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Autore: Sen    19/06/2014    2 recensioni
Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.
La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.
La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.
Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.
Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Κεχαριτωμένη

(Piena di Grazia)



Agathê fu conscia solo delle grida di Minos e Deuteros. I loro cosmi esplodevano della potenza eterna delle stelle e dei colpi che richiamavano.

Eranthe era un passo indietro, e per fortuna non sembrava essere stata contagiata da quella frenesia di urla; tuttavia la giovane fioraia poteva avvertire, chiaro, il suo cosmo fatto di fuoco del colore della notte.

La sfera violacea, che il Giudice della Viverna aveva generato, aveva raggiunto Deuteros, ferendolo, e, dalle mani inesperte della ragazza, erano scaturite fiamme che, per pochi attimi, avevano imbrigliato l’avversario.

“Adesso, Deuteros!”, aveva, quindi, esortato il Santo del Gemelli che, con un ghigno distorto, le aveva solo risposto: “Come vuoi, mia signora!”.

Poi era stata un’esplosione di lava e cosmo, un torrente di stelle e galassie che si rincorrevano, come le biglie dei giochi dei bambini, d’estate, per le strade polverose di Rodorio.

La risata cupa di Rhadamanthys era agghiacciante, mentre avanzava ancora, nonostante la Surplice danneggiata, il corpo ferito e il sangue che gli colava dalla fronte.

“Ah, mi fate solamente ridere! Credete davvero di riuscire anche solo a combattere, contro di me? Ho elargito fin troppe concessioni e voi siete solo una vergogna. Per entrambi gli eserciti!” Il tono della sua voce, profondo, quasi testimone sulla terra delle profondità dell’Ade stesso, la fece tremare, impercettibilmente.

Puntò il dito contro Eranthe, nella macabra imitazione di un maestro che redarguisce gli scolari indisciplinati, “Tu morirai per prima, Fenice”, sostenne con disprezzo, le labbra contratte. “E tu”, spostò l’indice verso Deuteros, “la seguirai, appena dopo. Giusto perché mi sento particolarmente magnanimo.”.

Poi si voltò verso Minos, il suo viso perse di colpo ogni traccia di crudele facezia.

“Tu, traditore”, dal tono della sua voce grondava veleno, “morirai per ultimo. Prima farò in modo che tu paghi, col sangue, col dolore, con la tua completa distruzione, l’onta che hai gettato sul nostro maestoso esercito e su Hades stesso.”.

Gli occhi del Grifone diventarono freddi e cupi come le nuvole che si addensavano sul mare, prima delle tempeste.

“Sempre se ci riesci”, sostenne quindi, stringendo i pungi a contenere la rabbia, improvvisa, che lo aveva attraversato.

La Viverna si avvicinò, minacciosa, maestosa nel suo incedere.

“Non meriti nemmeno una morte onorevole, Minos!”, lo aggredì, perdendo per un attimo la calma determinazione che lo caratterizzava, digrignando i denti, i muscoli delle braccia gonfi e tesi.

“Hai tradito noi, hai tradito il sommo Hades, hai tradito te stesso, per una puttana!” Il tono della voce era salito in un grido cupo e sembrava l’unico suono presente in quella strada di terra e sassi in tutta Rodorio e nello stesso Santuario.

Una scarica di cosmo lo colpì, inattesa, seguita dal pugno di Deuteros.

“Bada lucertola! Non sei degno nemmeno di pronunciare il suo nome”, sussurrò il Santo dei Gemelli, mentre il Giudice lo respingeva con un calcio in pieno petto.

“Rhadamanthys”, riprese quindi Minos. “Non a caso sei il favorito tra noi. Tuttavia”, inchiodò gli occhi in quelli di lui, “dimostri di non essere certamente il più saggio. Non ho scelto per Eranthe, né perché fuorviato da chissà quale sua arte di seduzione”, mosse un passo verso di lui, concentrando il suo cosmo oscuro.

“Ma solo per il mio cuore”, concluse.

Senza alcuna possibilità di appello.

Gigantic Feathers Flap!”

E la radura esplose in un turbine di energia.



Agathê si portò le mani al volto, coprendosi la bocca per impedirsi di urlare. Non aveva mai assistito a niente del genere in tutta la sua vita, e non riusciva a comprendere come, le mani di quell’uomo, che erano state così gentili su di lei, stringendola ed accarezzandola la notte precedente, fossero così spietate, ora.

E la sua voce, bassa, roca, a tratti addirittura dolce, adesso era un urlo graffiato di potere supremo.

La ragazza non riusciva a spiegare la preoccupata tensione che provava per lui, che sembrava non dare alcuna importanza alla condanna a morte del suo vecchio, spaventoso, commilitone.

Si voltò quindi verso i cittadini che, attoniti, assistevano quel combattimento terribile, a distanza di sicurezza.

Avrebbe voluto esortarli ad aiutare, ma si accorse che non c’era assolutamente nulla che potessero fare contro un nemico così potente.

L’energia che scaturì da Rhadamanthys la riportò allo scontro.

Greatest Caution!!”

Minos, colpito, crollò in ginocchio, la Surplice danneggiata, il volto dolorante e un filo di sangue scendeva, continuo, dalle labbra contratte.

Lei gli fu accanto, almeno a portargli soccorso, dato che non poteva sperare di fare di più.

“...Minos”, sussurrò, la sua voce preoccupata, l’orlo della tunica strappato a tamponargli le labbra.

Il Grifone si rialzò a fatica, appoggiandosi a lei, gli occhi decisi fermi sulla nuvola di polvere che il combattimento aveva creato.

Fece un passo, trovando impossibile muoversi oltre, una stretta decisa gli serrava il polso.

“Ti prego, non andare”, diede voce lei al suo preoccupato timore. “Sei ferito”, aggiunse come a voler giustificare con qualcosa di concretamente tangibile la sua affermazione.

Minos si fermò un secondo a guardarla, nel verde intenso di quegli occhi sgranati, bagnati dalle lacrime, chiedendosi quando era stata l’ultima volta che a qualcuno fosse importato di lui, del fatto che tornasse vivo da una missione o da uno scontro.

A prescindere dal risultato.

Le strinse la mano, cercando di tranquillizzarla con un rapido bacio sulla fronte.

“Non temere per me, Agathê”, le sussurrò, “Sapevo saremmo arrivati a questo scontro”, sorrise. “E ora, devo proprio pagare i miei debiti...”
Ma lei lo strinse di più.

“Non voglio portare fiori anche sulla tua tomba, Minos.” Una lacrima le rigò la guancia, sfuggendo al suo sguardo del colore dei prati che era fermo e deciso negli occhi di lui.

E Minos si trovò ad ammettere che, in quel preciso momento, Agathê fosse bellissima.



Rhadamanthys esplose un colpo di fuoco e dolore contro Deuteros, ghignando. Il conto in sospeso con il Santo dei Gemelli, che aveva avuto l’ardire di distruggere le ali della sua Surplice, di metterlo in ginocchio di fronte alla fortezza del sommo Hades, di aiutare Minos, arrivando a plasmare le dimensioni, sarebbe stato saldato, ora.

Il guerriero di Athena, dal canto suo, sembrava non voler concedere nulla all’avversario, incalzandolo, colpendolo, senza badare al sangue che gli macchiava il mento o l’elmo dell’Armatura che era stato sbalzato via, lontano, dall’attacco precedente.

“Basta giocare, Santo!”, esplose il Guidice della Viverna, concentrando il suo cosmo in volute di oscurità.

L’attacco che esplose, più potente degli altri, riuscì a ferire anche Eranthe, la sua Eranthe, e l’unica cosa che Deuteros volle vedere, da quel momento in poi, fu il cremisi del sangue del nemico.

Lo incalzò, senza attendere l’intervento di Minos, senza attendere null’altro.

Negli occhi ancora l’immagine di lei, scaraventata a terra, il sangue che colava dal suo braccio.

Incrociò le mani di fronte a sé, invocando stelle e galassie, che si formarono al suo comando, in quel terribile gesto che aveva segnato la fine del suo stesso gemello.

...Aspros...

Il volto del fratello attraversò la sua mente in un bagliore di luce.

Galaxian Explosion!”

Il suo cosmo pura energia, come un vulcano in piena eruzione, talmente vasto, talmente potente da comprendere l’intera volta celeste, brillò per un attimo del sole di tutti e dodici i segni dello zodiaco e lui pensò di essere esploso insieme alle sue stelle, nella luce, diventando polvere e tornando ai Gemelli.

Poi tutto divenne silenzio, dopo quell’esplosione tremenda e l’aria stessa si quietò muta testimone degli occhi spenti del giudice della Viverna, il suo potere ridotto ad un sussurro di stelle quiescenti.

Esausto, si trascinò crollando in ginocchio accanto ad Eranthe, e alla sua Surplice, ricomposta accanto a lei. Il combattimento le aveva lasciato un taglio profondo che le correva lungo tutto il braccio sinistro, sangue che le macchiava le labbra ed escoriazioni minori che sarebbero guarite in pochi giorni.

Le sorrise, sollevato, quando la vide riaprire gli occhi scuri, la domanda muta sulle labbra.

“È finita”, le sussurrò, comunicandole senza parlare tutto il suo timore e tutto il suo sollievo.

Poi la baciò, ancora ed un’altra volta, assaporando il sangue dalla sua bocca e lasciando che le emozioni, quelle che proprio non riusciva ad esprimere in altro modo, le arrivassero dalle sue labbra esigenti e dalle sue mani possessive.



Manigoldo era crollato a terra, la gamba già segnata dalla cicatrice, irrimediabilmente spezzata, gli aveva strappato un gemito dalle labbra contratte.

“E che minchia...”, aveva lamentato, quindi.

Rialzandosi, comunque, ché lui era un guerriero, non una femminuccia.

Doveva solo prendere tempo e studiare una strategia per evitare che Hypnos arrivasse a Francine.

Per fare in modo che fosse soddisfatto di prendere solo la sua, di vita...

Poi qualcosa investì il dio del Sonno, Un colpo di spirito e potenza.

“Ci rivediamo, eh, dopo duecento anni...”

“Hakurei”, constatò Hypnos, disgustato, come se lo stesso nome gli lasciasse un cattivo sapore nella bocca.

“Vattene, granchio”, si rivolse, quindi, il saggio dell’Altare, a Manigoldo, bloccando nel medesimo tempo l’avversario con una spirale di anime.

“Hai già pagato il tuo debito nei confronti della dea, ora ti spetta un compito ancora più gravoso.” Hakurei sorrise, “E poi”, asserì, cupo, “questa è una questione tra me e lui”, concluse, ed il suo cosmo bruciò come una supernova, illuminando la sera di un sole azzurro.

“Io sono un guerriero, vecchio. Non una balia”, sputò il Santo del Cancro. “Ti aiuterò come posso”, e fece un passo maldestro nella direzione del nemico. “Non credere che questo bastardo possa riuscire ad ammazzarmi!”

Il suo cosmo richiamò le anime in un vortice.

E Hypnos, facendo un passo indietro, per un attimo, uno soltanto, ebbe paura.



Francine si accoccolò contro uno sperone di roccia, accarezzandosi distratta il ventre gonfio, come a voler calmare le capriole di suo figlio.

“Andrà tutto bene, tutto bene...”, ripeteva come a volersi convincere, cercando di fermare le lacrime e di non agitarsi maggiormente, onde evitare di nuocere al piccolo.

La brezza della sera cominciava a diventare fredda e lei si strinse nella vestaglia leggera con la quale era scappata, solo quella mattina.

Sorrise, trattenendo un singhiozzo, le sembrava di essere stata fuori secoli, non solo una manciata d’ore. Aveva avvertito il cosmo di Manigoldo esplodere, poi farsi quieto, poi limpido come le sue stelle, poi offuscato da striature di dolore.

Ed aveva temuto per lui.

El Cid, proteggilo.

Si era ritrovata a pregare, a sperare che lui tornasse, non come spirito ed essenza, ma con le sue sigarette bianche e il suo sorriso sghembo.

Le palpebre le si fecero pesanti, rannicchiandosi un poco.

Lui sarebbe tornato, ne era certa.

Scivolò nel sonno, senza accorgersene, cullata dalle onde del mare.

...idda...picciridda!”, qualcuno la stava scuotendo, risvegliandola.

Lei sbatté le palpebre, assonnata, stropicciandosi gli occhi per mettere a fuoco il volto accanto al suo.

Il cielo era nero, riflesso nelle onde del mare e le stelle le sembravano diamanti tanta era la purezza del loro luccichio.

Si specchiò nei suoi occhi di un blu intenso.

“Manigoldo?”, sembrò stupita di vederlo, lì, con lei.

L’Armatura era a pezzi, un taglio sulla fronte stava ancora sanguinando copiosamente, l’espressione tradiva stanchezza e dolore, ma era ancora più o meno tutto intero.

Era ancora vivo.

“Già, picciridda”, sospirò, “Il vecchio c’è rimasto secco, ma è riuscito a sigillarlo per bene”, non fece in tempo a dire nulla di più, che lei lo abbracciò, bagnandogli il collo con lacrime di gioia.

“Ehi, ehi. Picciridda, che ti prende?!”, la strinse lui di rimando, soffocando un gemito e mettendosi seduto a fianco a lei.

Je suis...”, s’interruppe. “Sono contenta, sei vivo”, spiegò alzando il viso a guardarlo negli occhi.

Una mano ad accarezzargli una guancia.

“Avevo paura.”

Ma lui sorrise, ignorando la stanchezza, il dolore, il cordoglio.

“Sono qui.”

Poi, a bassa voce: “Non ti lascio.”

E Francine sorrise, tra le lacrime, passandogli una mano nei capelli.

“Andiamo a casa?”, propose rabbrividendo nella brezza notturna.

Lui annuì, issandosi faticosamente in piedi, appoggiandosi pesantemente al bastone.

“Così il vecchio è riuscito ad aggiustarmi almeno l’osso, prima di fare una frittella del dio del Sonno”, concluse il racconto Manigoldo, l’espressione di scherno tradiva la sua effettiva, preoccupata tensione.

Francine rise. “Mi spiace per la tua gamba: stava guarendo...”, constatò tornando seria.

Lui sbuffò una nuvola di fumo.

“Ormai rimarrò uno storpio a vita”, concluse, gli occhi incupiti.

“Non è importante”, asserì lei, timidamente. “Rimani comunque uno dei Santi più potenti”, continuò, versando il caffè, mentre la notte volgeva nelle sue ore più buie.

“È un miracolo che la casa sia rimasta intatta, piuttosto”, concluse, guardandosi attorno.

Manigoldo rise, spiegandole che il combattimento era avvenuto in una dimensione parallela invocata dallo stesso Hypnos per avere un qualche tipo di vantaggio.

Continuò riportandole che il vecchio Hakurei aveva previsto questa mossa, riuscendo ad evitare che entrambi fossero bloccati là, una volta sigillato il dio.

Così era rimasto solo lui, la sua anima intrappolata per sempre, come guardiano del Sonno.

Non diede enfasi al fatto che il medesimo destino fosse toccato ad El Cid, ma lei sembrò non farci caso.

Poi Francine si diresse verso la camera da letto, prendendogli la mano e portandolo con sé.

E nel buio della notte, in quella stanza illuminata solo dalla luce delle stelle, lui osò, per un attimo, vestire i panni di chi non era.

“Ehi, picciridda”, sussurrò, a bassa voce, quasi che fosse un sacrilegio, “perché non restiamo qui?” La sentì prendere un respiro, veloce.

“Magari cerchiamo una casa più grande, con una stanza per il caruso”, concluse, “Lontano da tutta quella merda.”

La piccola francese non rispose, e Manigoldo, mordendosi le labbra, pensò che, forse, aveva esagerato.

Ma per un attimo, uno soltanto, mentre combatteva contro Hypnos, aveva avuto paura, sul serio. Aveva lottato al limite delle sue forze, pronto a sacrificare la vita per la dea, ma accanto al volto di Athena, c’era quello di Francine.

E non gli importava che fosse un’eresia.

Lui voleva vivere.

Accanto a lei.

Anche se questo avesse significato rinunciare ad essere un Santo.

L’avvertì muoversi, di fianco a lui, in un fruscio di lenzuola, e sollevarsi su un gomito, per vedere il suo viso.

“Lo faresti davvero, pour moi, avec moi?” Lui allacciò lo sguardo a lei, muto testimone dei suoi occhi luminosi, aperti in uno sguardo stupito, intenso anche nella penombra siderale.

Sollevò una mano ad accarezzarle i capelli.

Gli occhi nei suoi, annuendo, lentamente, come a suggellare un giuramento solenne, anche senza fiori e cerimonie.

Anche senza amore. Ne avrebbe provato lui, a sufficienza per entrambi.

E forse, un domani, chissà...

Lei sorrise, in quel buio azzurro di stelle, avvicinandosi a lui e chiudendo gli occhi.

Manigoldo rimase immobile, il respiro leggero, quasi avesse timore di spaventarla, mentre lei posava le labbra su quelle di lui.

Come a voler testare, provare, le sue sensazioni i suoi sentimenti, come a voler sentire ancora un battito nel suo cuore che sanguinava.

Lentamente, dopo lunghi istanti durante i quali nessuno dei due si mosse, lei si allontanò, le lacrime lucenti sulle sue guance.

“Non...”, ma lei lo interruppe, un dito sulla sua bocca, scivolato in mezzo alle labbra.

“Shh...”, lo ammonì, gli occhi chiusi, mentre si avvicinava di nuovo a lui.

Lo baciò di nuovo, questa volta, a labbra dischiuse, prendendo l’iniziativa e giocando con lui, assaggiando il suo sapore e raccogliendo, finalmente, ciò che lui le offriva.

Lontano dai baci infuocati d’amore di El Cid, lontano dai baci di possesso di tutti gli altri che raggiungevano la sua camera da Melina.

Si allontanarono di nuovo, guardandosi negli occhi, un’emozione fugace che li attraversava. E lui la baciò ancora, quando la vide sorridere.

E in quel gioco, fatto di amore, di respiro corto e di desideri sopiti, non c’erano cosmi e guerre, Santi e puttane, ma solo Milos ed Ekatherina.



Raccogliere i cocci ed andare avanti era la sfida maggiore, alla fine di ogni guerra. Le strade di Rodorio furono attrezzate come ospedali da campo, feriti da curare, defunti da onorare. Sui volti dei sopravvissuti, tuttavia, spiccava un sorriso sereno, un’espressione di deciso compimento, come quella che solitamente veniva ricordata sui volti degli eroi.

E gli abitanti, che avevano vissuto per sempre, da generazioni, all’ombra di un Santuario fin troppo ingombrante, erano diventati loro stessi gli eroi ed artefici del proprio destino, salvatori, anche se con un piccolo aiuto, del loro villaggio.

Ora che Armature e Surplici erano tornate a riposare, nella luce o nelle tenebre, la portanza di quanto conseguito era ancora più evidente.

“Torniamo a casa, Agathê”, asserì Minos, provato, vedendo come la ragazza avesse cominciato a vacillare ed i suoi passi farsi stentati.

Le offrì il braccio, al quale lei si aggrappò grata, mentre la guidava verso il negozio di fiori dalla curiosa insegna.

“Ci vediamo domani, Eranthe, Deuteros”, bisbigliò lei, lo sguardo stanco, combattendo per sorridere, lasciandosi, per una volta, guidare dal suo improbabile accompagnatore.

Deuteros si voltò verso di lei.

“Dimitra...”, sussurrò Eranthe, le bruciature pulsavano arrabbiate e il cielo, ormai scuro, la esortava al riposo.

“Non preoccuparti per lei, Sage è con loro”, le disse lui, pacato, stringendole un braccio attorno alle spalle, attento a non urtare le ferite. “L’Armatura me l’ha comunicato, attraverso il suo cosmo.”

Eranthe non avrebbe più dovuto stupirsi, ma le sue parole la colpirono.

“Tuttavia”, continuò, mentre si incamminavano verso la casa con le persiane azzurre, “Il vecchio mi ha riportato che è stata l’Armatura dei Gemelli ad accorrere per salvarla. E a richiamare lui.”.

Le baciò il capo, quando vide i suoi occhi riempirsi di lacrime.

“Non temere, Eranthe. Vedrai che saprà cavarsela”, le scompigliò i capelli, mentre entravano in casa e lei, finalmente, si lasciava andare in un pianto liberatorio.

Non riusciva a parlare, mentre le labbra di lui le asciugavano le guance, non riusciva a pensare, mentre lui le curava le ferite, ignorando le sue, non riusciva a dormire, mentre lui la cullava, col ritmo del suo respiro, in quel letto fresco, che li aveva visti amanti.

“Domani voglio andare dalla zia”, bofonchiò lei a mezza voce, gli occhi socchiusi fissi nei suoi, “a vedere cosa ne è stato di lei e delle ragazze. E di tutti gli altri.”.

Lui si limitò ad annuire.

“Athena non c’è più”, sostenne quindi Deuteros, dopo un profondo respiro. “Su al Santuario sono rimasti solo Shion e Dohko”, continuò, poi parve concentrarsi, gli occhi chiusi e stretti.

“Manigoldo è un po’ pesto”, asserì, le labbra vagamente stirate in un ghigno, “ma tutto sommato, sta benone.”.

“Hakurei non ce l’ha fatta”, concluse, cupo.

Eranthe andò con il pensiero a Melina, ai suoi occhi azzurrissimi che si addolcivano quando incrociava il suo sguardo, alle loro mani strette sotto il tavolo, ai loro baci, nascosti dalle tenebre e dalle colonne di quel piccolo tempio a strapiombo sul mare, che tutti sembravano aver dimenticato e dei quali lei era stata involontaria testimone.

Spostò un braccio a cingergli il petto, il sentore di miele e di menta dell’unguento spalmato sulle ferite gli riempì il respiro.

La sua mano grande e calda l’accarezzò, leggera.

“Domani dovrai andare su, al Santuario”, disse lei, a mezza voce, mentre la luna, piena, gettava ombre grigie sui muri. “Ormai sei un Santo d’Oro...”

“Domani...”, continuò lui, mestamente, la voce addolcita.

“Sembra la cosa più spaventosa, vero?”, gli domandò lei, sorridendo alla sua alzata di sopracciglia.

“Sono passata da puttana a Specter nel giro di una manciata di mesi, tu sei ritornato ad essere il Santo dei Gemelli, Francine diventerà madre, Agathê è l’amante dell’uomo che ha ucciso il suo quasi fidanzato, Dimitra è stata difesa dalla tua Armatura: cosa può succedere, ancora?”, cercò di scherzare, ma qualcosa si fermò nella gola, spegnendo la voce, obbligandola a combattere contro quel fastidio pungente dietro ai suoi occhi.

“Cosa faremo, da domani in poi...”, la voce poco più di un sussurrò, udita solo dalla luna, materna e bianca come il latte.

“Non importa, Eranthe”, sostenne lui, spostandosi sul fianco e guardandola dritto negli occhi resi lucenti dalle lacrime.

“Vivremo”, disse, il tono deciso, “e questo è già abbastanza, è già sufficiente, per chi ha sempre camminato, come noi, al limite del mondo, al limite della vita.”.

“Deuteros...”, una lacrima solitaria sfuggì, scavalcandole il naso, atterrando silenziosa sulla mano di lui, “È che fa paura.”.

Lui annuì, aspettando che lei continuasse.

“Come la prima volta.” La sua mente andò, mesta, ad Hakurei, quella notte fatidica, nella casa dalle persiane azzurre di Rodorio, in quella stanza che sarebbe diventata meta dei soldati, con quell’uomo fatto di stelle che l’aveva presa, facendola sanguinare, scusandosi, poi, la fronte appoggiata alla sua. Ma non aveva invocato il nome di Athena, lui, solo una formula antica, a sigillare il suo sangue impuro.

“Come il primo cliente, come la prima volta che perdi qualcuno di caro, come la prima volta che prendi tra le braccia tua figlia”, lo vide sorridere.

“Era così fragile, così bianca, che avevo paura di sporcarla solo sfiorandola con la mia pelle”, ammise lui, con una punta di rammarico.

“È che prima sembrava tutto così chiaro”, riprese lei. “Sembrava che il mio posto in questo mondo fosse stabilito, sembrava che tutto fosse esattamente come doveva essere.”

“Forse è così, come siamo ora, il modo in cui il destino ci ha disposto, e siamo esattamente dove dovremmo essere”, intervenne lui, sereno.

“In fondo”, parlò come se si dovesse togliere un macigno dall’anima, “anche per me è stato un duro colpo. L’Armatura dei Gemelli aveva scelto me”, confidò come se quelle parole fossero un sacrilegio.

“Ero sull’isola di Kanon, stavo ultimando la catapecchia che hai visto, quando dei guerrieri in pieno assetto di battaglia mi hanno attaccato.” Sbuffò, come se parlare gli costasse uno sforzo enorme.

“Avevano armature cremisi e dicevano di essere guerrieri di Ares. Così feci la sola cosa che sapevo fare: combattere. Riuscii ad atterrarne tre, senza subire gravi ferite, tuttavia ero privo di corazza e i loro attacchi cominciavano a farsi pericolosamente precisi.”

Prese un respiro profondo.

“E poi apparve, sopra di me. Splendida e lucente. Mi ha vestito, consolante come l’abbraccio di una madre. E il mio cosmo è come esploso, distruggendo i nemici, in un colpo solo.” I suoi occhi si erano di nuovo fatti lontani e tristi.

Rimase in silenzio per lunghi minuti, durante i quali l’unico suono in quella stanza era il frusciare ritmico del loro respiro.

“E poi? Cosa è successo, Deuteros?”, tentò lei, la voce sottile nel buio ancora più profondo.

“Non lo so”, ammise lui, abbassando lo sguardo. “Ho avuto paura, credo. Ho rivisto gli anni di duri allenamenti ai quali si è sottoposto Aspros per giungere al medesimo risultato. Ho rivisto i suoi occhi chiari pieni di dolore”, ammise.

“Io sono forte”, scherzò. “Ero abituato ad una vita nascosta all’ombra del Santuario. Ero da sempre bersaglio dei soldati, i loro insulti o percosse non mi ferivano nemmeno più. Pochi conoscevano la mia esistenza, ancora meno la mia identità. Quindi, pensavo, non avrebbe fatto differenza per nessuno, se non per mio fratello Aspros.”

Le posò una mano sulla guancia, a lenire la sua espressione addolorata.

“Così,” proseguì mostrandole la cicatrice sul braccio, “ho ordinato alla mia armatura di proteggere Aspros, sigillandola col mio sangue.”

Abbozzò una carezza.

“Poi ho trovato te”, disse sorridendo, sporgendosi a baciarla.

“Poi è arrivata Dimitra”, ammise, ricordando quei giorni di lacrime e sangue.

“E la mia vita non è più stata solo mia...”, concluse.

Notò il suo sguardo farsi improvvisamente triste, così decise di porre fine a quel discorso illuminato solo dalla luna, ché lui con le parole non era mai stato bravo, e di baciarla di nuovo.

E lei si perse, come sempre, in quei baci che sapevano di fuoco e di mare.

In quel sentimento che l’aveva investita, potente ed assoluto come quel cosmo di cui aveva tanto sentito parlare e l’aveva trascinata via con sé.

Da quella sera lontana e per il resto della sua vita.

Si lasciò prendere da quell’uomo fatto di ombra e fuoco, di vento e di maree come se fosse solo una ragazza.

Come se non ci fossero né passato né futuro,



Aiacos aprì gli occhi lentamente.

Per un attimo si convinse di essere nell’Elisio, dato il numero di ragazze che sembravano vegliare su di lui.

“Signora Melina! Signora Melina! Si è svegliato!”, sentì una ragazza dai capelli rossi chiamare a gran voce e non ricordava di alcuna Melina nel giardino degli dei gemelli.

Sbatté le palpebre un paio di volte. “Dove mi trovo?”, tentò. “Potrei avere un po’ d’acqua?”.

Ma nessuna di quelle ragazze, indaffarate come formiche operaie, sembrava accorgersi minimamente delle sue richieste.

Stava per richiamare la loro attenzione, quando il suo campo visivo fu invaso da una donna dagli occhi azzurri come il cielo di primavera, che lo guardavano con un misto di preoccupazione e fredda determinazione.

Dovevano essere bellissimi, pensava, anche senza quell’alone arrossato causato, con ogni probabilità, dalle lacrime.

“Qual è il tuo nome?”, gracchiò al suo indirizzo, la voce riarsa dalle labbra secche.

“Aiacos di Garuda, signora.” Quella doveva essere Melina, dedusse, dai modi imperativi e dalla sua sola presenza che richiedeva rispetto.

La mano, fredda, terribile, della donna si serrò attorno alla sua gola. Ed anche se il Giudice avrebbe potuto facilmente distruggere quella vita con uno schiocco delle dita, solo per un secondo, ebbe la certezza che lei lo avrebbe ucciso senza sforzo.

I suoi occhi mandavano bagliori sinistri, quando parlò: “Sei un guerriero di Hypnos?”.

Aiacos ebbe la certezza che era sopravvissuto alla freccia di Sisifo solo per morire tra le mani di quella Melina.

Non osò nemmeno mentire.

“Hypnos e Thanatos sono i consiglieri di Hades, del quale io sono uno dei tre Generali”, sospirò cercando di escludere il dolore al petto.

“Quindi sono un guerriero di Hades, esattamente come gli altri Giudici. Non prendo ordini diretti dagli dei gemelli...”.

Riprese fiato, quando vide gli occhi di lei rilassarsi.

“Bene”, concluse asciutta, “Allora non morirai, adesso.”.

Si voltò allontanandosi a lunghe falcate, e lui chiuse gli occhi. La sua mente era andata a Violate, la più possente delle sue ali, perita sul campo.

Stava per scivolare di nuovo nel sonno quando avvertì qualcosa di freddo e duro premuto contro le labbra.

Riaprì gli occhi, di colpo, sul sorriso bianco di Minos.

“Ehi”, lo salutò questi, sostenendogli il capo per aiutarlo a bere.

“Sei ancora vivo?!”, riuscì a rispondergli Aiacos, la sorpresa evidente nel suo sguardo scuro.

Minos sorrise. “Non ci avrei scommesso nemmeno io.”

“Rhadamanthys?”, gli domandò di nuovo, ma il Giudice del Grifone scosse il capo. “Già, mi era parso di aver avvertito la sua stella spegnersi...”

“Cosa faremo, ora?”, concluse Garuda, gli occhi addolorati. La perdita di Violate aveva intaccato il suo spirito e chiuso il suo cuore.

Minos scosse il capo, il suo sguardo andò per un attimo ad Agathê, impegnata in una conversazione con Melina.

“Se gli déi saranno clementi, staremo qui...”.


NOTE:

Grazie sempre e comunque a Francine che mi ha dato più di una mano, grazie, grazie mille.

E grazie ad _Haushinka, che è stata gentilissima!

  
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