Serie: Axis Power Hetalia
Titolo: Ὀρχέομαι - olim
hodieque
Titolo capitolo: Olim
- Ὠρχούμην
Personaggi: OC - Serenissima Repubblica di
Venezia (Elena Lucrezia Caterina Cornaro), OC - Repubblica di San Marino (Marcus Alighieri)
Warning: //
Wordcount: 1350
Challenge: Writing Stuff Series
Prompt: Day #
14 - « Rinuncia al tuo potere di attrarmi ed io
rinuncerò alla mia volontà di
seguirti»
Note:
- Il titolo significa "Io danzo - ieri e oggi".
- Il titolo del capitolo significa "ieri - danzavo" , sottolineo che il
verbo è all'imperfetto, che in greco descrive l'azione nella
sua durata in un contesto passato
- Le frasi in latino sono tratte dall'oratorio di Vivaldi "Juditha
triumphans devicta Holofernis barbarie" (più informazioni
utili qui)
, non ve le traduco perché non è funzionale alla
trama, in realtà. Però, piccola noticina: se per caso vi
capitasse di ascoltare questo piccolo gioiello, notate che l'ultimo
coro è l'inno ufficiale della Serenissima, per questo l'ho
usato più volte come riferimento e qui lo trovate citato pari pari.
- Le frasi che trovate allineate a destra sono tratte dalla canzone La
Candela e la Falena di Branduardi (-piccolo inchino al cospetto del
Maestro-), che ho trovato particolarmente adatta alla situazione
- Storia che dividerò in due capitoli, uno ambientato nel passato e uno nel presente, perché solo così riesco a dare un senso al prompt <3
- Piccolo prologo così capirete: 1797, Venezia viene conquistata
dai Francesi blablablabla, Elena se ne va e trova rifugio a San Marino
blablablabla
-
UNA MEGA DEDICA A BARBARA, la mente geniale che sta dietro il bel tenebroso Marcus, ma soprattutto una dolcissima e meravigliosa persona che si merita questo e ben altro oltre a queste parole messe a caso e in malo modo <3
Disclaimer: la serie
appartiene a Himaruya, Venezia a me e San Marino alla mia
bella signorina Barbara <3
“Arma, caedes, vindictae, furores”
(Militum pugnantium in acie cum timpano bellico)
che tu sei di mia
luce amante.
Tu non conosci la verità,
il tuo volo è un
'illusione.»
- A. Branduardi,
La Candela e la Falena -
Lo sguardo -un tempo vibrante di vivace viziosità e malizia-
osservava con
spento interesse le fiamme danzanti nel caminetto; occhi vuoti
sostituivano
quell’immagine di accogliente calore con il fumo nero e denso
che proveniva
dagli edifici di Venezia e si rifletteva nell’acqua,
tingendola di cupo grigio;
la fiera bellezza era sfiorita da quelle gemme smeraldine che erano i
suoi
occhi, ora velati dalle palpebre calate pesantemente su di essi.
Non sospirò e non pianse: alla solitudine della notte della
sua stanza in quel
rifugio era riservato il privilegio di ascoltare le note amare della
sua silenziosa
lirica funebre composta dal pianto improvviso che la coglieva, senza
pietà
alcuna.
Ma in quel momento no. Non le era concesso versare lacrime o lasciare
che il
cuore dolesse stringendosi nel petto in una morsa fatale.
Bastava abbandonarsi alla morbidezza dei cuscini di quel divano
rivestiti di
broccato dalle intricate fantasie floreali, al calore del cupo velluto
cremisi
costellato di pietre e impreziosito dal merletto dorato e dalla seta
nera, alla
freschezza del duro mogano su cui giaceva una sua mano, allo
scoppiettio del
fuoco ipnotico che illuminava la sala a giorno assieme alle candele.
E
aspettare.
Il silenzio era il pentagramma dove il suo apatico dolore si riversava
nella
sua immobilità accidiosa, la melodia si chiamava
“oblio”.
A
rompere la melanconica disarmonia furono dei passi lenti e decisi, che
la
destarono dal suo muto cantare e la costrinsero ad aprire nuovamente
gli occhi
oziosi.
San
Marino, davanti a lei, la scrutava impietoso, con quegli occhi zaffiro
-stregati senza dubbio-
che potevano sondare con terrificante semplicità ogni
recondito angolo dell’anima peccatrice e condannata
della Serenissima.
Insopportabile.
Non era mai stato concesso a nessuno di poter vedere la Regina inerme,
immobile, in silenziosa e involontaria supplica.
Mai.
Quello
se ne era andato, bruciato dallo stesso fuoco appiccato dai francesi
che aveva
consumato il gonfalone marciano in piazza San Marco, rendendolo un
mucchio di
brandelli di stoffa annerita e cenere.
«Lasciami
in pace.»
La
sua voce aveva completamente perso l’abituale tono imperioso,
ora divenuto solo
malcelato, silenzioso e involontario implorare.
L’orgoglio
trafitto a morte sanguinava copiosamente.
“Aiutami.”
Non
ricevette nessuna risposta, se non una mano che Marcus le porse, in un
muto
invito ad alzarsi da quella comoda prigione autoimposta.
Rintanarsi
tra quei cuscini, nel buio, in quell’istante le parve la cosa
migliore da fare,
ma inconsciamente poggiò la mano su quella altrui; venir
sbilanciata in avanti
e ritrovarsi in piedi fu questione di pochi secondi.
Sospirò
scocciata e di nuovo cercò di divincolarsi, ma il braccio di
Marcus posato
saldamente sul suo fianco le impedì anche solo di muovere un
passo; a
meno che non fosse lui a volerlo esplicitamente, costringendola a
seguirlo.
Avanzare, retrocedere, avvicinarsi ed allontanarsi, una giravolta in
brevi
passi scanditi dai tacchi.
«Seriamente?! Vuoi
ballare? Potevi chiederlo a chiunque.»
Sibilante,
o come ringhio offeso, la sua voce interruppe il silenzio musicale, e
scortese
riecheggiò nella sala deserta e nella penombra del fuoco
morente. Sprezzante e
sgarbato fu il gesto con cui liberò la mano
dall’altrui presa, veloce come se
avesse appena toccato qualcosa di ustionante; sdegnosa
l’allontanò prima che
venisse catturata di nuovo dalle mani di lui e che il suo volto stesso
sentisse
la pressione gentile e delicata di quelle dita, costringendola a
fissare la
notte degli occhi di Marcus, e a lasciare che lui stesso potesse
guardare i
suoi.
Imperdonabile.
«Chiudi
gli occhi.»
«Non
ho tempo da perd-»
«Chiudili,
per favore.»
E
sbuffare irata sembrò la reazione più normale per
Elena, mentre tacitamente
acconsentì; e di nuovo furono le acque dell’oceano
del buio ad accoglierla.
Sollievo.
Il
solito sollievo che la coglieva nei suoi sogni dorati, prima che gli
incubi di
piombo fuso si impossessassero della sua mente, imprigionandola in
invisibili
catene roventi che la trattenevano dallo svegliarsi.
Li riviveva sempre, quegli incubi soffocanti da cui scappare era
impossibile.
Ma
ora no. Il buio la cullava assieme al lento danzare in cui
l’aveva coinvolta
Marcus.
Sicura si lasciava guidare nei movimenti, e sicura si lasciava
trascinare nella
beata illusione.
Nelle sue orecchie risuonavano distinti gli acuti archi, le squillanti
trombe e
l’aspro e secco clavicembalo intonanti con
vivacità solenne la Juditha
Triumphans, a cui si univano il vociare concitato delle persone, le
cristalline
risate, il ticchettio di passi veloci e lo strofinio leggero delle
vesti e di
ingombranti e sfarzose gonne sul pavimento lucido di marmo bianco:
chiare e forti le voci del
coro riecheggiavano cristalline in ogni angolo e rimbombavano nella
testa di
Elena.
“O bellicae sortes, mille plagas,
mille mortes, adducite vos.”
L’oro
riluceva nella sala, immergendosi in un caleidoscopio di colori
vorticanti che
sfumavano a tempo con la musica in quella che pareva eterna danza
destinata a
una non-fine.
Elena
seppe, nel suo cuore affranto, di far parte di quel mondo di illusione
splendente e
abbagliante.
Vi
desiderò ardentemente rimanere e appartenervi.
Aggrapparsi
alle spalle di Marcus e continuare in quel rondeau fatto di volteggi e
passi
aggraziati in punta di piedi.
Lasciarsi attirare e perdersi in quel non-luogo, utopia di quello che
la Leonessa desiderava
e bramava.
Come la falena che danza attorno alla fiamma, attratta da perdizione e
tentazione,
oblio infernale e paradisiaco al tempo stesso.
Era il freddo che ustiona e intorpidisce i sensi e la vita stessa.
“Et cuncta iura sua gloria
concedit.”
Mano
destra contro mano destra, smeraldi e zaffiri fusi assieme negli
sguardi della
coppia impegnata in quel ballo del destino ormai trascorso e
irrecuperabile: in
sincrono muovevano gli stessi passi, giravano attorno alle loro mani
unite, lei
piroettava su se stessa in un fruscio di fulgido oro merlettato che
luccicava,
lui era pronto a impossessarsi di nuovo di quell’esile donna
leggiadra come il
fiero e regale felino che la rappresenta.
“O quam pulchra tua potentia
illustrata tua clementia!”
Nella sua illusione Elena rideva ogni volta che si
ritrovava tra le braccia di Marcus, sicura gabbia che
l’allontanava dal
riprendere coscienza della realtà oscura che stava oltre le
palpebre calate sui suoi
occhi.
Quegli occhi che Marcus poteva immaginar brillare nella mente di Elena,
gioiosi
anche loro nel mondo in cui erano stati abituati al bagliore della
magnificente
preziosità di casa.
“Quiescat
exanguis, et sanguis sic exeat superbus in me.”
Nella
realtà in cui essi danzavano, era il silenzio
l’unica melodia udibile, e lo
spettatore musicante era il nulla.
Marcus si fermò.
Fermò
anche Elena, posando entrambe le mani sui suoi fianchi.
“Et
placata sic ira divina, Adria
vivat, et regnet in pace.”
A riportarla in superficie
dall’oblio fu la fine di quei delicati volteggi.
Riaprì
gli occhi.
L’illusione
scomparve assieme a quella leggerezza nel suo animo. Effimera calma ora
fuggita
assieme alla luminosa luce d’oro riflessa sul marmo bianco e
alle ultime note
di violino, distorte dalla realtà.
Di
nuovo sentì il peso opprimente del gravoso macigno
all'altezza dei polmoni, che minacciava di
toglierle il respiro e farla cadere a terra priva di forze se non fosse
per
quelle stesse braccia che prima la guidavano e ora la sorreggevano
stretta,
attirandola contro il petto di Marcus. Un braccio le
circondava saldamente la vita,
l’altro premeva con debole e gentil forza la testa contro la
sua spalla.
Lei
altro non poté fare che abbandonarsi in quel nuovo torpore e
perdervisi indifesa, le
braccia strette al petto mentre la brace pigramente si spegneva,
morendo sotto
gli occhi offuscati di Elena.
Nel buio lo maledisse.
Per
averle concesso quei minuti di pace.
Per
concederle in quel momento vita.
Per
minacciare di ucciderla facendola annegare in felicità
insperata.