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Autore: Hika86    18/06/2014    6 recensioni
"Allora Aragorn fu turbato perchè vide la luce elfica sfavillare nei suoi occhi insieme con la saggezza di molti anni; e da quel momento egli amò Arwen Undómiel figlia di Elrond" [...] "E sul colle di Cerin Amroth, quando abbandonammo sia l'Ombra che il Crepuscolo, accettammo il nostro destino." ["Il Signore degli Anelli", Appendice A]
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aragorn, Arwen, Elladan, Elrohir, Elrond
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Non era sempre vissuto ad Imladris e la sua Casa, anche se bella, a volte gli diventava stretta: le stesse rocce, gli stessi fiumiciattoli, lo stesso rombo incessante d'acqua, padiglioni, scale e stanze che conosceva perfettamente; a volte Elrond non riusciva a rimanerci, memore dei grandi spazi dei regni in cui aveva vissuto, delle lunghe cavalcate fatte anni addietro su e giù per montagne e colline, quando lui e il mondo erano più giovani. Quando accadeva, prendeva con sé una decina di Elfi, indossava l'armatura, sellava il cavallo e quasi scappava, allontanandosi quanto a lungo poteva permettersi.
Così Elrond, il Signore di Imladris, quell'autunno non rimase in casa: la Terra di Mezzo era tranquilla da qualche tempo, nessuna preoccupazione che richiedesse intervento immediato, e inoltre la stagione era una delle più belle, quindi aveva deciso di assecondare quel bisogno di fuga. Era partito quando le foglie degli alberi oltre il ponte d'accesso erano ancora verde acceso, sferzate solo da un venticello più fresco del solito, ma tornava alcuni mesi dopo, quando i rami degli alberi erano quasi tutti spogli, l'erba ingiallita era coperta da foglie marroni accartocciate e scricchiolanti. Passò tra le due statue di guerrieri elfici e chiuse gli occhi, respirando profondamente. L'odore di terra bagnata e pioggia era forte e quasi pungente.
«Mara entulda, herunya!» salutarono alcuni Elfi scendendo le scale. Il lungo e squillante suono del corno del suo seguito aveva annunciato il rientro del padrone di casa e loro erano accorsi, eppure Elrond li guardò con lo sguardo velato di tristezza: era partito con il cuore pieno di impazienza e tornava che era pieno di una stanca pesantezza, invece che di soddisfazione; ma era così ogni volta che faceva quelle fughe, perché quando usciva rivedeva l'Eriador e quella era ancora una vista penosa per lui. Probabilmente lo sarebbe stata per sempre, perché gli Elfi non dimenticano, nè lo fa la Terra: quel luogo dove un tempo viveva gente della sua stessa specie, era ora una landa desolata e silenziosa e quel silenzio nelle sue orecchie era al contrario il rumore più feroce. Il colpo inflitto dal Nemico era stato devastante, gli Elfi morti erano stati un numero terribile e gli altri sopravvissuti erano dovuti fuggire davanti alla crudeltà dell'attacco. E non erano più tornati, come la bellezza di quei luoghi.
«Siamo tornati!» esclamò in risposta, attendendo che il cavallo rallentasse la sua corsa nello spiazzo. Sollevò una mano guantata in saluto e finalmente sorrise.
«Mara entulda, Elerondo!» si sentì rispondere da una voce alta e chiara. In cima alla scalinata Glorfindel guardava verso di lui con un lieve sorriso a piegargli le labbra. Aveva i capelli sciolti, la chioma era domata sulla nuca da una fitta rete di piccole trecce che si intersecavano tra loro fino ad unirsi in una unica più grande che finiva tra le scapole, nonostante normalmente le ciocche gli arrivassero lisce fino ai fianchi.
«Mara tuvina, nildonya!» gli disse Elrond con un largo sorriso, quindi smontò agilmente da cavallo, facendo appena rumore con gli stivali di cuoio morbido contro la dura pietra del piazzale d'ingresso.
Forse Imladris aveva una volontà propria. Si stringeva addosso al suo signore per soffocarlo e spingerlo ad uscire, ma solo per poi fargli capire quanto meravigliosa e unica fosse quella casa. Gli Elfi dell’Eriador, quegli stessi Elfi, erano lì a salutarlo con un sorriso e ogni suono di quel luogo riacquistava un senso: il rombo delle cascate, il continuo gorgogliare dei rivoletti d'acqua, il cinguettio degli uccelli che numerosi facevano volentieri nido tra i rami degli alberi di quell'oasi; quella era vita, una cosa ormai rara nelle terre fuori dalla gola, e la Casa di Elrond era stata una speranza.
Ci erano voluti alcuni anni per costruire Gran Burrone e per farla diventare come ora molti viaggiatori conoscevano nella Terra di Mezzo: un'Ultima Casa Accogliente. Indubbiamente, il posto era stato trovato in un momento di pericolo, quando urgeva un luogo riparato dove ripiegare, minacciati dalle forze del Nemico, ma col tempo gli Elfi che erano rimasti lì avevano costruito seguendo l'andamento delle rocce e delle alture, rispettando il piegarsi dei rami e il cammino dei corsi d'acqua o le pozze quasi immobili che si aprivano poi nel vuoto del crepaccio. Infine gli interessi, le speranze e l'amore di Elrond per la conoscenza e lo scambio, avevano plasmato ciò che quel luogo era e rappresentava al di là dei suoi edifici di legno e pietra: uno spazio di ristoro, di studio, di sapienza. Sollevando lo sguardo sugli edifici, sui rami più alti e infine sul cielo terso del primo giorno d'inverno, Elrond ricordò perché quella era casa sua.
«Date da mangiare ai nostri compagni, ci hanno servito fedelmente» raccomandò agli Elfi porgendo le redini del proprio destriero e accarezzandogli il muso dolcemente. Gli sussurrò parole di ringraziamento, quindi aspettò che la sua compagnia fosse smontata. Mentre camminava tra loro, presi a sganciare i fagotti e le armi dalle selle, li ringraziò uno ad uno, scambiò alcune ultime parole e infine diede il permesso di andare alle proprie stanze e riposarsi dopo la lunga stagione passata fuori casa. Per ultimo salì le scale dove Glorfindel lo attendeva paziente.
«Com'è stato l'autunno?» gli domandò quando si trovava sugli ultimi gradini
«Colorato e tranquillo» rispose il biondo Elfo chinando il capo verso di lui quando lo ebbe finalmente raggiunto
«Grazie per aver tenuto Imladris per me, spero non sia stato faticoso» disse Elrond mettendogli una mano sulla spalla, segno per poteva raddrizzarsi
«Non è successo nulla, mio Signore, tanto che nessuno ricorderà mai che il padrone di casa sia stato via per un'intera stagione» spiegò l'altro accennando ad avviarsi verso i primi edifici. «Abbiamo notizie di Elladan ed Elrohir, e sono buone. É stato Mithrandir a portarcene alcune»
«Ah, il buon Mithrandir. Che affari lo portavano da queste parti?» lo interruppe, incuriosito
«Conosci lo Stregone, dice poco dei suoi affari e io certo mi guardo bene dal domandare, ma mi è sembrato di capire che avesse tra le mani una faccenda riguardante i Nani». Glorfindel lasciò il passo all'amico stanco dal lungo viaggio mentre passavano sotto le strette arcate di legno finemente scolpito, ritrovandosi così nel padiglione d'ingresso ad Imladris. Dalla sua pianta circolare partivano corridoi, ponticelli e camminamenti verso gli altri edifici della Casa.
«I Nani?» domandò Elrond corrugando la fronte. «Hai ragione, meglio non porsi domande» concordò ridendo allegramente
«Ada!».
Una voce sottile dal tono gentile e squillante di gioia raggiunse le sue orecchie. Quando Elrond guardò con attenzione nella sala, vide Arwen giungere di corsa da uno dei ponticelli che venivano da Nord. Senza dirle nulla, allargò le braccia e la strinse a sé quando finalmente lei lo ebbe raggiunto. La figlia profumava sempre del vento fresco della sera, quell'aria che soffiava via l'afa del giorno, le fatiche, le preoccupazioni e, sì, anche le gioie, lasciando spazio solo per una profonda calma. Il padre si ritrovava sempre a sospirare rilassato quando l'aveva vicina dopo tanto tempo di lontananza.
«Come stai? É andato bene il viaggio?» domandò lei dopo la prima stretta affettuosa. Si allontanò un poco per osservargli attentamente il viso. «Ti sei tagliato?» fece passandogli una mano sulla tempia
«Non è nulla di grave» le rispose prendendole le dita tra le sue. «Le terre intorno alla nostra casa sono tranquille, ci siamo solo avvicinati un po' alle montagne a Nord»
«Orchi?» domandò Glorfindel, rimasto in disparte durante l'unione tra padre e figlia
«Sì, ma ripeto: niente di grave, né la ferita, né l'attacco» insistette Elrond. Non era una bugia, ma non era nemmeno tutta la verità.
Ormai erano molti anni che Elrond non scendeva in campo a combattere, quindi i pochi momenti di scontro che aveva erano gli sporadici incontri con gli Orchi che eventualmente scendevano dalle Montagne Nebbiose per disperdersi nelle valli e sui pendii della zona intorno ad Imladris. Nei loro confronti però Elrond non combatteva più con il disprezzo che ogni Elfo provava per quelle creature: in lui si era sviluppato un odio più profondo che nello scontro gli infiammava il cuore spingendolo a combattere quasi con ferocia. Era il ricordo della moglie, di come era stata ritrovata dopo la prigionia in mano a quelle creature, e di come, anche dopo aver guarito le ferite, non si fosse mai ripresa del tutto. A scontro concluso quella frenesia fluiva via dalla sua mentre e lui si ritrovava spossato e dolorante nell'animo. Una tristezza profonda gli ricordava come, nella speranza di riavere indietro il suo amore di un tempo, avesse fatto costruire appositamente un piccolo gazebo allo scopo di donare alla sua amata la solitudine e la pace di cui tanto sembrava aver bisogno, cercando nel frattempo di ricordarle anche della famiglia che attendeva il suo vero ritorno, ritraendola nel vetro della cupola: c’erano dei figli che rivolevano la loro madre, un marito che aveva bisogno della moglie e dei genitori che temevano di non rivedere più la figlia tornare presente nello spirito e nella mente.
«Immagino che vorrai riposare, padre, ma temo sarai costretto a rimandare: c'è una cosa che penso vorrai vedere» spiegò Arwen con un sorriso divertito
«Non tenermi sulle spine allora, andiamo» Elrond sorrise a sua volta alla figlia
«Faccio controllare che la tua camera sia in ordine?» domandò Glorfindel. «Non sapevamo quando saresti tornato, né, di conseguenza, quando preparare tutto per il tuo ritorno»
«Penso ci abbiano già pensato altri ad avvertire, tu non preoccuparti: non sei certo il mio scudiero»
«No» rispose il biondo Elfo guardandolo negli occhi. Sulle labbra aveva un "ma" non espresso ed il padrone di casa lo fissò negli occhi celesti per qualche secondo, senza sbattere le palpebre.
«Allora, sì, ti prego» cedette infine Elrond. Questi sembrò soddisfatto e con un inchino a lui e ad Arwen, si allontanò.
Il Nobile Glorfindel voleva essere gentile, come chiunque avrebbe fatto se avesse saputo quali preoccupazioni si agitavano nel cuore di un amico, soprattutto se erano quelle che affliggevano Elrond ognuna delle rarissime volte in cui si allontanava da Imladris. E il biondo Elfo doveva averli indovinati quando aveva nominato gli Orchi.
Il padrone di casa seguì la figlia lungo i camminamenti e i ponticelli, ascoltandola raccontare di come la stagione aveva colorato Imladris e delle notizie dei suoi abitanti, sia bipedi che quadrupedi; questo finché non arrivarono dove Arwen desiderava. Alcune stanze per gli ospiti, attualmente vuote, si affacciavano sul prato che veniva usato per l'addestramento. Gli edifici erano di pietra e legno, lasciati del loro colore naturale per meglio mimetizzarsi con la natura, solo il pavimento del camminamento che passava davanti alle porte delle camere era un mosaico di sfumature blu e azzurre. Il punto dove si trovavano era ad un livello più alto rispetto al terreno del prato di almeno un metro e per raggiungerlo c’erano alcuni larghi gradini che scendevano a semicerchio verso l’erba. Erano ognuno di una diversa tonalità di verde acqua, così che dal colore dell’acqua dei pavimenti dell’edificio, si avesse l’impressione di scendere una scala di tonalità per raggiungere il verde naturale del prato. Peccato che essendo inverno, lo spiazzo fosse coperto solo da erba ingiallita. A pochi passi dalla fine dei gradini, Estel e Elrohir davano loro le spalle, rivolti verso il bersaglio dall'altra parte del prato.
Elrond guardò la schiena del giovane che non era suo figlio, ma che era inevitabilmente arrivato ad amare come tale. Gli sembrò cresciuto dall'ultima volta che lo aveva visto, anche di spalle. Si era di nuovo tagliato i capelli da solo, l'irregolarità della parte finale delle ciocche era evidente, e lui si lasciò sfuggire un sorriso rassegnato quando notò quel particolare. Lo osservò tendere l'arco con un movimento fluido, poi i muscoli delle braccia si irrigidirono e la testa si piegò leggermente, avvicinandosi alle piume della freccia, per prendere la mira. Lo guardò rimanere immobile con le gambe leggermente divaricate per almeno una ventina di secondi, poi il ragazzino lasciò la presa e il colpo partì.
«Duecentonovantanove!» esclamò Elladan entusiasta quando il bersaglio venne colpito al centro. Fece per avvicinarsi al bersaglio.
«Lasciala!» esclamò il ragazzino che aveva rapidamente incoccato una nuova freccia. L'Elfo fece in tempo a fermare i suoi passi e a girarsi a guardarlo con aria interrogativa che il colpo era già partito: poco calcolato, istintivo. Le due frecce erano al centro del bersaglio una vicina all'altra. «Trecento» osservò il giovane abbassando le braccia e rilassando i muscoli. «Era per voi!» esclamò quindi voltandosi e alzando lo sguardo su Elrond, rimasto sul primo scalino. C’era un sorriso raggiante sul viso del ragazzo quando i suoi occhi scuri incontrarono i suoi. Il Signore di Imladris, altruista e affabile con tutti, notò con egoistica e personale soddisfazione che il ragazzo aveva guardato lui per primo: per Estel, Elrond era ancora più importante di chiunque. Infatti lasciò l’arco e si affrettò a raggiungerlo con una breve corsa. «Bentornato a casa» lo salutò
«É stato un autunno impegnativo se questo è il suo risultato» disse l’Elfo. «Non avrai trascurato i libri per l'arco, vero Estel?» domandò, fintamente inquisitorio, mettendogli le mani sulle spalle. Impossibile che il ragazzo non avesse letto i volumi che gli aveva consigliato prima della partenza, anzi, si sarebbe meravigliato se non ne avesse letti persino di più: anche se cresceva, le storie continuavano a piacergli molto.
«Abbiamo dovuto nascondergli i libri certe volte» scherzò Elladan, venendo verso di loro con le due frecce in mano
«Ho trovato un libro bellissimo in biblioteca, dopo posso fartelo vedere?» chiese il ragazzino con gli occhi luminosi d’entusiasmo. In poco meno di mezzo anno avrebbe compiuto 11 anni e fino a quel momento lo aveva visto crescere di quasi cinque centimetri ogni anno: ormai non gli veniva più da chinarsi per parlargli e non doveva più stendere il braccio per posargli una mano sulla spalla.
«Certo che sì, i libri mi sono proprio mancati in questi mesi» rispose sorridendogli
«In questo sembra proprio figlio tuo » osservò Arwen scuotendo il capo.
Estel ed Elrond si scambiarono una lunga occhiata d’intesa, senza mai interrompere il contatto visivo: un lieve sorriso sulle loro labbra sembrava dire più di quanto avrebbero potuto esprimere a parole. Quello non era suo figlio, ma era orgoglioso di come aveva contribuito a crescere quel giovane. E allo stesso modo, quello non era suo padre, ma per Aragorn era come se lo fosse perché non c’era stato nessun altro ad occupare quel posto.
«Se invece i miei figli sono qui» disse infine Elrond facendo scivolare via le mani dalle spalle del ragazzo. «Significa che sono andati per la loro missione e sono tornati prima del dovuto. Avrete qualcosa da raccontarmi immagino»
«É così. Attendevamo il tuo ritorno, padre» annuì Elrohir
«Ma possiamo aspettare: vorrai toglierti di dosso l’armatura e metterti qualcosa di più comodo immagino» sorrise Elladan, arrivando alle spalle di Aragorn e appoggiandosi con entrambi i gomiti alla sua testa
«Giustissimo» annuì l’Elfo. «Continuate pure il vostro allenamento finché c’è luce, avremo tempo per parlare stanotte»
«E il libro?» insistette Aragorn. Quando Elrond lo guardò, notò che il ragazzo aveva parlato a lui, ma i suoi occhi stavano tornando a fissarlo, non erano rimasti a guardarlo: mentre aveva parlato con i gemelli, era stato distratto da altro.
«Ho detto “stanotte”. Noi due invece avremo tempo “stasera”» concesse con un sorriso. «Mi accompagni?» chiese allora rivolgendosi ad Arwen, che era rimasta silenziosa e tranquilla ad un passo di distanza da lui
«Più che volentieri, padre» rispose prendendolo sotto il braccio che lui le offerse
«Non dirgli niente però» sussurrò Aragorn alla fanciulla
«Ho le labbra cucite, promesso» gli rispose posando l’indice sulla bocca e facendogli l’occhiolino.
Padre e figlia si allontanarono mentre i tre che rimanevano facevano un inchino per salutarli.

L'inverno si preannunciava rigido: a meno di un mese dal suo inizio, la neve era caduta anche più in basso. Alcuni dei passi più alti per raggiungere la valle erano chiusi, il che significava che molti amici e alleati non sarebbero passati di lì per quella stagione. Imladris passò così un inverno di pace profonda, ma occhi guardavano l’orizzonte, oltre il quale si stendeva il mondo, con crescente angoscia.
Una sera, la musica si diffondeva dalla Sala del Fuoco, fino alla lunga balconata sul lato est. Gilraen era avvolta in un pesante mantello di lana color crema e una sciarpa di fine seta elfica le proteggeva il collo. Era celeste, mentre dal sottile cerchio argentato che le circondava la testa scendevano sottili catene di lunghezza diversa, ognuna terminante di una goccia di azzurro e brillante topazio. I capelli biondi erano stretti in un’unica treccia piegata sulla spalla per scenderle poi sul petto fino all’altezza dei fianchi.
«Non ti diverti stasera?» chiese una voce dal tono gentile.
Gilraen girò lo sguardo e chinò il capo, ma non voltò il corpo intero. «I menestrelli stanno dando nuovamente una prova della loro bravura. Non sono loro il problema» rispose piano, quindi tornò a guardare il lontano orizzonte buio, in cui distingueva solo lontani picchi avvolti dalla neve
«Hai ancora tempo, non angustiarti fin da subito» fece Elrond con apprensione, mettendosi al suo fianco. Al contrario di lei, non aveva bisogno di coprirsi nonostante il freddo.
«Tempo? Quanto tempo pensi che abbiamo?» domandò la donna abbassando la voce. Erano rarissime le volte in cui gli si rivolgeva a quel modo e in quegli anni, il più delle volte, era stato solo in occasione di un unico discorso. «Aragorn compirà undici anni tra pochi mesi. I tuoi figli sono tornati prima riportando notizie del mio popolo tristi e preoccupanti: sono divisi, dispersi, senza una guida, senza alcuna speranza» elencò tremando leggermente, ma non di freddo. «Non sopporto l’idea di saperli in queste condizioni e vorrei fare per loro qualcosa, subito, dovesse richiedermi di scalare le montagne con la neve fino al collo. Ma io non ho questo potere, chi ce l’ha è mio figlio, e se a mente fredda vorrei che lui fosse presto la guida di cui il mio popolo ha bisogno, come madre preferirei venire torturata dal nemico per anni, piuttosto che saperlo fuori da questo luogo sicuro»
«Non dire così Gilraen, non lo dire» interruppe l’Elfo mettendole una mano sulla spalla. «Non lo dire».
La donna abbassò gli occhi sulla mano dell’Elfo, poi chinò il capo, brevemente.
I gemelli erano rientrati una stagione prima del previsto, stando via solo un anno, invece di rientrare come previsto all’undicesimo compleanno di Aragorn. La situazione dei Raminghi era problematica e altri eventi stavano accadendo nei regni di Rohan e Gondor. In generale la situazione nella Terra di Mezzo era di relativa calma, ma anche Gandalf, passato quando Elrond era assente, aveva lasciato detto di ricordargli che quelle fatte finora erano solo supposizioni: non potevano sapere se il Nemico fosse stato realmente sconfitto, lui infondo al proprio cuore sentiva che c’era la possibilità che non lo fosse.
Era comunque arrivato il momento per Aragorn di lasciare il nido tranquillo di Imladris. Quello che poteva imparare di teorico tra quelle mura gli era stato insegnato, ma c’erano tante conoscenze raggiungibili solo una volta fuori da lì: scritti conservati in altre città, canzoni e storie che non appartenevano agli Elfi, trucchi che solo l’esperienza insegnava, emozioni che avrebbe provato solo sul campo e davanti alle quali avrebbe dovuto essere messo alla prova infine, se volevano capire che tipo di persona sarebbe stato in futuro. Se c’era Speranza, era ora di scoprirla.
Gilraen sapeva tutto questo, lei stessa insieme ad Elrond aveva costruito quel discorso e quelle convinzioni battuta dopo battuta, durante il primo mese d’inverno dal ritorno dell’Elfo alla sua casa; ma non bastavano delle sagge parole a lenire il dolore di una madre.
«Puoi capirmi? Lui è mio figlio» mormorò mettendo le proprie dita su quelle dell’Elfo. «Ed è figlio di Arathorn. É l’unico che ho» riuscì a dire prima che le lacrime le spezzassero il respiro, togliendole la possibilità di aggiungere altro. E se fosse successo qualcosa? Qualsiasi cosa. Se suo figlio non fosse più tornato a casa? Se fosse morto in uno sconto qualsiasi? Se fosse morto per un semplice incidente? La Speranza sarebbe svanita e lei sarebbe rimasta sola al mondo, senza più un marito e senza un figlio da abbracciare. Le sembrava ancora troppo piccolo per lasciarlo andare, come un pulcino che ancora non avesse fatto altro che saltelli e dovesse invece provare a fare il suo primo vero volo fuori dal nido.
Elrond la avvicinò a sé e lasciò che piangesse sulla sua spalla, soffocando i singhiozzi sulla seta color bronzo del suo vestito. Cosa poteva mai dirle? Aveva figli anche lui, ma si rendeva conto che era diverso. Lui era un padre, Gilraen invece aveva dato alla luce il suo stesso figlio e questa cosa aveva sempre reso le figure materne e il loro legame con i figli più speciali. Per quello non poteva immaginare cosa dovesse provare all’idea di separarsi da Aragorn. Inoltre lui ne aveva tre; ovviamente non erano intercambiabili perché ognuno era speciale e insostituibile, ma se mai qualcuno l’avesse lasciato, certo ci sarebbero stati gli altri al suo fianco. E poi erano Elfi: meno fragili, meno volubili, e non erano eredi di uno dei più grandi regni della Terra di Mezzo. Gilraen invece era rimasta da sola in quel mondo: il marito era stato ucciso, non poteva più tornare dai genitori o mettersi in contatto con loro e ora il figlio, piccolo, fragile e fonte di grandi aspettative, se ne andava. No, non poteva immaginare il suo dolore.
Eppure lo comprendeva almeno in parte, perché Aragorn era ormai come un figlio per lui, e anche da parte sua non era facile accettare l’idea che uscisse da Imladris e mettesse piede in un mondo pericoloso, pieno di scontri. Lui stesso non amava la guerra: se era necessario combatteva e lo aveva fatto dimostrandosi tra i più valorosi degli Elfi della Terra di Mezzo, ma nel profondo amava la tranquillità, lo studio, la musica della natura. Se fosse stato possibile, avrebbe tenuto lì con lui il ragazzino per sempre perché, tra l’altro, si era reso conto del vuoto profondo che la partenza di Aragorn avrebbe lasciato nella sua vita. Da quando Celebrian l’aveva lasciato, Elrond si era sentito solo, così solo e triste, con i figli sempre in viaggio e Arwen nel Bosco d’Oro; ma quel ragazzino sembrava averli riuniti. Prima aveva riempito le sue giornate, e lui gli si era dedicato con gioia e passione, poi aveva trattenuto più spesso i gemelli, e ora anche Arwen gli si era affezionata.
Gli doveva qualcosa, forse, ma poteva ripagarlo solo con la possibilità di sapere l’importante verità che lui e Gilraen conoscevano. E quella possibilità era fuori da quella gola.

Il primo Marzo dell’anno 3001 della Terza Era, un gridolino di gioia riempì la biblioteca di Imladris e poco dopo, Aragorn entrava nella Sala del Fuoco tenendo tra le braccia un grosso e pesante volume. In quel momento Glorfindel stava ravvivando le fiamme tenendo gli occhi fissi su di esse e il ragazzo a sua volta fissava il biondo Elfo, stringendo il libro rilegato in pelle, odorandone il profumo di vecchia carta sottile e inchiostro secco.
Il giorno prima il fabbro di Imladris aveva finito di forgiare la sua prima vera spada, dono di Elladan ed Elrohir per il suo undicesimo compleanno, e bisognava solo aspettare il giorno dopo perché fosse pronta per essere impugnata. Avrebbe dovuto essere felice, invece all’improvviso Aragorn si era sentito nervoso: quella era un’arma vera, non era di legno e non era una lama smussata da allenamento. Qualcuno si sarebbe ferito, forse sarebbe morto, su quella lama. A quell’idea aveva sentito il cuore sprofondare e la notte non aveva dormito, temendo il momento in cui avrebbe ricevuto l’arma.
La mattina del suo compleanno aveva osservato la lama lucente cercando di mantenere un’aria compassata e tranquilla e si era unito ai complimenti dei gemelli, ma quando l’aveva sollevata gli era sembrata un peso insopportabile. L’ignoto che attendeva quella spada gli fece tornare in mente un'altra cosa da lui ignorata e che gli aveva sempre fatto provare un po’ di angoscia: il secondo volume di una storia di cui non sapeva la fine; così aveva infilato la spada nel fodero, declinando l’invito dei gemelli a provarla subito, e si era avviato verso la biblioteca, non senza un certo timore reverenziale. Anche chiusa nel fodero, l’arma gli era sembrata pesare molto al suo fianco, e quando aveva allungato le braccia verso l’alto e aveva sollevato il libro, il confronto tra i due oggetti gli era sembrato abissale: certo il tomo era ingombrante, ma era un peso che poteva sopportare, molto più di quello della spada.
«Te l’avevo detto che l’avresti saputo prima di me» disse Glorfindel risvegliandolo dai suoi pensieri
«Gerich lu?» domandò Estel con un filo di voce.
L’Elfo alzò lo sguardo dalle fiamme: le lingue di fuoco mandavano riflessi arancioni sui suoi lunghi capelli biondi e sulla tunica bianca e gialla. Gli fece un debole sorriso, ma lo sguardo sembrava a tratti spento, oppresso da pensieri foschi, e a tratti appena brillante di un misto di nostalgia, soddisfazione e tristezza. Infine fece un unico cenno pulito, annuendo con il capo, come se fosse infine arrivato ad una risposta a lungo ponderata con attenzione. Sì sollevò da terra per guardare il ragazzo nella penombra. «Darthannech far».
Il racconto ebbe luogo in quella stessa sala. Arwen si era unita a loro appena le era stato possibile, dopo che un Elfo mandato da Estel le aveva fatto sapere quel che sarebbe successo e che il ragazzo avrebbe voluto presente anche lei.
Quando vide i due seduti vicino al fuoco, nella semioscurità della sala dovuta al relativo buio che c’era fuori per colpa del tempo piovoso, non poté fare a meno di chiedersi come si fosse creata quella situazione: Estel era riuscito a prendere il libro ed esso era lì, chiuso e appoggiato nello spazio tra loro, eppure, invece di leggerlo, aveva chiesto che gli venisse raccontato e il Nobile Glorfindel aveva accettato. Li osservò e ripensò ai quattro anni in cui lei era stata presente ad Imladris: l’Elfo non aveva mai trattato Estel come un bambino, anche quando lo era stato, ma gli portava rispetto e provava affetto per lui, emozioni entrambe profonde e perfettamente ricambiate. Non doveva essere stato solo un maestro, ma doveva essere cominciato qualcosa quel mattino di sole in cui Estel aveva cominciato a parlare. Ora c’era un legame saldo e profondo che segnava ogni sguardo e ogni discorso tra loro e Arwen ancora non si capacitava di come quel ragazzino arrivasse a farsi amare da tutti quelli che avevano a che fare con lui. Persino lei che non aveva mai avuto a che fare con i bambini non gli aveva potuto resistere, e avere a che fare con lui era stato bello. Anche consapevole di quel che gli Elfi dicevano ad Imladris, ma non aveva mai avuto cuore di respingere Estel: a che scopo rifiutare i sentimenti genuini di un bambino? Crescendo sarebbe cambiato e avrebbe compreso il reale significato della parola “amore”, ma fino ad allora, al suo: "Ti voglio bene"; lei aveva sempre risposto: "Anche io, piccolo Estel"; senza pensare che ci fosse niente di male.
Con discrezione, si sedette al fianco del ragazzino che ormai le arrivava al gomito e portava una spada vera al fianco, non più la piccola spada di legno con cui lo aveva visto la prima volta; ogni tanto le prese la mano, rimanendo concentrato ad ascoltare la storia della battaglia e della fine della meravigliosa città elfica di Gondolin e lei ricambiò quel tocco, prestando a sua volta più attenzione alle parole di Glorfindel che a quel gesto.
Il termine del racconto arrivò ore dopo, a notte fonda. Senza che se ne rendessero conto era passato un giorno, Estel non aveva mangiato, se non un piccolo spuntino portato da qualcuno nella Sala, e la pioggia era infine cessata quando gli Elfi della storia ormai fuggivano per i sentieri rocciosi delle montagne. Glorfindel aveva evitato accuratamente di raccontare delle proprie gesta nei dettagli ed Estel non aveva fatto domande, ma Arwen non capì se il ragazzo avesse intuito qualcosa o fosse semplicemente troppo preso dalla paura e dalla tristezza del racconto per rendersene conto, o per ricordarsi di farle. Infine, nel buio della notte invernale, lo accompagnò in stanza, ancora tenendolo per mano, mentre avanzava ondeggiando, ubriaco di sonno e stanchezza.
«Guarda che il fabbro vuole che domani provi la spada per vedere se va bene, quindi cerca di riposare come si deve» si raccomandò quando arrivarono alla veranda antistante l’edificio che ospitava le stanze di Estel e Gilraen. A quel punto lo sentì stringerle più forte la mano. «Estel?».
Quando abbassò lo sguardo per vederlo in viso, si accorse che stava piangendo. «É per la storia?» chiese, e lui annuì con il capo senza dire nulla, anche se con un po’ di esitazione. « É accaduto moltissimo tempo fa. Sono successe tante cose da allora, anche belle. Se Gondolin esistesse ancora, il mondo oggi sarebbe diverso, e dato che il nemico ha sempre avuto molto potere, non è detto che non sarebbe potuto succede anche qualcosa di peggio» cercò di spiegargli mettendogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio
«Non avrei dovuto chiederlo a Glorfindel, vero?» domandò lui. «Ormai ho capito che la responsabilità di togliere la vita a qualcuno è qualcosa con cui dovrò fare i conti, e questo mi spaventa, per quello ho preferito sentire una storia piuttosto che tenere in mano quell’eventualità. Ma ora capisco anche che essere responsabili della vita di tante persone deve essere ancora meno facile. Lui è sopravvissuto a tanta gente con questa responsabilità: sarà stato difficile ed io gli ho chiesto di ricordarlo» sembrò riflettere, e Arwen evitò di correggere la sua supposizione, ma lo fissò con stupore. I suoi occhi erano limpidi e luminosi, come il cielo estivo alle primissime luci dell'alba, quando il mondo ancora dorme: non era uno sguardo normale, non poteva esserlo, l'alba di quegli occhi nascondeva un potenziale che in quel ragazzo era ancora dormiente, ma c'era. Era sicura che ci fosse, non poteva essere un Uomo qualsiasi. Persino mentre parlava, improvvisamente aveva sentito un timbro strano in quella voce a lei familiare. Un’inflessione di saggezza e di autorità, come se avesse parlato con una forza a cui era difficile resistere.
«Sicuramente è stato felice di raccontarti tutto di persona, anche se è un ricordo doloroso» gli rispose infine
«Non dobbiamo dimenticare il passato, se vogliamo curarci del futuro. Per questo l’ha fatto?»
«Può darsi» annuì la fanciulla, sorridendo a quelle parole. Le aveva pensate da solo o le aveva lette da qualche parte? «Ora vai a riposare, intesi?» gli ricordò lasciandogli un leggero bacio sulla fronte
«Sì, buonanotte» rispose lui arrossendo, quindi fece un piccolo inchino ed entrò in casa. Lei sorrise a quella reazione e sollevò gli occhi al cielo stellato domandandosi quale futuro attendesse quel ragazzino.

Fuori dalla finestra era possibile vedere la più grande delle cascate della gola. Un’immensa quantità d’acqua azzurra scendeva fluida e compatta dalle rocce prima dello strapiombo: cominciava come un’unica entità che poi si disperdeva nell’aria in tante gocce man mano che scendeva verso il basso, e ogni goccia sembrava duplicare, triplicare la grandezza della cascata stessa. C’era uno scroscio continuo dal punto in cui l’acqua cominciava a cadere, ma il lontano rombo udibile anche da lassù, era quello del punto d’arrivo, dove le gocce ritrovavano unità all’impatto con il fiume nel punto più basso della gola.
Elrond osservava quel moto continuo seduto alla propria scrivania, con la penna a mezza’aria, come fosse in attesa di un’ispirazione per continuare a scrivere. In realtà l’unica cosa che aspettava era l’arrivo di una persona, solo che la potenza delle cascate della gola in cui aveva costruito Imladris lo lasciava sempre stupefatto ed era capace di ipnotizzarlo: a volte passava ore ad osservare l’acqua senza fare nulla, mentre gli arcobaleni che si formavano nelle gocce in caduta cambiavano, si dissolvevano e si ricreavano.
In una doppia curva di colori, ebbe una visione. C’era un giovane sconosciuto su un cavallo, aveva i capelli castani lunghi, gli occhi chiari e indossava un’armatura ammaccata ma ancora in buone condizioni. Stava entrando nel piazzale di pietra di Imladris con l’aria stanca di chi ha viaggiato a lungo senza sosta, ma con una sorta di urgenza nello sguardo e nei movimenti. Era solo e aveva l’avambraccio destro fasciato alla meno peggio con della stoffa blu sbiadito. Quando girò gli occhi nella sua direzione gli sorrise con stupore, eppure Elrond provò una strana ed improvvisa angoscia.
«Mi hai fatto chiamare?» domandò una voce.
La visione scomparve all’istante e l’Elfo chiuse gli occhi, spostando il capo all’indietro, concedendosi qualche secondo di pausa dietro il buio delle palpebre. Non aveva idea di chi fosse l’uomo che aveva appena visto, né riusciva a spiegarsi la sensazione leggermente spiacevole che aveva avuto prima di venirne distratto.
«Sì» rispose infine quando riaprì gli occhi. Posò la penna nel calamaio e chiuse la boccetta dall’inchiostro, quindi si girò sulla sedia e si alzò. «Sì, ho bisogno di parlarti» disse ancora. Incrociò le dita delle mani in grembo e squadrò il ragazzino davanti a sé per un breve secondo, quindi gli fece un caldo sorriso e piegò il capo di lato. «Tanti auguri, anche se in ritardo».
Aragorn scosse il capo. «Grazie, ma il ritardo è colpa mia: ieri sono stato occupato tutto il giorno»
«Ho notato, per quello non ti ho disturbato. Andiamo sulla terrazza, ti va?» lo invitò l’Elfo accennandogli all’arco in legno ricoperto di edera che dava al solarium privato del suo studio. Salì i due gradini che dividevano a metà la stanza dello studio, quindi uscì all’aria aperta: oltre il parapetto si poteva vedere lo spiazzo di terra battuta al quale si accedeva dall’entrata in pietra: chi non era atteso ad Imladris o doveva venire scortato con urgenza o in segreto, si fermava sempre nel piazzale di roccia dopo il ponte, mentre le partenze e gli arrivi dei gruppi attesi, cominciavano o finivano lì. Non era prudente che lo studio del padrone di casa fosse esposto apertamente al primo ingresso, ma il secondo e più riparato era quando ci si sarebbe invece aspettati da chi era giusto che controllasse cosa succedeva in casa propria.
«Elrohir mi ha detto che non hai voluto provare subito la spada» gli disse indicando con gli occhi l’arma che portava nel fodero appeso al fianco sinistro
«Spero che non pensi che non la apprezzi. Sono anni che aspetto di averne una e mi ha reso felice» spiegò il ragazzino, ma all’Elfo fu subito chiaro che c’era dell’altro. C’era un’inflessione in quella voce che gli diceva che la felicità non era stata la prima emozione che aveva provato.
«E cos’altro ti ha reso?» domandò quindi, appoggiando le mani al parapetto e respirando profondamente nel far spaziare lo sguardo sulle cime degli alberi
«Credo “preoccupato”?» rispose in tono di domanda, come se fosse insicuro della parola usata per descrivere che cosa aveva provato. Il ragazzo si mise al suo fianco, ma tenne lo sguardo basso. «Ora che ho la possibilità di possedere una vera spada, mi rendo conto che tra il desiderare di averne una e l’averla, diventando potenzialmente in grado di ferire qualcuno a morte, ecco, c’è un abisso. E io credo, penso… insomma, ho paura» spiegò confuso. «Quando l’ho presa in mano ho realizzato un sogno, ma sono anche improvvisamente saltato sopra quell’abisso»
«Quello che divide il gioco dei bambini, dal letale gesto degli adulti» annuì Elrond. «Ma sei pronto per affrontarlo. Il fatto stesso che ti spaventi, significa che lo sei»
«Cosa vuol dire?» domandò Aragorn alzando lo sguardo, ancora più confuso
«Che se tu non avessi paura di quel che puoi fare con quella spada, rischieresti di diventare un guerriero senza alcuno scrupolo» spiegò chiudendo gli occhi. Per un attimo un brivido gli corse su per la schiena, sentiva un sorriso di soddisfazione arrivargli dal cuore: quell’animo gentile e quella mente acuta si erano formati anche grazie a lui e al sentire quelle parole si era sentito orgoglioso come un vero padre; ma non poteva permettersi quell’espressione in quel momento. Era un momento serio e tale doveva mostrarsi. Riaprì gli occhi per abbassarli sul ragazzino. «Quello che provi, invece, ti aiuterà ad usare giudizio: la morte è un dono difficile da elargire e non deve essere dispensato con facilità. Se saprai usare saggezza in questo, allora sarai un buon cavaliere e magari, in futuro, un bravo capitano: di quelli che gli uomini vorrebbero avere al loro fianco in battaglia, di quelli che le persone sarebbero pronte a seguire in ogni sfida, grazie alla fiducia che ispirano» concluse con un sorriso posato
«Bel discorso» annuì il ragazzino arricciando il labbro inferiore. «Ma non penso avrò mai modo di affiancare qualcuno in grandi battaglie, né di chiedere a delle persone di seguirmi» gli spiegò con un sorrisino. Non era amaro: Aragorn pensava sul serio che avrebbe sempre vissuto come un Elfo, lì, ad Imladris, conoscendo le battaglie solo tramite l’inchiostro e la carta.
Elrond fece un profondo respiro: era arrivato il momento. «Dimmi, Estel, che cosa hai imparato qui?» domandò cambiando solo apparentemente il discorso
«Cosa ho imparato?» ripeté lui, preso in contropiede. «Le lingue elfiche, le storia… anche se non tutta. Forse non basterebbe la vita di un uomo: la Terra di Mezzo esiste da millenni»
«Forse se ci si dedicasse solo a quella, potrebbe bastare la vita di uomo. Chissà, nessuno ci ha mai provato» si concesse di divagare dondolando leggermente il capo, a destra e a sinistra, pensieroso
«Poi ho imparato i nomi delle erbe, a curare delle ferite. Mi hanno insegnato a lanciare coltelli, ad intagliare il legno, a tirare con l’arco, a cavalcare e ad usare la spada» continuò ad elencare Aragorn, ora tenendo il conto sulle dita. «Penso ci sia altro, ma perché lo chiedi?»
«Perché è sufficiente» rispose annuendo. «Penso che sia sufficiente, ed è quasi tutto quello che puoi imparare qui ad Imladris» aggiunse Elrond, quindi staccò le mani dal parapetto e raddrizzò la schiena, girando l’intero corpo verso il ragazzino alla sua destra. Nel guardarlo, giovane e fragile, gli tornarono in mente le parole di Gilraen, mesi prima: e se fosse morto prima ancora di poter dimostrare un po’ di valore? Che senso avrebbe avuto crescerlo e sperare in lui se non fosse mai tornato vivo da loro? Ma lui sentiva che sarebbe tornato: probabilmente per allora non sarebbe più stato l’Aragorn che conoscevano, quell’esperienza l’avrebbe cambiato, ma il ragazzo non avrebbe lasciato la sua vita nel viaggio che lo aspettava, quello no. Pur certo di questo, le parole faticavano a salirgli dalla gola. Nove anni prima non avrebbe nemmeno immaginato che avrebbe provato quella sensazione, ma era così.
«Tra una settimana Elladan ed Elrohir partiranno di nuovo e stavolta non torneranno per alcuni anni» cominciò a dire
«Di nuovo? Che significa “per alcuni anni”? Per quanto?» lo interruppe Aragorn subito allarmato. «Proprio ora?».
L’Elfo lo zittì sollevando una mano nello spazio tra loro due e piegando il capo di lato. «Non è stato deciso quando torneranno di preciso e la cosa non ti riguarda: tu hai un percorso da fare e non deve essere per forza sempre legato a loro» gli disse con severità. Elrond stesso si meravigliò di quel tono: non era così che voleva dargli quell’annuncio, non era quella la voce che rifletteva il suo stato d’animo; eppure si ritrovò a continuare ad usare un’inflessione dura e a rimanere fermo in ogni movimento. «Però almeno il suo inizio lo sarà, questo è certo. Lo hai sperato per molti anni e stavolta partirai con loro, quindi fai quello che ritieni di dover fare, prepara ciò che devi preparare e saluta chi ti sta a cuore: credo che mancherai per molti anni» disse infine, tutto d’un fiato. Gli sembrò di aver tirato fuori quelle parole con fatica.
Aragorn lo fissò impassibile per qualche attimo, il tempo di recepire il vero significato di quelle parole, quindi sgranò gli occhi. «Sul serio?» domandò con un filo di voce. Gli tremava e aveva stretto i pugni. Elrond lo notò e non poté fare a meno di esserne divertito: era l’incontenibile sincerità di un bambino, e forse avrebbe fatto bene anche lui a mostrarne almeno un pochino. Si concesse una risata. Era calda, sincera, divertita, come lo scoppiettare delle prime lingue di fuoco sulla legna secca appena accesa.
«Potrei mai scherzare su questo?» gli disse allora alzando la mano e scompigliandogli i capelli. Il bambino esclamò di gioia. «Grazie! Grazie, grazie, grazie!» strillò saltellando eccitato. «Questo è…» balbettò senza trovare le parole. Si era arrossato in viso e teneva le mani ferme a mezz’aria mentre cercava le parole. «É... grazie!» esclamò ancora, e senza aggiungere nient’altro corse via dalla terrazza, via dallo studio, ad avvisare qualcuno dei suoi amici, ad avvisare Arwen, o sua madre.
Elrond guardò la sua figura di schiena mente si allontanava e ascoltò i suoi passi quando non lo poté più vedere. Calmò la sua stessa risata e infine alzò lo sguardo al cielo azzurro e vasto, socchiudendo gli occhi alla luce forte del sole della prima primavera. «Vai fuori, Aragorn. Quello che finora hai visto tra le pagine dei libri era il mondo di ieri» sussurrò, ora che era inequivocabilmente solo. «Scopri il mondo di oggi, scrivilo tu stesso. Se gli uomini ti seguiranno, se la gente ti vorrà bene, questo dipenderà da ciò che farai là fuori, figlio mio». Fece un ultimo respiro profondo e lasciò la terrazza, tornando alle sue carte.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«Ben tornato, mio signore!»
«Ben tornato, Elrond!»
«Ben trovato, amico mio!»
«Hai tempo? »
«Hai aspettato abbastanza»
• La Storia di Gondolin è raccontata in forma più o meno definitiva nel Silmarillion (mai completato da Tolkien, quindi chissà). Ma potete leggerne in italiano anche nei Racconti Incompiuti e perduti (altri accenni sono nei libri mai tradotti di History of Middle Earth)
• La spada regalata in questo capitolo è pura invenzione. L'Aragorn che leggiamo nei libri ha sempre Narsil, consegnatagli con l'Anello di Barahir quando gli viene comunicata la sua vera identitò. Ma sappiamo anche che Aragorn è uno dei migliori spadaccini della Terra di Mezzo, quindi prima della rivelazione avrà pur usato qualcosa per diventare il guerriero che è!


Per una volta posso dire di non essere in ritardo col capitolo XD Come ho già detto nello scorso, in realtà quello cominciava in modo diverso ed era già stato scritto in buona parte quando ho poi deciso di cambiarlo. Quella "buona parte" erano almeno 5 pagine di word (sulle 10 finali) che sono poi diventate l'inizio di questo capitolo. Quindi in parte era già bello che scritto e il grosso ritardo dello scorso capitolo coinvolgeva anche questo (quindi sono in ritardo comunque?).
Tra una cosa e l'altra, non è passato molto tempo in questi capitoli: 9 da quando è morto Arathorn e sono arrivati ad Imladris, 4 da quando Aragorn ha incontrato Arwen e 2 da quando ha fatto conoscenza con Gandalf per la prima volta. In 4 anni (dai 7 agli 11) si può dire che un bambino cambi molto, ma anche poco: molto fisicamente, ma mentalmente non tantissimo, più che altro penso che cambi il modo di mostrare ciò che prova (i bambini provano poca vergogna e dicono le cose come stanno più spesso degli adulti senza trattenersi, no?). In questa ottica, spero che si noti un minimo di crescita tramite alcuni dei suoi atteggiamenti, dato che in una fanfiction non si può notare visivamente, e poi ho cercato di rendere Aragorn più discreto con Arwen: il loro rapporto traspare solo in piccoli dettagli (sguardi, frasi, pensieri), quindi forse chi si aspettava un tenerissimo baby-Aragorn super in-love con Arwen sarà rimasto deluso. Del resto è un bambino alle porte dell'adolescenza: più che l'amore, sono "le cose da maschi" da interessarlo ed è l'approvazione degli altri uomini che cerca, perchè sono la sua figura paterna, quella alla quale fa riferimento.
Però è arrivato il momento di lasciare Imladris e di far crescere il nostro futuro re (aaaaazimpegnaaaaaa *urlo nella savana*). Inutile dire che mi si spezza il cuore ad abbandonare l'ambiente di Imladris, dato che è il mio preferito, ma è anche vero che voglio veder diventare adulto il nostro eroe. E comunque c'è ancora un capitolo da fare prima di mettere definitivamente piede fuori di casa per quelli che (Tolkien ci ha fatto sapere) saranno i prossimi 9 anni della vita di Aragorn.
Anche questa volta, le frasi dall'elfico sono gentilmente studiate, costruite e completate con grande fatica grazie al lavoro congiunto delle gentilissime tyelemmaiwe e melianar *scrocio di applausi*

Oltre a loro, ringrazio anche Magali_1982 e Venice93 per i commenti seri e ponderati o pazzoidi ed entusiastici che siano ^_*

Mi permetto di aggiungere una piccola cosa che non c'entra (ma un po' sì) con la ff. Questo mese su tumblr si è concluso il Tolkien read-along internazionale del Signore degli Anelli, cominciato in Gennaio. Se siete interessate/i, da fine Luglio a metà Novembre ci sarà il Tolkien read-along del Silmarillion e tutti sono invitati a partecipare. Potete leggere il libro in inglese o in italiano, come preferite. Se non l'avete mai letto può essere una buona occasione per farlo e affrontare una lettura che può essere non semplice, in maniera molto divertente. Beh, c'è chi legge e guarda cosa fanno gli altri, e basta, ma c'è chi legge e partecipa e crea delle cose stupende (una ragazza ha creato il cerchietto/simil-corona di Elrond e me ne sono innamorata!). Fateci un pensiero e se vi incuriosisce trovate QUI ogni spiegazione e QUI un piccolo trailer fatto dalla persona che organizza il tutto ;)

  
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