Quando aveva sette anni, Sherlock era
un bambino dolce e
altruista, ma era solo.
I suoi genitori lo amavano molto, ma
entrambi erano quasi
tutto il giorno fuori casa per lavoro.
Sua madre faceva
l’istruttrice privata di matematica due
case più avanti, in modo da poter essere sempre vicino ai
suoi figli, mentre il
padre lavorava in posta.
Lui e Mycroft giocavano spesso
insieme, prima, ma ora
Mycroft aveva quattordici anni e sembrava non avere più
tempo per lui, troppo
impegnato a uscire con i suoi coetanei.
Sherlock non riusciva a socializzare
con gli altri bambini.
Era sempre un passo avanti a loro, spesso più di uno,
così i suoi compagni di
scuola lo evitavano, sebbene lui non li trattasse male, e lui si
annoiava a
giocare con loro.
Era stato abituato da sua madre e da
Mycroft a pensare e a
fare cose da ‘adulto’.
Il gioco più da bambini
anche aveva era l’allegro chirurgo
con cui spesso giocava assieme a
suo
fratello.
Ma ora era tutto cambiato.
“Mycroft, mi
annoio…”
“Non ora, Sherlock. Devo
finire i compiti. Vai a giocare in
camera tua.”
“Ma mi annoio!”
“Leggi, disegna, fai
qualcosa, ma non mi scocciare!”
[…]
“Mycroft, mi accompagni a
scuola? Piove.”
“Non posso, Sherlock, vado
con i miei amici, prendi il
pulmino della scuola.”
[…]
“Mycroft, dove
vai?”
“Vado a casa di Jason,
danno una festa. Non lo sapevi? Suo fratello,
Jamie, non è in classe con te?”
“Si, ma non me lo ha detto.
Quando torni?”
“Non lo so, non per cena
comunque. Nel microonde c’è il
pollo di ieri. Ciao!”
[…]
“Mycroft…”
“Sherlock, basta
scocciarmi. Perché non giochi un po’ con i
tuoi amici?”
Sherlock si guardò le
punte dei piedi.
“Perché non ne
ho…”
Mycroft lo guardò,
pensieroso e preoccupato.
Voleva bene al suo fratellino,
più che a chiunque altro, lo
amava più di se stesso, ma non poteva stargli sempre dietro.
Sapeva come ci si sentiva: prima di
quell’anno, anche lui si
era sentito tremendamente solo e incompreso. A volte si sentiva
così tutt’ora,
ma stava cercando di socializzare almeno un po’.<
Sherlock non sembrava altrettanto
bravo.
Poi gli venne un’idea.
[…]
Sherlock era in camera sua a guardare
la pioggia scrosciare
fuori dalla finestra, come ormai faceva ogni giorno, quando sua madre
lo
chiamò.
“Sherlock!
Scendi
caro! Guarda cosa ti ha portato Mike!”
“Mamma, mi chiamo Mycroft,
non Mike.” La riprese il
fratello, ma non sembrava seccato come al solito, o almeno,
così sembrava dal
tono di voce.
Sherlock si voltò. Era
almeno una settimana che Mycroft
faceva il misterioso più del solito. Aveva provato
più di una volta a dedurre
cosa stesse facendo, ma era troppo lento,
come spesso il fratello gli ricordava, così non era riuscito
a capirne i
motivi.
Mentre Sherlock scendeva gli otto
scalini che separavano le
stanze dall’ingresso, sentì un lieve guaito. Poi
un secondo, poi un terzo.
Non appena capì cosa
fosse, gli si illuminarono gli occhi.
“È un
cane!” gridò, gioioso, precipitandosi
nell’ingresso,
dove i suoi genitori e suo fratello cercavano di tenere a bada qualcosa
che si
agitava dentro a una cesta di vimini.
Sherlock si avvicinò e
vide un essere minuscolo avvolto in
un lenzuolino.
Mycroft sorrise e tirò via
il lenzuolo, scoprendo un
cucciolo di Cocker Spaniel Inglese dal pelo lungo e rosso.
Sherlock lo guardò
estasiato. Allungò le mani e Mycroft
glielo mise in braccio. “Fai piano, e fai
attenzione.” Gli raccomandò. “Ha solo
due mesi, sii delicato.”
Sherlock prese il cagnolino e lo
strinse a se come se fosse
stato di vetro.
“È per
me?” chiese, esitante, accarezzando
il lungo pelo rosso.
Il cane, evidentemente, si stava
trovando a proprio agio, perché
non si agitava più ed era messo bello comodo tra le braccia
di Sherlock.
“Certo, Sherlock.
Così magari ti sentirai meno solo.” Rispose
Mycroft, con affetto.
Sherlock lo guardò con
qualcosa di simile alla venerazione
negli occhi.
“Allora, come vuoi
chiamarlo?” Chiese Mycroft, piegandosi
sulle ginocchia in modo di trovarsi all’altezza del viso di
Sherlock.
Sherlock ci pensò su,
guardando con affetto il cane che ora
dormiva pacifico tra le sue braccia. Poi gli venne un’idea.
“Barbarossa!”
esclamò, felice. “Come il pirata del
cartone!”
Mycroft scosse la testa, bonario, e
sorrise, scompigliando i
capelli ricciuti del fratellino.
**
Sherlock è diventato la
persona che è adesso all'età di undici
anni, in una gelida giornata invernale.
Ricorda ancora il momento preciso: era accasciato contro al muro di
camera sua,
tenuto fermo da Mycroft. Piangeva.
Era stato tanto tempo prima, ma non è vero, come dicono
molti, che si può
seppellire il passato.
Il passato si aggrappa con i suoi
artigli al presente e ti
trascina all’indietro, verso di sé.
**
“Mycroft, Barbarossa
cammina in modo strano.”
“Strano come?”
“Sembra che
zoppica.”
“Forse è una tua
impressione. Ha solo quattro mesi, è ovvio
che sia un po’ malfermo sulle zampe. Ancora un mese e potrete
correre insieme,
ne sono sicuro.”
[…]
Barbarossa era molto affettuoso con
Sherlock: quando lo vedeva
gli faceva le feste, lo leccava ovunque, abbaiando giocoso. Non gli
piaceva
camminare, però.
“Dai, Barbarossa, vieni
qui, ragazzone!” lo intimava
Sherlock, picchiettandosi sulle ginocchia a mo’ di invito.
“Vieni, vieni
qui.” Barbarossa, sdraiato sul pavimento, si
alzava controvoglia.
“Va tutto bene, tutto bene.
Andiamo, sono io, sono io!”
diceva, Sherlock, con affetto.
Anche se lentamente, Barbarossa
andava sempre verso di lui.
“Bravo ragazzo, molto
intelligente!” diceva Sherlock, mentre
Barbarossa gli si fiondava tra le braccia e lo leccava ovunque, felice.
[…]
“Mycroft, Barbarossa non
piega bene le zampe. Sono sempre
rigide.”
Mycroft cercò di esaminare
attentamente le zampe del cane
ma, non appena gliele toccò, Barbarossa ululò di
dolore e si dimenò, correndo
via.
Beh, correndo è una parola
grossa. Camminando a passo
sostenuto, sarebbe più appropriato.
Durante quell’ultimo anno,
effettivamente, il cane non si
era mai mosso molto, ma tutti credevano che fosse solo di carattere
pigro.
Nella mente di Mycroft, però, un terribile pensiero si stava
formando.
“Domani lo portiamo dal
veterinario.” Disse.
[…]
“Mi dispiace.”
Disse., semplicemente, il veterinario,
esaminando le radiografie con aria grave “Displasia alle
anche di grado
medio/avanzato.”
“Cosa vuol dire?”
chiese Sherlock, in lacrime, accarezzando
Barbarossa sul dorso.
Il veterinario lo guardò,
poi guardò Mycroft.
“La displasia
dell’anca è una dolorosa malattia invalidante
che porta l’anca del cane ad indebolirsi, deteriorarsi e
sviluppare artrite.
Essa deriva dallo sviluppo anomalo dell’anca, che coinvolge
la testa del femore
che non si adatta correttamente. La displasia dell’anca
può essere lieve oppure
può essere grave e causare l’artrite
paralizzante.” Snocciolò, quasi a memoria.
“E quando è
grave quella di Barbarossa?” chiese Mycroft,
agitato. Temeva la risposta.
“Gliel’ho detto.
È di grado medio/avanzato. Il cane ha un
anno e mezzo e si vede che non ha mai camminato o corso veramente
nel corso della sua vita, e ormai è troppo tardi. Non
servirebbero nemmeno le protesi. Ha ancora due, forse tre anni di
movimento. Ma
poi sarà paralizzato tutto il corpo.” Disse,
pesantemente.
Le parole galleggiarono dure
nell’aria.
Sherlock sentì qualcosa
rompersi dentro di lui.
[…]
Sherlock l’aveva detto.
L’aveva notato subito, sin
dai primi mesi, che qualcosa non
andava.
Che Barbarossa zoppicava.
Ma no, lui era quello stupido, era
quello lento, quello a
cui non si doveva dare mai retta, che tanto non aveva mai ragione.
Una lacrima solitaria gli cadde sulla
guancia e venne
prontamente leccata via la una lingua ruvida e calda. Sherlock strinse
il cane
forte a se e pianse.
Odiava tutti, in quella famiglia.
Soprattutto, odiava Mycroft. Per non
avergli mai dato retta
veramente.
**
“NO! NO! NON LO PERMETTERÒ!!” Gridò
Sherlock, disperato, mentre Mycroft
cercava di tenerlo fermo.
“Lasciami,
Mycroft, lasciami!
BARBAROSSA! NO!”
Sherlock
si dimenò con tutta la forza
che aveva, ma il fratello, che aveva diciotto anni, ebbe la meglio e
riuscì a
sbatterlo contro un muro.
“Sherlock,
per l’amor del cielo, finiscila!”
Lo rimproverò, mentre gli teneva le mani giunte dietro alla
schiena. “Dispiace
anche a me, ma devi capire, per lui non sarebbe vita!”
Cercò di spiegare al
fratellino, che ancora gridava, in lacrime.
Dietro
di loro, un uomo stava portando
via Barbarossa.
“Non
portarmelo via, ti supplico! È l’unico
amico che ho!” pianse Sherlock, pregando il fratello, le
spalle scosse da
violenti singhiozzi.
Anche
a Mycroft scese una lacrima.
“È
per il suo bene.” Ripeté, con la
voce rotta. “Non è
più autonomo,
Sherlock. Non può fare nulla da solo, non si muove
più. Sarebbe crudele
costringerlo a vivere così.”
“Ma
non posso perderlo!” gridò ancora
Sherlock, sempre inchiodato al muro. “È mio
amico!”
“Ora
basta, Sherlock! Barbarossa sta
andando in un luogo migliore! Devi capirlo e accettarlo!” gli
gridò sopra
Mycroft, la voce ferma nonostante le copiose lacrime che ora gli
rigavano il
volto. “Ed è ora che tu cresca, hai undici anni
ormai! Devi imparare a non
farti coinvolgere dalle emozioni, il risultato è sempre un
cuore spezzato!”
Sherlock
rimase immobile e Mycroft ne
approfittò per continuare. “Non vi è
alcun vantaggio nei sentimenti, Sherlock,
è ora che tu lo capisca!” disse, lasciandolo
andare.
Sherlock
non si voltò e si accasciò
contro il muro, sulle ginocchia.
Mycroft,
assicuratosi che non si
rimettesse più a fare il pazzo, gli passò una
mano tra i capelli e uscì dalla
stanza.
[…]
Era
finita.
Sherlock
respirò pesantemente.
Finita.
Barbarossa
non c’era più.
Non
avrebbe più potuto abbracciarlo.
Non
avrebbe più potuto confidarsi con
lui.
Non
avrebbe più sentito la sua lingua
ruvida sulle sue mani.
Nessuno
lo avrebbe più consolato dopo
qualche litigio con gli altri bambini del quartiere.
Sherlock
era… solo.
Non
vi è alcun vantaggio nei sentimenti,
Sherlock
gli aveva detto Mycroft quella mattina.
E
forse aveva ragione.
Sherlock
non avrebbe mai più avuto
amici. Non ne voleva.
Non
più.
Mai
più.
**
Aveva
in mano la micropipetta quando
qualcuno bussò alla porta del laboratorio.
Entrarono
due uomini.
Sherlock
li guardò per un solo istante,
prima di tornare al suo lavoro.
Uno
era Mike Stamford, suo conoscente
di vecchia data, l’altro era un soldato appena tornato dalla
guerra.
Si
capiva dal bastone e dal taglio di
capelli.
Sherlock
chiese a Mike di prestargli il
cellulare, ma fu il soldato, John Watson, a
offrirgli il suo.
“Oh.
Grazie.” Disse Sherlock, un po’
sorpreso.
Prese
il telefono e lo aprì.
“Afghanistan
o Iraq?”
Note
dell’Autrice:
Beh,
che dire? Eccomi qui.
Sono un
po’ emozionata, a dire il vero. Questa
non è assolutamente la prima fanfiction che scrivo, ma
è la prima che pubblico
in questo fandom.
Sono entrata nel mondo di Sherlock il 10 Giugno, 9 giorni fa, sebbene
dovessi
studiare per la maturità, guardandomi tutti le puntate in
lingua. L’ispirazione
per questa fanfiction mi è venuta stamattina mentre andavo a
scuola a sostenere
la seconda prova ahhaha
Spero che vi sia piaciuta, anche se, effettivamente, non è
nulla di che, perché
questa era una sorta di esperimento, poiché ho una piccola
long Johnlock in
cantiere e volevo provare a capire se riesco a caratterizzare bene i
personaggi, non so, se piace il mio stile di scrittura, boh.
Comunque, la mia Johnlock è qui nel pc, con la bozza scritta
e pronta per
essere sviluppata, per cui ci rivedremo presto!
Dona
l’8% del tuo tempo alla causa pro
recensioni!
Farai
felici un mucchio di scrittori!!