ragazzo si appiattì di più contro il muro. Non era un genio, e difatti urlò qualcosa come « Chi sei? Fatti vedere! » Frase che nelle situazioni di pericolo è sempre conveniente non dire; ma lui era troppo stupido per saperlo.
Ormai era chiaro che una figura si stesse avvicinando a lui, rapida e più inquietante che mai. Non produceva alcun tipo di rumore ed era questo che spaventava Malcolm; il ragazzo sentiva il corpo paralizzato dal panico, tranne per le ginocchia, che tremavano a scatti e sarebbero cedute a momenti. « Fatti avanti! » urlò, più forte, per darsi un’aria di superiorità inesistente. « Sono più forte di te! »
Tirò un pugno nel vuoto, che ovviamente non colpì nulla. Per un attimo nulla parve compiere un passo. Malcolm, immobile contro il muro freddo, lasciò che un respiro gli sfuggisse dalle labbra.
E allora qualcosa di feroce e crudele gli si avventò addosso. Nella più completa oscurità, il ragazzo vide solo un corpo ancor più nero e più denso dell’aria intorno a lui che gli agguantava il collo e gli copriva la bocca; lottò per qualche secondo, tentando di liberarsi, ma senza alcun esito. Presto i polmoni cominciarono a fargli male; non riusciva a respirare. Agitava le braccia a casaccio, ma la presa del nemico era troppo forte.
Lasciami andare, brutto stronzo! La mente era sfocata, i pensieri senza senso, il corpo aveva bisogno d’aria, tutto faceva male, la testa gli scoppiava. Lasciami andare!
L’ultimo pensiero che riuscì a formulare fu che si trattava di una specie di vendetta del fato, un grande scherzo che il destino gli aveva giocato per aver coperto di lividi la vittima della sua gang. Non pregò, non chiese perdono, mandò semplicemente a quel paese la ragazza, se stesso, e l’essere che lo imprigionava sotto il suo corpo con mossa ferrea.
Poi il mondo svanì del tutto e il suo corpo giacque a terra per molte ore, finché i soccorsi non lo trovarono la mattina dopo, abbandonato sull’asfalto, freddo e senza vita.

 
 
Il mio regno per un albero in mezzo alla strada non era la cosa più strana che Barbra Shepard avesse mai desiderato, ma almeno questa volta un motivo l’aveva, perché avrebbe volentieri preferito un incidente alla lezione di Diritto che l’attendeva in terza ora. Le striminzite due pagine di tesina che era riuscita a ricavare da un pomeriggio in biblioteca la fissavano con aria di disapprovazione, e non poteva nemmeno metterle nella cartella; avrebbe sentito quell’accusa bucare la stoffa blu e premerle la schiena. 
Inutile dirlo ormai, Diritto era la materia più subdola e odiosa che fosse mai stata inventata. Appoggiò la testa al finestrino aspettando che il bus partisse e chiuse gli occhi, ripassando mentalmente l’argomento per l’interrogazione, quando qualcuno la scrollò per le spalle, facendola rizzare seduta e guardinga. La ragazza, tenendo gli occhi assonnati, borbottò qualcosa di confuso sul regime dittatoriale. Subito si rese conto che il paesaggio fuori dal finestrino non era più lo stesso e che, senza volerlo, era scivolata addormentata sulla tesina, sbavando e russando molto poco femminilmente. Sbiancò, notando le grosse macchie umide che imperlavano la tesina, e la tese davanti a sè soffiando a piene guance su quel completo disastro, voltandosi a guardare gli occhi scuri, maliziosi e divertiti della ragazza davanti a lei. 
Tiana O’Connel, detta Tia dagli amici, e Titty da quelli che volevano ricevere un sonoro calcio in culo, si sedette di fianco a lei, tenendo lo zaino sulle gambe lunghe e magre. Barbie ebbe una veloce visione dei suoi tre altissimi fratelli che entravano dopo di lei, anche il più piccolo che, ormai, la comparava in altezza. Ma non ci fece molto caso. Non era sicura nemmeno di come si chiamavano, tranne per uno… Daniel, quello più alto, ipotizzava. Ma la sua attenzione era completamente rivolta verso la migliore amica, che ridacchiava sotto i baffi cercando di sistemarle il mostro biondo che aveva in testa.
« Oddio, Bà…ma ti sei pettinata, stamattina? » 
Barbra sbuffò sistemandosi come meglio poteva alla chetichella.
« Sì che l’ho fatto, ma a quanto pare questi capelli hanno vita propria. » La risata dell’amica fu una risposta più che sufficiente. 
« Insomma, che stavi facendo prima di addormentarti? » 
« Cercavo di capire qualcosa di quello che ho scritto su questa maledetta tesina. » 
Tiana sorrise, sfilano dalla borsa un foglio e una penna. « Oh, wow, quindi tu l’hai fatta? »
Barbra annuì, fissando il foglio. « Sì, perché? Tu no? »
L'amica fece una smorfia imbarazzata, sfoderando quello sguardo da cane bastonato che la dissuadeva sempre. « Beh, ho pensato che la mia cara amica bionda, con una criniera al posto dei capelli, » aggiunse ridacchiando e scompigliandole ancora di più la chioma « mi potesse far dare un occhiata alla sua... » 
Barbra strinse le labbra, in quel modo che la faceva assomigliare ad una papera; ma sorrise subito dopo, alzando gli occhi al cielo, e passandole i fogli. « Okay, solo perché mi hai fatto copiare il compito di matematica… »
Tiana rise, abbracciando l’amica. « Grazie Bà, giuro che ti presento uno dei miei fratelli! »
« Dio, grazie. » Barbra finse di pensare. « Voglio quello alto! » 
« Quello moro o quello castano? »       
« Niente punckettone, il castano mi va bene. » Tiana ghignò sotto i baffi, seguita da a ruota da Barbra. « Scherzo, io ho il mio Tommy! » La bionda arrossì lievemente, sorridendo e scrollando le spalle, e Tiana ghignò, tirando una gomitata scherzosa all’altra.
« Ehi, fate proprio sul serio, eh? » Il silenzio imbarazzato con cui Barbra le rispose fu eloquente. « Quindi, hai intenzione di… » Lasciò la frase in sospeso, lanciando uno sguardo che diceva di più delle parole.
Barbra arrossì ancora di più, sistemandosi i capelli dietro le orecchie e lanciandole uno sguardo sfuggente con gli occhioni grigi.  « Beh… forse… chissà… » 

« Oh, bene, mi piaceva però quella tua strana cosa dell’aspettare il matrimonio! »     
La ragazza le rispose con una linguaccia. « Non l’ho mai smentita, infatti. Penso solo di doverglielo dire. Tutto qui. »
Tiana sbuffò, alzando gli occhi al cielo, preferendo cambiare discorso. « Ehi, hai sentito di quel tizio che si è ucciso questa notte? »
« Sì, terribile. Veniva nella nostra scuola, avevo una cotta per lui in seconda elementare… »
« Poi è arrivato Tommy in terza e la tua vita ha avuto uno scopo, » scherzò la mora, ridendo al rossore dell’altra. 
« Beh, a me pare strano, tutto qui. Non aveva nessun motivo di farlo… »
Il sorriso quasi si spense sul viso di Tiana. « Tutti hanno dei segreti, Barbie. »
Barbra la guardò male; solo suo padre poteva chiamarla così. Già non aiutava essere bionda, con gli occhi chiari, come quella bambola stereotipata. 
« Chissà, » disse solo, chiudendo l'argomento. E per quella mattinata era già stato abbastanza.

 
 

« Jared! Spegni quella cosa! »
Una mano sbucò dalla coperta a quadri blu, che formava una massa bitorzoluta sopra il letto incassato fra due armadi, sotto una mensola coperta di qualunque cosa si potesse immaginare; dalle foto di un bambino moro che stringeva un enorme cervo, a un libro sui migliori modi per cucinare le barbabietole con il Ricettario di nonna Rosalie, prima edizione originale del 1953.
Fra queste stava una sveglia a forma di pomodoro, con lancette fatte a cetriolo che in quel momento segnavano le 7.30 del mattino. Per far notare l’ora tarda, l’ordigno aveva pensato bene di cominciare a trillare con una suoneria che in seguito avrebbe spinto il compagno di stanza del suo proprietario a calpestarla ripetutamente, ma questa è un’altra storia.
Riguardo al ragazzo appena citato, il suo nome era Jared O’Connel, e la mano precedentemente nominata era la sua. Costui era un comune individuo maschio di diciassette anni, con capelli neri e disordinati, e occhi marroni, che però in quel momento erano serrati a causa di un grosso sbadiglio.
Non erano tali a quelli dell’altra persona che abitava in quella camera, Daniel O’Connel, il quale, emerso dal bagno per urlare le parole che abbiamo appena sentito, lanciò un tubetto di shampoo contro il fratello, che finalmente alzò la testa dal morbido cuscino blu.
« Arrivo, arrivo, » mugugnò con un altro sbadiglio. « Shampoo alla prugna, Danny? Davvero? » aggiunse prendendo in mano il flacone. Non ottenne risposta.
Emise un suono incomprensibile e allungò il piede per afferrare le ciabatte, ma si sporse troppo e cadde rovinosamente a terra, portando con sé la coperta e un pupazzo a forma di orso che si trovava sul suo comodino da prima che potesse ricordare. 
« Danny! » esclamò.
« Che c’è? »
« Sono per terra! »
« Fai le prove per inchinarti al mio cospetto? Ne sono lieto, ma fallo un’altra volta: siamo in ritardo. » 
Visnù, dammi la forza, pensò Jared rialzandosi e massaggiandosi il sedere dolorante. Si guardò intorno: come aveva detto l’altro, non c’era tempo da perdere, ma la sua parte di stanza era messa davvero male; tra cartine di tutti i continenti sparse per terra e due paia di mutande a fragoline pendenti dal comodino, sua madre l’avrebbe ucciso appena entrata. Quindi la decisione era fra il subire le ire della donna per la stanza e il ritardo a scuola. Decisione potenzialmente suicida da entrambe le parti.
A risolvere il dilemma pensò il solito Daniel che, rientrato nella stanza, gli gettò addosso lo zaino già fatto, intimandogli di muovere il sedere e di non sperare di trovare i cereali al miele al suo arrivo a colazione, minaccia troppo terrificante per essere ignorata. Si decise quindi ad afferrare una camicia azzurro chiara e dei pantaloni di tela nera, il minimo indispensabile per poter entrare nella prestigiosissima scuola pubblica St. Theresa, un covo di drogati, hippie e potenziali assassini, senza essere ripresi per oltraggio al pudore. Una regola sciocca e insensata, secondo lui, tanto che si rifiutava di indossare una qualunque t-shirt. Un vero ribelle.
Lo zaino a quanto aveva visto l’aveva già fatto Danny, forse in un momento di noia, quindi a lui non restava che trovare le scarpe, mettersele e scendere a uccidere Connor, il suo altro fratello, per impedirgli di toccare i suoi cereali al miele, visto che il ragazzino si svegliava troppo presto ultimamente e cercava di spadroneggiare sull’alimento che Jared aveva conquistato nei due anni prima della nascita dell’altro; illuso.
Era pronto a correre giù e stenderlo, ma si verificò un problema, un orribile avvenimento che era riuscito ad evitare per svariati anni, ma non quel giorno. E ciò lo innervosì, parecchio.
« Mamma! » urlò affacciandosi alla porta. La donna rispose poco dopo, sbucando dalle scale.
« Che cosa c’è? Sei pronto? » chiese.
« Hai rimesso a posto il mio armadio stanotte? »
L’altra si fermò un secondo a pensare, poi disse: « Non stanotte, ieri sera mentre eri chissà dove. »
« Come hai potuto?! » scattò Jared. « Ora non riuscirò più a trovare nulla! »
« Oh, non essere esagerato. »
« Esagerato? Non riesco a capire dove siano i miei calzini a pallini! Prima li avevo messi al sicuro, nel posto dove vanno i vestiti per il giorno dopo! »
« Che sarebbe? »
« Pendenti dal primo cassetto ovviamente. »
La madre chiuse gli occhi per un istante, trattenendo il respiro: probabilmente si stava trattenendo dal rimproverarlo in virtù del ritardo. Infine, sussurrò: « Perché non provi a fiutarli, Jared? »
« D’accordo, ma non toccare i miei vestiti. »
Mentre rientrava nella stanza, sentì la madre che sussurrava qualcosa sulla stupidità congenita dei suoi maschi mentre si allontanava; in un altro caso forse le avrebbe risposto qualcosa di ironico, ma in quel momento aveva il naso in aria, e ciò non favoriva la concentrazione sull’udito.
Alla fine riuscì a scovarli, nascoste per qualche strana ragione sul cornicione fuori dalla finestra. Gli venne il dubbio che fosse stato Daniel a metterli lì: lui odiava quelle calze, ogni volta che il fratello le indossava, non riusciva neanche a guardarlo in faccia, e così suo padre, Tom, e sua sorella Tiana. A sua madre e Connor non importava granché, ma Jared era sicuro che anche loro, se ne avessero avuto l’occasione, non avrebbero esitato a buttarle nel fuoco. Tutti incompetenti, ecco che cos’erano.
Come si poteva non amare quel paio di calzini, giallo canarino a pallini viola con il centro rosso? Li aveva trovati due anni prima a Covent Garden, e da allora lo avevano accompagnato nei momenti più bui della sua vita, e quel giorno gli avrebbero fatto passare una giornata con la minaccia di essere pestato a sangue dal fratello della sua ultima ragazza. La cosa ironica era che, se avesse potuto, lo avrebbe tranquillamente ridotto a brandelli, ma i suoi erano così rigidi riguardo a cosa era lecito fare e cosa no con i loro poteri: niente zanne, artigli, o altre cose pericolose contro gli umani.
Con loro in giro, essere licantropi era davvero una noia. Perché gli O’Connel non potevano essere dei lupi mannari divertenti, eh no. Dovevano stare tranquilli, non trasformarsi se non con la luna piena e altre cose del genere. Erano regole fissate dal suo bisnonno, un vecchiaccio malefico di nome Herbert, nome così orribile che forse era proprio la causa stessa del suo comportamento odioso, cosa che comunque non lo giustificava.
Alla fine comunque riuscì a scendere, tenendo le scarpe in mano per ostentare ciò che aveva ai piedi, e le reazioni dei suoi familiari furono quelle che si aspettava: mentre suo padre e Connor non diedero nessun segno di aver notato la sua presenza, sua madre strinse le labbra, Daniel chiuse gli occhi con un’espressione di disgusto, e sua sorella Tiana fece una smorfia.
« Non si sono ancora putrefatti? » chiese, acida come suo solito.
« Potrei farti la stessa domanda, » replicò Jared. « Connor, tocca un altro dei miei cereali e non avrai più uno stomaco abbastanza integro per digerirli, » aggiunse sedendosi di fianco al fratello che, rabbuiato, gli passò la scatola.
C’erano giorni in cui la tavola era imbandita di tutto ciò che un giovane lupo mannaro nell’età dello sviluppo potesse desiderare, ma accadeva solo la mattina della luna piena, o ai loro compleanni; quella era solo una mattina di settembre come tante altre, neanche il primo giorno di scuola, quindi c’erano solo cereali e qualche uovo sporadico. Ciò dipendeva anche dal fatto che, a giudicare dal rumore che veniva dal piano di sotto, il loro bar era pieno, e quindi i genitori stavano probabilmente aspettando di liberarsi di loro per potersi occupare dei clienti.
« Potremmo passare dalla finestra » propose Connor affacciandosi, una volta finito di mangiare. Nessuno gli rispose, ma Daniel lo afferrò per la maglietta e se lo trascinò indietro mentre scendevano, salutando brevemente i genitori.
Saliti sul pullman fecero ciò che gli veniva meglio: si divisero. Tiana andò in fondo, dalla sua amica bionda che, a quanto poteva vedere, stava sbavando sopra un foglio; Daniel si recò dal suo gruppetto; Connor si sedette accanto alla sua stramba amica rossa.
In quanto a Jared, si buttò accanto al suo migliore amico, Oswald Mickey detto Oz, un ragazzo riccio e smilzo che poteva tranquillamente essere considerato sia nella categoria dei drogati, sia in quella dei potenziali assassini, che lo accolse porgendogli quella che sembrava una canna molto artigianale.
« Solo sigarette per me, lo sai » replicò lui, respingendola.
« Come sei noioso, Jar. »
« L’ultima volta che ho preso una di quelle sono finito ad ululare sul tetto della preside. Vorrei evitare. »
Oswald sbuffò e cominciò a parlare dell’ultima ragazza con cui aveva passato la notte, affermando che presto avrebbe battuto il record di Jared in quel senso, cosa che quest’ultimo non poteva assolutamente permettere, altrimenti l’amico l’avrebbe preso in giro per il resto della sua vita.
Una tranquilla mattina di un tranquillo 18 settembre 1987.


 
   
 
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