Libri > Percy Jackson
Ricorda la storia  |      
Autore: RitaWhitlock99    21/06/2014    5 recensioni
Dagli Stati Uniti a Venezia, da Venezia ad Ostia, l'imbarco e poi il ritorno, biglietto di sola andata per Las Vegas. Il viaggio di distruzione di Ade con Nico e Bianca, i suoi torti e le sue ragioni, la sua ambiguità, la demollizione di uno spettro di quella Maria che continua a perseguitarlo: è una fuga ed è uno scontro, è ghiaccio che si infrange ma si ricompone, la maschera della morte.
«Perché per me l’inferno è una stanza vuota, buia ma non necessariamente spaventosa. Buia e basta, non mi fa paura. L’inferno, dicevo, è una stanza vuota con un uomo solo che cammina su e giù senza mai alzare lo sguardo e questo non gli permette di vedere la luce. Ma la luce c’è, deve solo ammetterlo a se stesso.»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Bianca di Angelo, Maria Di Angelo, Nico di Angelo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve, semidei :) Lo so che non mi avete mai visto in questa sezione (di solito cerco di infestare altri ambienti XD) ma questa One shot è venuta fuori così, quasi per caso: dovevo fare un viaggio in  treno e quindi ho pensato a quel grande dio di Ade e a questo Missing Moment prima di abbandonare per quasi ottant'anni Nico e Bianca. Mi è sembrato giusto rendere giustizia a Maria, così poco presente nella saga se non nel terzo libro (Rick, diavolo, qualche righino in più sul caro Haides no, eh? .-.), credo che sarò un Ade molto complesso quello di queste righe, non lo capisco nemmeno io a tratti, è una lettera che scrive a se stesso, forse non è fatta per essere letta. Che dirvi? Sopportatemi... Se leggete, lasciate almeno un righino, l'opinione è il profumo della vita (ah, queste frasi sagge da figlia di Atena...)

RitaWhitlock


 



Fuoco e sangue
lascia le tue scintille
spegni il buio
 
 
 
22 giugno 1940
 
 
Mi chiedono se voglio un caffè. O del latte. Quello macchiato, l’italiano sputtanato eppure incredibilmente rovinato, di Italia non ha niente se non il nome contraffatto, l’offesa malcelata. Sarà sempre il cappuccino d’America, uno sputo in campo di intonaco bianco. Voglio affogare tutti i bastardi che ogni giorno si permettono di berlo… Vorrei sparare loro tutto questo in faccia, sorridere dei loro brutti musi scandalizzati. Ridere con l’allegria dei folli al “Sei un pazzo! Ti manca qualche venerdì!”. Non mi manca solo il venerdì ma tutti i giorni, mi mancano i mesi e gli anni perché il tempo, il mio tempo, è infinito. Non capirebbero: per questo taccio, come sempre. Prendo questa testa fra le mani e penso. A che? A Venezia. E poi muoio (ironia di fiele) al nome di Roma, la Roma caduta e sprofondata secoli fa nelle viscere di una madre carnefice, nelle viscere di Gea, la terra che di vero non ha mai avuto nulla se non la sua stessa perfidia, la falsità degli inganni tramati alla luce del sole. Ne ho abbastanza di Titani, di Tartaro, Stige, Giganti, fratelli coltelli e parenti serpenti…
Mi chiedono se sto bene, “sono pallido”. Al cimitero hanno mai visto la carezza del carro di Aurora? All’interno del cuore marcio delle loro parole mortali è mai esistita una luce? No, non credo. Ecco perché sono pallido, stronzi. Ho le vene troppo piene per avere un colore, il sangue l’ho lasciato tra le macerie di quel maledetto hotel, il sangue è uscito dalla bocca di Maria, è caduto in mezzo al nulla e io ho maledetto  un oracolo… Chissenefrega. Passa il bigliettaio, “Per bucare”, dice. Bucare che?! L’unico buco è quello della tua fossa ,amico, l’unico che riesco ad immaginare, l’unico in cui vorrei vederti. Ancora una volta mi mordo la lingua e rispondo con un: «Tenga.» Se ne va dagli altri passeggeri del treno, uomini e donne che, oltre alle valigie, non hanno il peso di altri bagagli sul cuore. Tienitelo, il biglietto, non mi serve perché il passaggio più grande l’ho già compiuto. Siamo già in Nevada, Las Vegas è a due ore soltanto: stiamo scivolando tra le montagne rosse del deserto, senza acqua e senza scopi, monumenti e strati di ere passate. Ho incontrato una donna, una settimana fa: sì, lo so, sembra stupido, visto che in quasi ventimila kilometri di viaggio devo aver visto più di una mortale… Ma quasi la totalità dell’umanità mi è sempre scorsa accanto come un fiume, laggiù all’inferno non è importante il volto, né la condizione ma solo la tua anima che si rimescola nel buio assieme a centinaia di migliaia di altre. E invece di quella donna credo che non dimenticherò mai lo sguardo: era seduta sulla banchina, la massa informe di capelli biondi al vento, china sulle sue ginocchia come se stesse creando e proteggendo una cosa viva, qualcosa che le sgorgava dalle mani. «Papà, che sta facendo quella signorina?» È Bianca, la mia chiazza di luce, mia figlia: si accorge subito di ogni mio cambiamento d’umore, di ogni mia paranoia e contemplazione. È sagace, spesso coraggiosa e soprattutto intraprendente. «Non lo so...» Rispondo.
«Andiamo a vedere.»
«Ma non la conosciamo!»
«Bah, nemmeno tu conoscevi la mamma.»
«Cosa c’entra?»
«Magari era seduta come quella ragazza e se non le avessi rialzato lo sguardo non ti avrebbe mai considerato.»
«Maria è unica.»
«Da tutti si può imparare.»
«Quindi?»
«Chissà se quella ragazza non potrà insegnarci qualcosa…»
«Mia figlia ha una fantasia troppo sviluppata.»
«Questo è per dire che ti ho fregato?»
Non faccio in tempo a controbattere che già la sua mano è schizzata via dalla mia: la rincorro, rovescio un paio di valigie di soldati che stanno per partire per la guerra, sento un marinaio che urla in romanesco “Ahò! E MORTACCI TUA!”, mi riprometto di chiedergli il suo nome, tra qualche anno nei Campi della Pena… Finalmente riacchiappo Bianca, si è seduta accanto alla donna, sono immerse in una fitta conversazione. «E lui è mio padre.» Dice Bianca, senza nemmeno voltarsi. La ragazza alza finalmente lo sguardo, due occhi verdi impressionanti: «Salve.» Farfuglio qualcosa, odio sentirmi in imbarazzo. Guardo male mia figlia, le dico di tornare da Nico, lei sbuffa e se ne va, imprecando sottovoce.
«Le vuole bene.» La signorina se ne esce così, fungo in mezzo al grano.
«Certo che gliene voglio.»
«Eppure c’è tanta tristezza nel suo sguardo: sta per affrontare un lungo viaggio, vero?»
«Sì. Ne sa qualcosa?»
«Io scrivo e basta, non mi muovo. Il mare non l’ho mai solcato.»
«Non mi piace il mare.»
«E allora perché prende una nave?»
«Sono costretto.»
«Se fosse costretto, scriverebbe mai qualcosa?»
«Non ci ho mai provato.»
Prende quattro o cinque fogli, sul primo scarabocchia tre versi e poi me li porge tutti: «Mi saluti sua figlia, ha la stoffa della cacciatrice di parole.»
E questo è il motivo per cui mi ritrovo una penna tra le mani e il Nevada lo sto attraversando a vomitare parole. Non so chi mi abbia costretto… Forse è il sonno di Bianca, quel suo mezzo sorriso  di essersi addormentata vedendo il padre che prendeva la penna. Oppure sono gli occhi del fratello Nico che scrutano il paesaggio dal finestrino. Nico è come un tizzone ardente: puoi tenerlo anche avvolto in un panno, tra le mani, senza renderti conto che brucia. Ha una dolcezza fuori dal comune, lo vedo fin troppo debole per questo mondo di continue coltellate. Non ha uno scudo, sembra che la vita gli passi attraverso e che possa distruggerlo, dilaniarlo e per il figlio del dio della morte è il fallimento più grande.
Per un po’ restiamo a contemplarci, io con gli occhi sul foglio, il suo sguardo che guizza da me al finestrino e viceversa: non mi piace, è ambiguo, Nico, sembra che voglia dirti tanto ma sai che tace e questo mi manda in bestia. La debolezza mi manda in bestia. «A che pensi?» Gli domando, brusco. Una sola parola in risposta e mi pento di aver aperto bocca: «Venezia..»
 
C’era una volta… Così dovrebbe cominciare tutto. E invece no. C’era e c’è che Maria Di Angelo si era innamorata del dio dei morti: lei di Venezia, lui senza tempo, né patria, né meta. Lui aveva amato poco nella vita, il minimo indispensabile, come quando ad una pianta si dà solo il mezzo bicchiere al giorno per evitare che si secchi,  e spesso si era divertito nel rendersi superiore, nello sputare in faccia ad Eros, a chiamarsi un angelo della morte e non demone, diavolo dal cuore vuoto. Peccava di cinismo, si gloriava di farlo. E vagheggiava giorno e notte di quanto fosse inutile amare: aveva accettato le attenzioni di Maria come il leone gioca col topo… Sentiva sulla lingua già il sapore metallico della morte di quella ragazzina testarda che credeva di dominarlo. L’avrebbe ammazzata, tanto per divertirsi, per far capire chi aveva il coltello dalla parte del manico: in realtà sapeva che nessun coltello avrebbe mai colmato un buco dentro di sé, nemmeno tutto il sangue di questo mondo. E poi una sera sul Canal grande, quando lei non sapeva ancora nulla di tutti quei casini divini e pensava di conoscere un normalissimo essere umano un po’ tocco, lui la sorprese sul Ponte di Rialto, i piedi penzoloni nel vuoto, qualcosa sulle sue ginocchia. Il dio si avvicinò, un’ombra più densa in un mare liquido: «Ehi, dolcezza, che stai facendo tutta sola alle tre di notte?»
Lei sorrise, i suoi occhi neri mandarono un bagliore: «Disegno.»
«E perché lo fai?»
«Mi piace, è tra le cose che amo.»
Lui si incupì ma scoppiò in una risata folle, amara, incontrollata: «Certo… Ma sappi che all’inferno non esiste amore. Di nessun genere.»
«Non perderò mai la speranza. E poi tu che ne sai?» Silenzio. Restarono a guardare la città addormentata per ore… Poi il dio posò il suo sguardo sul disegno di Maria, un carboncino un po’ sbavato: una grande stanza vuota, il soffitto altissimo, da cattedrale gotica ma senza alcuna finestra, l’unica fonte di luce era una spiraglio sottilissimo che andava ad illuminare un uomo completamente vestito di nero, una formica in confronto all’altezza della sala. La figura era curva su se stessa, di spalle, sola nell’immensità dell’ambiente. «Maria..»
«Eh, di’..»
«Che significa? Il disegno, dico…»
«È l’inferno.»
«Perché?»
«Perché per me l’inferno è una stanza vuota, buia ma non necessariamente spaventosa. Buia e basta, non mi fa paura. L’inferno, dicevo, è una stanza vuota con un uomo solo che cammina su e giù senza mai alzare lo sguardo e questo non gli permette di vedere la luce. Ma la luce c’è, deve solo ammetterlo a se stesso.»
Lui lo ammise a se stesso. E da quel momento cominciò ad amare. Solo che poi sono rimasto fregato, anzi alcune male lingue direbbero anche che ho fatto le corna a Persefone… E pure se fosse? Non ho mai rapito Maria, invece lei sì, ha dovuto imparare a sopportarmi, era lei la prima che diceva che avevo il cuore nero, il cuore buio. Maria invece ci vedeva la luce. Ma tutto ha una fine, tranne l’invidia dei fratelli, giustamente “coltelli”. E Zeus me l’ha portata via. Zeus ha chiuso lo spiraglio. Nico e Bianca… Tra poco non avrò nemmeno loro, sarebbe troppo rischioso e credo abbiano diritto alla vita. Senza di me… Ma pur sempre una vita. Ed è quel sangue italiano che scorre nelle vene di Nico che gli ha fatto amare Venezia sin dal primo istante, che l’ha fatto sorridere. Bianca era stranamente silenziosa, esplorava piazza San Marco con i suoi occhi indagatori, e nel loro profondo si leggeva quel “Ci sono già stata” che caratterizza le radici, che gli dei non potranno mai provare sulla loro pelle perché sono stati per troppo tempo senza trovare una vera casa, senza trovare pace. Dopo giorni di viaggio per mare per raggiungere l’Italia, dagli Stati Uniti, tutta l’ira, la foga e il fuoco che avevano bruciato in me si spensero: “Maria… Maria, questa è la tua terra, dove hai immaginato l’inferno, dove lo hai baciato, dove c’hai fatto l’amore, dove l’hai aiutato a sperare, l’hai fatto salire sul monte della redenzione. Maria, Maria, Maria! Perché?! PERCHÉ? Amare significa distruggere ed essere amati significa essere distrutti… E io distruggerò ogni cosa che fu tua prima di me, sulla faccia della Terra!” Il pensiero che mi aveva animato per miglia e miglia di mare era stato quello: Poseidone ne aveva avuto pietà… Non ho bisogno della tua pietà, fratello, del tuo sorriso, giaccio tra le lacrime. E poi lo sciabordare della laguna aveva fatto tacere tutto, mi aveva posto di fronte a quel silenzio che tanto temevo: il silenzio della fine, della morte… Il silenzio che mi accompagnava da millenni. Che mi aveva asfissiato. La debolezza non ti appartiene, Ade. La fragilità è per i vivi, i morti vogliono solo rispetto e SILENZIO. Tu sei nato per questo, continui ad esistere per questo motivo. Sangue, sangue… Si è versato dalle labbra di Maria, il sangue. Non era nessuno. Maria… Era una mortale. Nessuno, NESSUNO! Ma io l’amavo, io l’amo ancora! L’amore non è niente… Il dio si indurì, il suo sguardo si fece scarlatto, come un lago di carne macellata. Le pupille, nere nel nero, erano dilatate all’infinito, la pelle pallida come il latte. Grigia come un cadavere. Il cadavere del cuore spezzato. Distruggi, Ade, distruggi, dai fuoco a ogni cosa fosse di quella donna sulla faccia della Terra. Non so quanto di me era in me: so solo che vedevo tutto in terza persona… Un essere alto ed emaciato, una criniera di capelli corvini spettinati, la barba corta sulle sue labbra curve su un sorriso crudele. Fuoco e sangue. Una bambina gli correva dietro, lui avanzava imperterrito. «Papà, papà! Padre, padre!» Una risata in risposta, da far accapponare anche le pietre. «Padre! Ahahahahhahahha! Di cosa?! Di chi?!» Il viso della bambina si irrigidì, divenne un pezzo di ghiaccio, così maledettamente simile al dio. «Hai perso le parole, ragazzina? Ahahahahah»
«Ho perso la carne della mia carne.»
«Non sono carne, sciocca.»
«Sei un brandello di cuore.»
«Taci.»
«Perché fai tutto questo? Credi che non lo sappia?»
«Zitta…»
«Ti manca la mamma.»
«ZITTA.»
«Perché? Perché? Perché l’unica stupida che può urlare, può piangere, può incazzarsi sono io? Tira fuori le lacrime, padre! Tira fuori la tua voce, reagisci! Non come Nico che piange dentro e fuori non risponde, fuori ti guarda indifferente… SFOGATI, MA NON FARE IL COGLIONE!»
«ZITTA, ZITTA, HO DETTO ZITTA!»
Il dio si girò di scatto e mentre gridava i suoi lineamenti si distorsero, il demone che lo dominava lo stava trasformando: rivelando la mia vera forma avrei distrutto tutta la città…
«Sei pazzo…» Sussurrò Bianca, con voce spezzata.
«Sono Satana! Ti basta come spiegazione?!»
Girai i tacchi verso una ferramenta, comprai una lattina di acido e un fusto di benzina. La meta era una sola: a destra del Ponte di Rialto, tra Calle Larga Mazzini e Calle Oro… Di nuovo erano le tre di notte, l’ora del diavolo. La città deserta, quei palazzi del centro storico ormai abbandonati, rimaneva solo il campanello Di Angelo/Salvatore. Risi pensando all’ironia tra quei due cognomi. Mi inginocchiai davanti alla vetrinetta a piano terra: all’interno un vecchio che ronfava sulla poltrona, una donna che gli rimetteva la coperta addosso, così, inconsciamente nel sonno, così simile a Maria. Sapevo che la cosa giusta da fare era entrare e dire: “Vostra figlia è morta, mi dispiace.” Invece mi concentrai e in un attimo, nell’ombra, ero in quella casa, silenzioso ed invisibile: presi i disegni più belli, le sue foto, i suoi vestiti, tutto… Li legai insieme in una tovaglia, a mo’ di fagotto. Poi presi la benzina e cominciai a spargerla nella stanza, ora piccola e spoglia. «Buonanotte.» Sussurrai. «Consideratelo il mio commiato funebre…» Mi bastò schioccare le dita e con una fiammata la stanza prese fuoco: Francesco di Angelo e Mara Salvatore sarebbero morti di asfissia oppure con la musica delle loro stesse urla nelle orecchie, carne umana che bruciava… Il dio rideva, rideva, rideva come mai aveva riso: andò in brodo di giuggiole quando vide la loro pelle cotta, piena di vesciche, che scoppiavano e la loro carne che cadeva in pezzi, mai visto uno spettacolo più bello. Poi una vecchia urlò in veneziano: «I pompieri! I pompieri! Qua se va a fuoco tutto!» Il demonio allora preferì filarsela, col suo fagotto di roba rubata, ricordi trafugati, una casa distrutta… E corse per il Calle Larga Mazzini e non si rendeva conto che in faccia non aveva sudore ma quelle erano lacrime: e Bianca e Nico sul Ponte Rialto, le gambe penzoloni nel vuoto. La paura dei vigliacchi si dipinse sul mio volto.
«E mi ha detto di essere Satana, così, con una convinzione inumana.»
«Può essere quello che vuole, per me.»
«Ho paura… Che intendi?»
«Che è mio padre, lo amerò anche se dicesse di essere un mostro.»
«Nico, sei troppo dolce. Morirai in questo mondo di ingiustizie. Non ce la farai da solo…»
«Lo credi davvero, Bianca?» Lo disse in un modo straordinario, sembrava essere cresciuto di vent’anni, il Cavaliere senza Paura, il suo personaggio preferito delle favole che gli raccontava Maria…
Rallentai il passo, fino quasi a fermarmi, mi sfuggì il fagotto di mano. Si frantumarono le cornici delle foto… Nico si girò, mi fissò e mi sembrò che avesse una grande mano che frugava nel mio Io, che vedeva tutte le macchie come un Inquisitore spietato. Mi avvicinai, portando il fagotto con me… Salii sul ponte e poi mi sedetti anche io come loro, le gambe nel vuoto, il Canal Grande sotto i piedi. «Puzzi di bruciato, padre.» Era Nico. «Lo so.» All’improvviso si contorse, scosso da una tosse tremenda. Bianca gli si gettò addosso, tentava di farlo smettere. Io non mi mossi. «Che è successo, Nico, parla!» Lui si riprese, sputacchiando e ansimando: «È…È… Come se, come se…»
«Come se tu fossi stato messo all’improvviso nell’acqua fredda.» Conclusi io, al posto suo.
«Ho sentito un freddo di morte.»
Ancora una volta, preferii tacere. «Guarda, là davanti! Un incendio… Proprio tra Calle Larga Mazzini e Calle Oro, dove abitano i nonni…» La voce di Bianca si spense come una candela sotto un vetro.
«E se…?»
«Fossero morti?» Un risolino acuto si levò dalla gola del dio. I figli lo guardarono allibiti, l’orrore non era dipinto sui loro volti, no, la loro stessa faccia era una maschera di sale.
«Sei stato tu…» Cominciò Bianca.
«Dimmi come, su.»
«Sei sparito per ore e ore, e noi qua a girovagare come stupidi!»
«Uhm, il tempo è relativo, dolcezza.»
«La benzina...»
«E l’acido?»
«Non mi frega dell’acido, la benzina ha già fatto la sua parte!»
«Sono entrato, ho sparso la benzina a terra, è bastata una scintilla e puff, i vecchi hanno preso fuoco come due ramazze antidiluviane…»  
La bambina gli mollò un ceffone. Il dio non aveva mai smesso di sogghignare: lentamente ruotò la testa. «Non è vero che fuoco e acqua non possono collaborare, entrambi sono fatti per uccidere.» Il dio scattò in avanti come una pantera, prese i due figli per la collottola e saltò dal ponte (intanto il fagotto cadde in acqua)… Non pensava, il demone, quando affondava Nico e Bianca. Più giù, più giù, sul fondo di quella maledetta laguna: avrebbero smesso di campare, non avrebbero dovuto subire le percosse di un mondo di merda, mostri, dei avversi, destini, persecuzioni, inseguimenti. Morti e basta. La pace. E in quella stretta sul loro collo si concentrava la rabbia e il rimpianto del padre, la sua crudeltà, la sua sete di potere e di carne sbriciolata. Amare significa distruggere, Ade: anche loro sono figli di Maria, anche loro ti ricordano lei, ogni volta che li guardi negli occhi, quindi ammazzali, ammazzali, AMMAZZALI! E sentiva ogni barlume di coscienza svanire, dileguarsi… Esistevano solo le sue nocche pallide tirate nello sforzo di spezzare loro la trachea, di mettere un punto, un grande pallino nero che avrebbe posto fine a quella follia, che avrebbe cancellato ogni momento sul Ponte di Rialto, il giro in gondola con le battute sarcastiche di Francesco Di Angelo, il gondoliere più pazzo di tutto Canal Grande, con la barca sempre vuota perché sempre un po’ brillo, la gente non si fidava… Avrebbe cancellato quelle ore in cui lui era uscito di giorno, stranamente, perché Maria voleva fargli vedere Murano, voleva portarlo con sé davanti allo spettacolo del vetro fuso, senza sospettare che magari il dio aveva vissuto millenni prima di lei. «Uhm e a cosa ci servirebbe il vetro?»
«Bo, a cosa serve una rosa?»
«Me lo sono sempre chiesto. E non solo la rosa, Demetra non c’aveva un cazzo da fare…»
«Magari si annoiava, Demetra, come tutte le donne sole.»
«Nha, avevo preso in prestito sua figlia.»
«Esiste una banca di vergini?»
«Se cerchi bene, puoi anche prelevare. E senza assegni. Toccata e fuga.»
E Maria si alzò in punta di piedi e lo baciò. Lui la guardò sbalordito, aveva perso anche il suo grigiore, era pallido come un lenzuolo. Lei abbassò lo sguardo, quasi spaventata: «Toccata e fuga.» Sussurrò piano. «Non puoi baciare la morte restando viva.»
«Tu saresti la morte?»
«Ovvio, donna.»
«Non ho mai detto che voglio rimanere per forza viva.»
«Ti ammazzo.»
«Come?»
«Ti do fuoco.»
«Come?»
E non ci fu più modo di parlare, tra loro fu l’immenso, fu la carne, furono le labbra, fu quella notte lunga e felice, la prima di tante altre. Se di sesso si sentì parlare, fu solo quella notte. Se di bellezza si sentì l’odore, fu solo quella notte. Se di Eros si vide Thanatos bruciare, fu solo quella notte.
E ora l’acqua del Canal Grande avrebbe cancellato anche il calore di quel bambino tra le braccia del dio, un neonato con una strana luce rossa negli occhi, la luce della vita… E lui lo guardava, sembrava che da quel mezzo metro di bambino dipendesse l’asse del mondo, lo guardava senza fiatare, lo guardava come se non avesse mai aperto gli occhi. «Come lo chiamiamo?» Chiese Maria. «Nico…»
«Perché?»
«Perché è il vincitore.»
«Così piccolo…»
«Perché ha vinto la freddezza della morte. La mia scintilla.»
«Bianca è la nostra luce.»
Ormai lei sapeva tutto di lui, il divino e l’umano. E aveva accettato il demone, ci aveva trovato l’Angelo. Mentre Nico e Bianca affogavano tutto questo ritornò nel cuore del dio… Non pensare, stupido! Non pensare, ammazzali e basta, farà meno male! Il contenuto del fagotto si sparse in acqua, l'acido si riversò su tutto il contenuto ma un disegno mi galleggiò pigro sotto gli occhi: una stanza vuota, un uomo colpito da un raggio di sole. Quell’uomo non sei tu! Non è vero, Maria l’ha fatto per me. Maria è morta. Non l’ho ancora rivista, ma nessuno meglio di me sa che il suo spirito sopravvive. Non è nulla, solo vapore! Col vapore e il soffio si dà la vita. Recuperai Nico e Bianca che stavano già andando in coma, li riportai a riva… Erano vivi. Ma come potevo nascondere loro che il padre era un mostro e che aveva tentato di ammazzarli? Mi frugai in tasca e ci trovai una boccetta: acqua del Lete. Un sorso avrebbe cancellato i ricordi delle ultime due ore: si sarebbero ricordati però di quando avevo detto di essere Satana e avevo detto quelle cose orribili a Bianca… Pazienza, meglio di niente. Chiusi loro le narici e gli ficcai l’acqua in gola. Poi affittai una stanza in un alberghetto lì vicino, ce li misi a dormire uno accanto all’altro, nello stesso letto: crollai su una poltrona, cercando di non farmi prendere dalla stanchezza, di restare ad ascoltare per una notte intera ogni loro respiro, di rimettergli le coperte addosso ogni volta che si agitavano come solo i cavalli e i bambini sanno fare, di riscaldarmi nel calore della loro pelle. Cercai e basta. Cercai una strada nel buio di quella stanza, cercai me stesso e ci trovai solo un gran coglione impazzito che si era vergognato a morte quando disse Ti amo alla Maria che tanto rimpiangeva e che si vergognava ancora, la vergogna dei vigliacchi e delle azioni vuote, della follia e del ritorno alla ragione dopo la sbornia. Solo che lì una sbornia non c’era mai stata, il cervello che drogava se stesso di collera e crudeltà… Dal campanile di San Marco un rintocco solo: l’una, per dire sarai sempre unico, quando suonava mezzanotte ridevi su due cadaveri, ora sei solo , ora è l’ora in cui ti rodi il fegato, vigliacco?  Taci, voce dell’inferno. Non hai ancora imparato niente… Io sono te non meno di quanto tu sei me, due serpenti con due teste ma con un solo corpo. Sono stanco di sentirti. E dormi: dormi come hai dormito altre volte dopo che sangue fu versato. Chissenefrega. Esatto. Quindi? Chissenefrega. Bene, chiudi gli occhi sul tuo fallimento. Un dio non si volta indietro. Vaffanculo. Ripeti… Vaffanculo, ho detto, vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo! Va (imperativo categorico), a fare (verbo fraseologico di cortesia), in (preparati a muoverti) culo (quello che non ti sei mai rotto mentre dicevi puttanate)!
La notte passò così, col vuoto post-colpa, la depravazione di due parole che non usciranno mai dalle mie labbra… Intanto Nico si agitava nel sonno, scalciava, forse stava avendo un incubo. Bianca pareva morta eppure infinitamente triste: nemmeno i suoi sogni erano il massimo. Qualche poeta greco, di quelli che non bevevano troppo, quindi abbastanza affidabile, diceva che “il sonno è fratello della morte”: non ho mai incontrato questo mio fratello e nemmeno ci tengo, considerato che quelli che ho non hanno fatto altro che accoltellarmi nel corso dei secoli, ma a volte Ipno mi è utile…
Il dio avvicinò la poltrona al letto, silenzio come lo scorrere del tempo, l’abitudine di muoversi nella solitudine, nel buio eterno. Prese le mani di Nico e Bianca, restò un attimo a stringerle, così, tanto per aggiungere un momento alla sua immortalità e poi le intrecciò l’una con l’altra: pose le sue labbra sull’orecchio del bambino. Sussurrava e con lui sussurrava la notte: cominciò con l’inizio che non avrebbe mai avuto, c’era una volta… E non ci sarebbe stato mai. Ma per quelle poche ore valeva la pena rischiare, valeva la pena solo per quelle due scintille, trasformare l’incubo, renderlo creta per qualcosa di più grande e specchio di bellezza. Descrisse loro la luce dell’Olimpo e un angelo caduto, la dannazione e la redenzione, una donna scura che correva tra i piccioni di Piazza San Marco e uno scemo allampanato vestito completamente di nero che inciampava per acchiapparla…
«Dai oh! Dovresti essere capace di tutto e inciampi tra i piccioni!» Lei rideva.
«Ci farò un arrosto enorme con tutti questi uccellacci.»
«Ti ritroverai l’Ade pieno delle loro anime.»
«Dici?»
«Un pollaio divino.»
Ormai era il tramonto, lui sbucò nell’ombra e prese Maria tra le braccia: «Fregata.» Un sorrisetto sardonico gli curvò le labbra. «Ma quanto ti odio…»
«La cosa è reciproca.»
«Un giorno troverò il modo di ammazzarti.»
«Lo hai già fatto, sono nelle tue mani.»
«Sai che non mi interessa, vero?»
«Ma quanto sei scema, un potere enorme e non lo prendi?»
E se andarono lassù, su quel maledetto Ponte di Rialto, come se a Venezia esistesse solo quello e niente altro, come se Venezia fosse loro e nessuno ci avrebbe mai vissuto. «Ho scritto una cosa…»
«Ero rimasto a quando sapevi solo disegnare e io non sapevo fare un cazzo se non arrostire le bistecche.»
«Bo, infatti non so se effettivamente so scrivere.»
«Spara.»
«Tanto non muori.»
«Ahahahah, muoviti.»
«La prima risata che sento da te.»
«Non ne sentirai più, dolcezza, se non ti muovi.»
«È una poesia.»
«Apollo portaci viaaa!»
«La vuoi finire di fare il cretino?»
«Leggila.»

«Un angelo
caduto. Sulle
tue labbra
dure, tra
lo scoppio frenetico
di un cuore
mai pulsante,
una pietra
costruita per
assenzi sopiti.
Un angelo
caduto. Nei
tuoi occhi,
tra il mio
cuore lacerato-
-rosa sospinta
dai rovi
nell'oblio di
futuri già scuri-
si è seduto.
Un angelo
caduto. I
turbinii di
anima e
distrazioni
distorte, non
abbiamo mai
vissuto -il
ghiaccio ci
taglia, la
musa si
volta, il
sole traspare
livido e morto.:
Un angelo
caduto. Sei
mentre piango
la lacrima che
mai fu. Infernale
rimpianto d'amore.»
 
Mi addormentai col suono di quei versi, crollai con la testa nel cuscino di Nico. Mi risvegliai la mattina seguente con la voce di Bianca martellante nelle orecchie: «Papà, sbavi!» Ovviamente negai tutto, come sempre le parti migliori di una storia vanno taciute.
 
 
Ed un tratto sono di nuovo in questo maledetto treno, col peso della dichiarazione di guerra del 10 giugno, col peso che dovrò abbandonarli entrambi, Nico e Bianca, col peso, insomma, della coscienza. «Anche io penso sempre a Venezia.» Rispondo a Nico, desiderando con tutto me stesso che la discussione finisca quando non è ancora iniziata. «Perché hai detto quelle cose orribili a Bianca, quando eravamo lì?» Hanno dimenticato il mio tentativo di ammazzarli ma non le mie parole. Quanto è bagascia la memoria. «Non ero in me.»
«Ma le pensavi davvero?»
«Non lo so, Nico, non lo so. Non so se ho mai pensato.»
Nico sorride, ha uno strano bagliore negli occhi: non lo capirò mai quel ragazzo, potrebbe crollare il cielo ma lui rimarrebbe, una colonna testimone di qualcosa che non è mai stato detto. Così simile e così diverso dal padre, come la natura non avrebbe mai dovuto decidere. Ripassa di nuovo quel rompicoglioni del bigliettaio, sia maledetto lui, il caffè tarocco degli Americani e le tariffe ferroviarie: tra cinque minuti saremo alla Union Pacific Station, l’hanno appena inaugurata e non sanno che il misterioso filantropo che l’ha finanziata sono io. La tentazione di scatenare un terremoto e far crollare tutto è enorme… Sveglio Bianca (comunque non credo che finora abbai dormito, anzi penso che abbia letto almeno la metà di quello che ho scritto), prendiamo le valigie, il treno rallenta, la gente comincia a spintonarsi, volano bestemmie, fortunatamente nessuna rivolta alla divinità del sottoscritto. La folla, la pressione di centinaia di corpi premuti sulla schiena, di fronte, sul petto, Nico e Bianca che potrebbero essere sotto la suola di chiunque, ma so che sono aggrappati ai miei pantaloni e che non si perderebbero mai… Finalmente usciamo da quel casino, riusciamo a parlarci senza urlare e a camminare senza per forza prendere a calci qualcuno: siamo su Main Street, nel cuore di Las Vegas, potremmo andare da qualsiasi parte ma la meta è una sola, Nico e Bianca non ne sanno niente, non sanno nemmeno perché siamo qui, in fondo e non osano domandarlo dopo che il loro padre ha detto di essere il diavolo in persona, si fidano oppure sono come i soldati che seguono il generale verso la morte ma sanno che la diserzione è punita con la morte. Non mi piace tutto questo… Uhm senso di colpa? Ancora tu! Non dovevamo vederci più? Ahahahahah Fammici pensare. Ti sei rammollito, Ade. Ecco la verità. Non ti avevo spedito da qualche parte? Non credo. Località Culo in provincia di Andare a fare? Te ne pentirai. Intanto restaci, idiota.
In tasca ho un biglietto spiegazzato dalle settimane di viaggio… “Lotus Casino- Stewart Ave ATTENZIONE! Alta presenza di Foschia” Che gente di merda, i Lotofagi, mangiatori di Loto, eppure sono costretto… Stewart Ave non è lontano da Main Street e poi tutto andrà a farsi friggere, quindi…
«Dove andiamo, papà?»
«A Stewart Ave, Nico.»
«Prendiamo un taxi?»
«Nha, vi va di fare una cosa?»
«È una sfida?» Bianca e il suo sprezzo del pericolo.
«Non proprio, basta che non vi scolliate da me nemmeno per un secondo.»
«Ma cos’è?»
«Viaggio nell’Ombra.»
Non è saggio fare una cosa del genere in città, con gente che non si fa i cazzi suoi e che ti vede apparire e scomparire da un momento all’altro. Haides, l’invisibile… Ed è la prima e l’ultima cosa che i miei figli sapranno di me, il viaggio nell’ombra, la sensazione di gelo nelle ossa, il vento che preme nelle orecchie, l’oscurità che ulula dentro e fuori. Ci fermiamo, di scatto, Nico sta per perdere l’equilibrio, lo riprendo appena in tempo: «Come hai fatto?» Chiede stralunato. «Oh, è una cosa che ho nel sangue, ragazzo… Un giorno imparerai a farlo anche tu. E soprattutto a non spaccarti la faccia sul marciapiede.» Bianca ride, lui la guarda male. E nei loro occhi c’è il riflesso dell’insegna del Lotus, colori che feriscono, colori che in realtà non vedo, ormai è tutto spento, come se non potesse più esserci la luce o forse come se non fosse mai esistita.
«Papà, che ci facciamo qua?»
Non rispondo, ci sediamo sui gradini di un negozio di fronte al Casinò. «Papà, se c’è qualcosa che devi dirci…» Bianca come posso dirti che sto per lasciarvi ad un futuro che non esiste? Che siamo in una guerra di fratelli e di bastardi? Che non è giusto che voi siate nati, che è stato uno sbaglio, che ho chiamato Nico vincitore e tu come il colore che non ho mai visto e che ho sempre saputo che amare significa distruggere ed essere amati significa essere distrutti? Come posso dirti questo Bianca? COME POSSO URLARE? Il silenzio è la legge di questo cuore… Non hai un cuore. Forse è solo carne andata a male.
«Saremo con te papà.» Nico lo sai che io invece non ci sarò? Lo sai che non invecchierete e rimarrete soli? Che non potrò mai dirvi niente, che rinuncerò a tutto, che nulla avrà più senso, dove non c’è memoria, non c’è senso, non avete più una madre e io non sono che un pezzo monco di qualcosa che dice di essere un dio… L’Oracolo mi ha predetto maledizioni, all’odio ho risposto con odio. A voi cosa devo rispondere?
Il dio prende i due bambini di fronte a sé, li bacia, stringe le loro mani fino a farsi male: «Vi devo lasciare. Devo andare.»
«Sappiamo badare a noi stessi per un giorno o due. Ti aspetteremo.»
Un sorriso amaro: «Vi sembrerà così, solo un giorno o due, ma sarà di più, molto.»
«Vai papà, se devi andare farai tardi.»
«Sì, Bianca ha ragione: vai, non preoccuparti, sai che ti aspetteremo.»
Il dio esita, poi si china ancora di più a guardarli negli occhi: «Volete sapere che cosa vi devo dire?»
«Non è necessario.»
«Mi dispiace…» Sussurra e non si sa se è lui a sussurrare o è il vento che nel deserto del Nevada modella la roccia o è l’alito delle parole maledette che non ha mai avuto il coraggio di pronunciare a se stesso in millenni, secolo dopo secolo sudato a cadere sempre più in basso.
«Papà… Ma piangi?»
«No, Nico, non so come si fa. Ora andate.»
Li prende per mano, li porta all’ingresso e due donne dal corpo di uccello gli fanno un cenno di intesa. Arpie per condurli al Lete, per far dimenticare loro tutto.
Buonasera, Haides… come va? Chissenefrega. Come?! Ora sei solo? Sono sempre stato solo. E tutti quei discorsi da verginella in calore? Chissenefrega. Non ho mai amato. Mi piaci, ragazzo. Anche tu. Ade è tornato.  
 

Un uomo compare dal nulla alla fine del viale, davanti ad una chiesa… Ha uno sguardo folle, due occhi neri metallici, crudeli, l’imponenza delle figure mitologiche. Passa un ragazzino, di quelli che a quattordici anni di sigarette ne hanno già fumate a migliaia, l’uomo gliene chiede una, la accende pur non avendo l’accendino, la tiene per un po’: poi si avvia lungo la strada, prende la sigaretta e la getta tra le sterpaglie del giardino della chiesa. L’incendio è immediato:  butta nel fuoco un paio di fogli piegati, forse una lettera, borbottando qualcosa riguardo “a perdite di tempo” e “scrivere è una cazzata”. Ride, ride, ha una risata da pazzo, sembra che abbia visto il più bel film comico della sua vita. Sparisce in un addensarsi di ombre. I fogli non si sono ancora consumati del tutto, uno strano uccello dalla testa di donna li recupera dal fuoco: «Ella ha trovato un tesoro, Ella Arpia fortunata!» Solo un pezzo di quella carta, sopravvive dalla cenere:
 

Fuoco e sangue
Lascia le tue scintille
Spegni il buio
  
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: RitaWhitlock99