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Autore: ilovebooks3    24/06/2014    0 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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The truth is…I love you” (P. Jane)
 
Eccomi qui. Nessuno, ormai, mi può fermare.
Né la sicurezza aeroportuale, che incomprensibilmente, e per mia fortuna, scarseggia, né il pilota, che se ne sta rintanato nella sua cabina di pilotaggio a farsi un bicchierino, né il presidente degli Stati Uniti, che spero abbia cose più importanti di cui occuparsi.
Mi sento potente, ma anche spiacevolmente vulnerabile.
Accosto le tendine e le supero. Percorro il corridoio e lascio vagare lo sguardo in cerca del motivo per cui sono salito su questo aereo.
Alcuni passeggeri mormorano, incuriositi dalla mia incursione, ma non me ne curo. Devo avere un aspetto un po’ equivoco, ma, d’altronde, mi ha sempre divertito spiazzare la gente.
Eccola.
Lisbon.
Seduta al posto 12B. In mezzo a una donna bionda di mezza età con addosso una maglia a fiori che non le dona affatto, e a un uomo, probabilmente gay.
Mi avvicino, impaziente e terrorizzato allo stesso tempo. Tutte le arterie del mio sistema circolatorio pulsano impazzite. Non è una gran bella sensazione.
Lei, invece, è bella. E pensierosa. Sta guardando il finestrino, ha la tipica aria corrucciata di quando riflette.
Indossa una maglia verde come i suoi occhi. Che, improvvisamente, si girano verso di me. E’ sorpresa. La sorprendo spesso, ma mai come questa volta. Queste sono le soddisfazioni della vita. Come lo sarebbe sorseggiare un buon thè sul divano in sua compagnia.
Mi blocco a circa un metro da lei.
«Eccoti». Non riesco a dirle niente di meno stupido.
Mi lancia un’occhiata che trafigge ogni centimetro della mia pelle.
Non riesco a capire se sia felice di vedermi o no. D’altronde, non sono un sensitivo; presto solo attenzione.
Il suo sguardo lancia scintille. Per fortuna, intorno non c’è nulla di infiammabile. Forse “felice” è una parola grossa.
D’altronde, cosa posso pretendere? Solo che mi stia ad ascoltare. Non merito nulla di più.
Mi chiede cosa ci faccia qui.
Devo sbrigarmi, prima che arrivi la cavalleria  e mi arresti. Non ho tempo da perdere. Non più.
Le annuncio che devo dirle una cosa.
Non è facile. Parlare, ma anche mostrarmi per quello che sono.
Ho sempre pensato di non potermi permettere di lasciare che le persone vedessero cosa nascondo dentro di me.
Lisbon c’è sempre riuscita comunque. E ora ho intenzione di permetterle di vedere cose che nemmeno io ho mai visto. Solo davanti a lei posso essere me stesso.
In realtà, a voler proprio essere precisi, davanti a me c’è anche una cinquantina di paia di occhi curiosi. Non è il posto giusto per una conversazione privata, questo. Non importa. Non posso permettermi di fare lo schizzinoso.
Per un attimo Lisbon fissa la mia camicia, so che è mezza fuori dai pantaloni e che non ho un gran bell’aspetto. Poi mi ordina di andarmene. Di nuovo.
Devo essere proprio impresentabile.
Eh no, Teresa, mi sono fatto in quattro per venire qui, ho rischiato di trasformarmi in un colabrodo e di sfracellarmi al suolo da un’impressionante altezza. Ci ho rimesso una caviglia. Non ho intenzione di andarmene da qui. Non prima di dirti quello che devo dirti.
Dichiara di non volermi vedere.
Mi fa male sentirglielo dire.
Il linguaggio del suo corpo sembra confermarlo e smentirlo allo stesso tempo. Le mani incrociate sul grembo e la postura rilassata indicano che non si sente minacciata dalla mia presenza, ma l’espressione del viso è sulla difensiva. Non ho idea di quale delle due reazioni stia prevalendo.
Bei tempi quelli in cui Lisbon era un libro aperto per me.
Distoglie lo sguardo.
Forse sarà più facile. E’ dura sostenere lo sguardo di una principessa arrabbiata. Raramente lo è così tanto. Arrabbiata, intendo.
Forse è un buon segno. Vuol dire che le importa qualcosa di me. O forse no.
Decido di essere completamente sincero. Su tutto.
Ammetto che ha ragione lei. Che ho dimenticato come si comporta un normale essere umano.
Non è uno dei miei trucchetti, questo. Lo penso sul serio. So di essere un incorreggibile maledetto manipolatore, ma ci proverò davvero a cambiare.
Una volta avevo detto che non potevo cambiare per nessuno.
Ora posso. Lo farò per lei, se me ne darà l’occasione.
Anche se, in questo momento, l’occasione che vorrei sembra piuttosto lontana e improbabile. La postura di Lisbon è diventata più rigida e questo non lascia molto spazio alla speranza.
Però intuisco che è colpita dalle mie parole. Si gira di nuovo verso di me.
Occhi spalancati e labbra socchiuse, con gli angoli rivolti verso il basso. Labbra dannatamente belle, per la cronaca.
E’ agitata, ma cerca di non darlo a vedere.
E’ tesa, lo dicono le sue dita nervose e le sue spalle. E non sembra più tanto arrabbiata.
Forse ho catturato la sua attenzione. Devo approfittarne.
Sono terrorizzato. E’ l’unica opportunità che ho. Eppure so già che sarò un disastro.
Lo showman che sa sempre cosa dire questa volta non ne ha la minima idea. Non sono bravo in queste cose.
Non so da che parte cominciare, eppure comincio.
Inaspettatamente le parole mi vengono naturali, una dopo l’altra, come se fossero sempre state dentro di me. Perché, in effetti, sono davvero sempre state dentro di me. Ora sono finalmente libere di uscire.
Ammetto di usare trucchi, mentire e ingannare la gente per evitare di dire quello che sento.
Non l’ho mai detto ad alta voce. Non mi sono mai scusato, perché non sentivo di doverlo fare. E’ più facile chiudere gli occhi e far finta che vada tutto bene.
Ora è tutto diverso. Ho capito di aver esagerato e che tutti i miei giochetti mi si sono ritorti contro.
In particolare, da quando è arrivato l’uomo dei pancake: ovvero il mio esatto opposto. Un uomo sincero e diretto, anche se innegabilmente tonto. Ma questa è un’altra storia.
So che spiegare a Teresa le mie paure relazionali è perfettamente inutile,  vedo dal suo viso che le conosce già. Lei mi ha sempre capito.
Ma dirle è utile per me. E’ terapeutico. Catartico.
La riservatezza, a volte, è sopravvalutata.
I tratti del suo viso si ammorbidiscono, la sua espressione diventa più dolce; ma anche più attonita di prima. Mi è sempre piaciuto sorprenderla.
E il bello deve ancora venire.
Sembra ancora più stupita, e addolorata, quando le rivelo che l’idea che qualcuno si avvicini a me è terrificante. Lo sa, non è nulla di nuovo, ma non capisce dove voglia arrivare ora con questo discorso.
Per ovvi motivi, aggiungo.
Sa a cosa mi riferisco. L’ultima volta che mi ero innamorato di qualcuno e avevo costruito una famiglia, mi era stata portata via. Perché chi si avvicina troppo a me muore. Come le falene si bruciano quando sfiorano una lampadina.
Nessuno può assicurarmi che non succederà di nuovo.
Piango.
Ebbene sì. Il freddo mentalista Patrick Jane, quello che si è sempre preso gioco delle emozioni altrui non mostrando mai le proprie, sta piangendo. E’ imbarazzante. Patetico. Ma non posso farne a meno.
Dire la verità, evidentemente, mi fa trasformare in una fontana. Per fortuna, la dico raramente.
Anche Lisbon ha tutta l’aria di essere sull’orlo delle lacrime.
L’ho sempre detto, è passionale e particolare.
Passionale perché un minuto fa era così arrabbiata che mi avrebbe tirato volentieri un pugno sul naso; particolare perché ora piange al solo vedermi piangere.
E’ sempre stata così umana, anche durante le indagini. Dicesi empatia.
Ecco, non è un paragone azzeccato. Non siamo in un interrogatorio qui. O almeno spero.
Forse, ora, c’è qualcosa di più dell’empatia.
Mi crogiolo per un attimo in questo pensiero confortante, ma poi mi rendo conto che è meglio evitare di illudersi.
L’ipotesi di perderla per sempre non è poi così remota. Il fascino dei pancake è pericoloso.
Lisbon mi sta guardando in modo strano. E’ visibilmente scossa. Sembra spaventata. Da me. Occhi spalancati e lucidi. Midriasi. Reazione di fuga. Non promette niente di buono.
«Ma la verità, Teresa…», è così bello il suo nome, vorrei continuare a pronunciarlo per i prossimi cinquant’anni.
La sua espressione cambia. Le fa sempre un certo effetto quando la chiamo per nome. E anche a me. Peccato che lo faccio raramente.
Lo faccio, ad esempio, quando siamo sotto copertura; quando fingo di spararle; quando è in un letto di ospedale dopo aver rischiato di morire; quando devo convincerla a darmi la sua pistola per andare a uccidere John il rosso; quando ho un’amnesia o sono sotto l’effetto di qualche droga.
In tutti quei momenti non sono mai stato molto credibile.
Ora sono perfettamente in me, anche se non sembra. Anche se Lisbon mi sta guardando come se fossi pazzo. Non ha mai guardato in questo modo nemmeno il più folle dei sospettati.
Forse ha capito dove voglio arrivare.
Forse, dentro di lei, l’ha sempre saputo.
Non ho il tempo di chiedermi se abbia voglia di ascoltarmi o no.
Una forza irresistibile mi spinge ad andare avanti. Anche se quello che sto per dire è una delle cose più difficili che abbia mai detto. La verità.
Un tempo avevo detto che la verità era solo mia. Non più. E’ anche sua, ormai.
«...è che non posso immaginare di svegliarmi al mattino sapendo che non ti vedrò».
La mia voce si spezza alla fine della frase.
E’ la stessa cosa che avevo pensato quando Angela e Charlotte erano morte. Per questo ho sempre preferito dormire in anonime stanze d’albergo, nel bull pen del CBI, o sul divano in pelle dell’ufficio.
Ora penso la stessa cosa. Perché anche Lisbon mi sta lasciando. E ne ha tutte le ragioni.
Anche lei sembra abbastanza sconvolta. Ha le sopracciglia aggrottate, le labbra le tremano per un attimo, poi la smorfia della bocca rivela inequivocabilmente che sta per piangere.
Abbassa lo sguardo, per ricacciare le lacrime da dove sono venute. O per cercare di prendere distanza da tutto questo. Non se l’aspettava, o forse sì. E’ triste, o forse no. Non lo so.
Giuro che non mi farò mai più chiamare mentalista.
Piango, spudoratamente. Io che non ho mai voluto che nessuno mi vedesse versare una lacrima.
Piango per Angela, perché, nonostante siano passati dodici anni, mi sembra di tradirla.
So che non è giusto che io mi senta in colpa perché ho ritrovato la voglia di vivere. Ma so anche che non è giusto che io sia vivo e lei no. Per colpa mia.
Sentirsi in colpa è una punizione peggiore della morte, l’avevo detto molte volte: tutti muoiono, ma pochissime persone si sentono in colpa per le brutte cose che hanno fatto. E fa male.
Io in colpa mi sentirò sempre, qualunque cosa succeda. Ma è arrivata una donnina dagli occhi verdi che mi ha dimostrato che qualcosa di buono lo posso fare anch’io.
Piango per Charlotte, la mia bambina perduta: piccola mia, non ti amo di meno perché ora amo anche Lisbon. Lei mi rende più sereno, mi rende una persona migliore. Mi sarei perso se non ci fosse stata lei. Forse non sarei qui.
Quando ho ucciso John il rosso e vi ho vendicate, per un attimo ho pensato di uccidere anche me stesso. Volevo raggiungervi.
Poi ho pensato a Lisbon e qualcosa mi ha fermato. La vita era ancora degna di essere vissuta.
Tu e la mamma mi mancate. Mi mancherete sempre. Vi amerò sempre.
Ora, però, vorrei provare ad avere un futuro. E un futuro posso averlo solo con la persona che è qui davanti a me.
Questo non sottrae neanche una briciola al bene che vi voglio. Una volta, quando mi eri apparsa come allucinazione, avevi detto che tu e la mamma avreste preferito vedermi ricostruire una vita piuttosto che distruggere quella che mi restava dietro alla vendetta.
Non ho mai creduto in Dio con tutte le storielle sull’inferno e sul paradiso. Eppure mi piace pensare che, ovunque voi siate, la pensiate davvero così.
Piango per Teresa, perché so che sto per sconvolgere la sua vita ed è l’ultima cosa che vorrei; perché so che, in ogni caso, la farò soffrire; perché non so se mi darà la possibilità di prendermi cura di lei e perché non so se sarei davvero in grado di farlo.
Piango per me perché ho paura di essere di nuovo felice; e anche perché non so se sarò capace di esserlo. Dipenderà tutto dal mio istinto di autodistruzione. E da un’agente di mia conoscenza.
Che ha appena inclinato il viso, con un’espressione irresistibilmente e paurosamente interrogativa.
«La verità è che…», prendo un respiro. Ne avrò bisogno.
Il viso di Lisbon non promette niente di buono. Labbra contratte. Tanta tristezza nei suoi occhi. E qualcos’altro che non capisco cosa sia. La sua testa sta perfino accennando un lieve movimento, come per dire “no”. Sembra terrorizzata.
Ha capito. Sembra volermi implorare di non andare avanti.
Ma non posso. E non voglio.
Bell’incoraggiamento, non c’è che dire, Lisbon. Dovrò fare tutto da solo.
«…ti amo».
L’ho detto. L’ho detto. L’ho detto. Ce l’ho fatta.
Sono travolto da un vortice di emozioni.
Ho un martello pneumatico nel petto. I miei polmoni hanno fame d’aria.
Quelle due parole che avevo pensato di non dire mai più sono inebrianti.
Teresa mi sta guardando con un’espressione indecifrabile.
Sta accusando il colpo della mia rivelazione, evidentemente. Lo capisco dai suoi occhi sbarrati, che improvvisamente si abbassano. Dalle sue labbra socchiuse, che improvvisamente si serrano. Dal suo sospiro pieno di qualcosa che assomiglia al dolore.
Abbassa lo sguardo e chiude gli occhi. Una lacrima le scende sulla guancia. So che avrebbe fatto di tutto per trattenerla. Non ce l’ha fatta.
Non capisco se è un buon segno oppure no. Cerco di non chiedermelo.
Distolgo lo sguardo da lei. E’ dura guardarla dopo averle detto una cosa del genere e non sapere cosa stia pensando. E’ una sensazione che non conosco.
Probabilmente non l’ha presa bene. Non mi potevo aspettare nulla di diverso.
Prendo un respiro profondo. Piano piano comincio a riossigenarmi.
Mi sento già meglio. Più leggero. Liberato da quelle parole non dette che mi pesavano sul petto.
Gesticolo come un folle. «Non puoi immaginarti come ci si sente bene ad averlo detto ad alta voce. Ma mi fa paura». Tanta. Sono terrorizzato.
Da quello che dirà lei.
Da quello che succederà.
Da quello che farò io, in qualunque caso.
Non so se è stata una grande idea. Però sto bene, adesso.
Guardo Lisbon. Che non mi sembra stia altrettanto bene. Piange e continua a non guardarmi.
Può voler dire tutto o niente.
Scrolla la testa. Si morde un labbro. Adoro quando lo fa.
Forse non crede a una parola di quello che le ho detto. Fa bene, visti i precedenti.
Ma ora è diverso. Devo farle capire che questo non è uno dei miei trucchetti.
«Ed è la verità. E’ proprio quello che sento», affermo con tutta la sicurezza e la capacità persuasiva di cui sono capace in questo momento.
La fisso intensamente, cerco un contatto visivo. So che quello riuscirebbe a convincere Lisbon della mia buona fede più di mille parole.
Finalmente alza gli occhi su di me. Sono rossi e lucidi. E bellissimi.
Mi crede. Posso vederlo chiaramente. Come sempre, cerca di fidarsi di me. Ma, probabilmente, non basta.
«E’ troppo tardi, Jane. E’ troppo tardi», mi dice, accennando una smorfia di disappunto che vorrebbe assomigliare a un mezzo sorriso rassicurante.
Qualcosa si spezza dentro di me.
Ma d’altronde, cosa mi aspettavo? Che mi dicesse che mi ama anche lei e scendesse dall’aereo?
Impossibile.
E poi non avrebbe mai funzionato. Non so cosa mi ero messo in testa. Che idiota.
Un attimo.
Se Lisbon dice che è troppo tardi, vuol dire che c’è stato un tempo in cui non lo sarebbe stato. Un tempo in cui ha provato qualcosa per me. Il mio cuore si scalda improvvisamente.
Un attimo.
Se dice che è troppo tardi, vuol dire che ora ama Pike. Ed è il presente quello che conta. La situazione non si mette bene, tutto sommato.
Fingo che non importi.
«Forse. E lo capisco». Scrollo la testa, allargo le braccia in una posa rassegnata e sorrido.
Provo a rindossare una parvenza della mia maschera indifferente, ma non ci riesco.
Un tempo avevo detto che la vita è un gioco. Non è vero. Ora non lo è.
«Ma va bene. Dovevo farlo e tu meritavi di sentirlo», continuo, apparendo più sereno di quanto sono in realtà.
Non va bene per niente, Lisbon.
Ma dovrò accettarlo. Se tu non vuoi me al tuo fianco ma Pike lo capirò.
Lui è un brav’uomo. Io no.
Dovrò cercare di essere felice per te.
Almeno potrò dire di essere stato sincero, una buona volta.
Almeno saprò di aver fatto tutto quello che era in mio potere per fermarti.
Almeno non avrò anche questo rimpianto ad avvelenare quello che rimane della mia anima. Ammesso che io ce l’abbia un’anima.
Sento del baccano alle mie spalle. E’ un uomo della sicurezza che, considerato il tono intimidatorio che mi rivolge, mi sta probabilmente puntando una pistola addosso.
Un tempo ero terrorizzato dalle armi. Lo sono ancora, in realtà. Ma ora la pistola rappresenta il minore dei problemi.
Ubbidisco e alzo le braccia, senza staccare gli occhi da Lisbon.
Potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.
Voglio guardarla più che posso.
Vorrei farla sorridere. Un tempo ci riuscivo.
Voglio ripeterle all’infinito quella frase che non ho mai detto a nessuna donna dopo mia moglie. Quella frase che solo oggi ho reimparato a pronunciare.
«Ti amo, Teresa».
Sono così belle queste tre parole. Dolci e sconvolgenti allo stesso tempo. Me le sono tenute dentro per troppo dentro. Ora ci ho preso gusto.
Mi guarda attonita. Non si aspettava che glielo ripetessi.
Non è lo sguardo di una donna indifferente, questo. Né di una donna arrabbiata. Ma, stavolta, potrei sbagliarmi.
L’uomo mi sta arrestando, ma quasi non me ne accorgo.
Non voglio smettere di dirle che la amo.
Non voglio interrompere il contatto visivo.
«E sono felice di essere stato capace di dirtelo».
Vero. Sono fiero di me. Qualunque cosa succeda. Devo ringraziare le parole di un uomo vigliacco che mi ha incitato a non diventare come lui.
Quel bastardo che mi sta arrestando mi costringe a voltarmi e a seguirlo lungo il corridoio.
Non la vedo più.
Vorrei divincolarmi, ma non porterebbe a niente. Quello che dovevo dire l’ho detto.
Ma è meglio ripeterlo.
«La amo», comunico ieraticamente all’uomo della sicurezza, alla hostess, a tutti i passeggeri e al mondo intero.
«La donna al 12 B, la amo». Il teatro mi è sempre piaciuto. Ma questa non è che la verità.
«Abbiate cura di lei», urlo.
So che questa frase potrebbe rubarle un sorriso. E quello che vorrei ora è solo un piccolo sorriso.
So anche che vorrebbe uccidermi per averla messa in imbarazzo. Mi è sempre piaciuto farlo, del resto. Dovrebbe esserci abituata.
E, comunque, è vero: voglio davvero che si prendano cura di lei.
Avevo detto che l’avrei protetta sempre. Forse è l’ultima volta che posso farlo.
Superate le tendine, il piedipiatti mi ammanetta. Nel frattempo ne salgono sull’aereo altri due.
Arrivano i rinforzi, urrà! Perquisiscono ogni centimetro del mio corpo. Suvvia, non sono poi così pericoloso. Nessuna arma, vedete?
Decidono che il mio cellulare rappresenta un elemento sospetto e me lo requisiscono.
Mi fanno scendere dall’aereo. Non vorrei farlo, ma la pistola è molto convincente.
Lancio un ultimo sguardo alle mie spalle. Nessun movimento, nessuna traccia di Lisbon.
Ma cosa speravo? Che mi seguisse?
Forse sì.
Illuso.
Era la mia ultima possibilità, ma lei non c’è.
Ho perso.
Mi portano ad dipartimento della TSA. Senza una parola. Non sono tipi molto loquaci.
Provo ad attaccare bottone, esibendomi in una magistrale lettura a freddo dell’agente che mi ha arrestato, ma ottengo solo di innervosirlo. Mi capita spesso, in effetti.
Non sanno divertirsi questi sbirri. E invece di occuparsi dei veri terroristi, arrestano un povero ex finto sensitivo vedovo dalla caviglia slogata e dal cuore spezzato due volte.
Mi spingono poco delicatamente in una stanza ben poco confortevole, e mi fanno sedere davanti a un tavolo, con le spalle rivolte verso un vetro che dà su un’altra stanza. Che bruti!
Chiedo almeno un the, possibilmente un Twinings, anche se, in sua mancanza, potrebbe andare bene qualunque marca. Nessuno mi degna di una risposta.
Eppure non mi sembra di aver chiesto la luna. Che maleducati.
Evidentemente stufi delle mie chiacchiere, mi lasciano solo e ammanettato ad aspettare.
Un agente mi sorveglia da dietro il vetro, lo vedo con la coda dell’occhio.
E’ un inetto che spera di fare carriera lecchinando un bel po’ di piedi dei suoi superiori.
Sua madre non gli ha insegnato che non si fissano gli sconosciuti? Chissà cosa temono che potrei fare.
Il tempo passa ma non me ne accorgo. Non c’è nessun posto in cui devo andare. Non c’è nessuno ad aspettarmi. Posso stare qui anche all’infinito. Immobile.
Peccato solo che non ci sia un divano. Mi farebbe comodo.
Mi chiedo dove sia Lisbon. Probabilmente sta atterrando a Washington.
Mi chiedo se stia pensando a me. Credo di sì. Sono sempre stato un po’ presuntuoso.
Entra un uomo. Impettito, calvo e con un orologio costoso al polso. Probabilmente il capo.
Gli chiedo perché si sia scomodato a venirmi a interrogare, quando aveva di meglio da fare: dormire, ad esempio. Lo capisco dall’aria assonnata, dai capelli scompigliati, dall’aroma di caffè che si è appena scolato per svegliarsi.
Per un attimo è stupito, ma non abbocca.
«Il suo nome?», mi chiede.
Ho voglia di giocare un po’. Mi aiuta a distrarmi da pensieri spiacevoli. «Non do confidenza agli sconosciuti».
«Il suo nome?», ripete il tizio, imperturbabile. Mi ricorda Cho.
Sospiro, con aria annoiata. «Visto che insiste…Patrick Jane».
«Io sono l’agente Wilson, capo della TSA. Signor Jane perché è salito su quell’aereo?» . E’ pomposo come immaginavo.
«Lavoro per l’FBI. Era un’emergenza».
«E io sono la regina di Inghilterra», ghigna Wilson.
In realtà non assomiglia affatto a Cho. Ha un senso dell’umorismo molto più grossolano.
Lo osservo per un attimo. «Non credo, non ha l’humour all’inglese. Ma io lavoro davvero per l’FBI. Ed era davvero un’emergenza», chiarisco.
«Che tipo di emergenza? L’ha mandata l’FBI?».
Ora sembra parecchio confuso. Che soddisfazione!
«Io lavoro per l’FBI. Sono salito sull’aereo per un’emergenza. Ma non è detto che l’emergenza riguardi l’FBI. Anche se un collegamento è innegabile». I sillogismi mi sono sempre piaciuti.
Al mio interlocutore, evidentemente, no. «Smetta di parlare per enigmi. Non si mette bene per lei se non chiarisce la sua posizione».
E’ sempre più confuso. Non può chiedere aiuto alla sua intelligenza limitata, e allora ricorre alle minacce. Tipico sbirro sbruffone e idiota.
Mamma mia, che paura. «Era per una faccenda piuttosto privata. E noiosa. Non penso che le piacerebbe sentirla».
«Questo lo lasci decidere a me».
«E lei lasci decidere a me se ho voglia o no di raccontargliela». La strafottenza è sempre stata la mia specialità.
«Glielo ripeto. Perché si è introdotto su quell’aereo con la forza e senza regolare biglietto?», insiste il calvo con tono meccanico. Sembra un robot. Anche i robot sono senza capelli.
«Con la forza mi sembra esagerato. E il biglietto non me lo potevo permettere. Non posso contare su uno stipendio come il suo». Sviare l’interlocutore è un’altra mia specialità.
Finge di essersela bevuta. O forse se l’è bevuta sul serio. «Come ha fatto a raggirare la sicurezza?»
«Molto semplice. La sicurezza non c’era. Le consiglio di incrementare i controlli. Lo dico per il vostro bene». Gli schiaccio l’occhio.
L’idiota tossicchia. E’ innervosito. La verità fa male. «Ha dei complici che l’hanno aiutata?», continua, non volendo accettare l’ovvietà di quello che ho appena detto.
«Se per complici intende un agente dell’FBI che mi ha prestato la macchina, un invitante cancello senza guardie e un’ingenua hostess che ha aperto il portellone perché colpita dal mio fascino…sì, allora ho dei complici».
Wilson decide di soprassedere. Va dritto al movente del reato. «Perché l’ha fatto?»
«Sono l’erede di Bin Laden. Avevo in tasca chili di esplosivo e volevo farmi saltare in aria».
«Ne provi un’altra. So che non è un terrorista». E’ già qualcosa. Forse non è poi così ottuso. Ma non mi interessa. Ormai possono anche chiudermi in una cella e buttare via la chiave.
Ritento. «Sono un ricercato pluriomicida e volevo dirottare l’aereo per scappare a Honolulu».
L’uomo sbuffa. «Voglio la verità».
Già, la verità. Non è difficile, tutto sommato.
Mi arrendo. Non è da me, ma non ho più voglia di giocare. «Amo una donna. Volevo dirglielo».
«Capisco», borbotta.
Probabilmente capisce davvero. Noto come si è sfiorato inconsciamente la fede, mentre la sua espressione si è impercettibilmente addolcita.
«Allora posso andare?». In fondo, non è così allettante l’idea di rimanere segregato in una cella a vita.
«No. Ha commesso una serie di reati che neanche le elencherò. Dovrà stare qui in questa stanza per almeno dodici ore. Dovremo mettere a verbale la sua deposizione. Poi, se è vero che lavora all’FBI e qualcuno garantirà per lei, potrà andarsene. Forse», dichiara, conscio del suo potere.
Dopo la sua sentenza, l’inetto pelato esce dalla stanza.
Mi giro, per seguirlo con lo sguardo. «Buona pennichella», gli auguro e intono una ninna nanna.
Dal vetro vedo che sta parlando con l’agente che mi ha arrestato sull’aereo. Gli confermerà la mia versione dei fatti. Non che mi importi.
Wilson si volta verso di me e sul suo viso c’è qualcosa che assomiglia a un sorriso. Poi esce dalla stanza, probabilmente si rintana nel suo ufficio. A continuare il riposino da dove l’aveva interrotto.
Vorrei addormentarmi anch’io e non pensare a nulla. Nulla che abbia a che fare con occhi verdi e pancake. So già che è impossibile.
Anche perché mi fa male la caviglia. Mi tolgo la scarpa e allungo la gamba su una sedia. Ecco, così va meglio.
Guardo le calze che indosso. Sono quelle che mi aveva regalato Lisbon. Era stata così dolce. Rare volte lo è. Consapevolmente, intendo. Inconsapevolmente, invece, lo è spesso; solo che non le piace che glielo si faccia notare. Me le aveva impacchettate e me le aveva portate in cella, subito dopo che aveva saputo che avremmo ripreso a lavorare insieme. Me le ero portate al viso, erano così morbide. Era stato un gesto davvero carino, il suo. Non mi ricordavo nemmeno l’ultima volta che qualcuno mi avesse fatto un regalo.
Ma non voglio pensare né a lei né alle calze. Che porto ogni giorno. Perché mi piace indossare qualcosa di suo. Avrebbero bisogno di una bella lavata, in effetti.
Chiudo gli occhi. Cerco di isolare il mio cervello da pensieri pericolosi per il suo equilibrio.
Passano minuti. Forse ore. Non saprei dirlo. Anche perché mi hanno requisito l’orologio. Capisco, forse avrei potuto usarlo per evadere e uccidere qualcuno.
Mi volto. Ora so come si sente un pesce nell’acquario. Non comprerò mai un pesce rosso. L’agente che mi sta fissando da dietro il vetro è sempre lì. Mi fa quasi pena. Non dev’essere molto divertente.
Gli faccio una boccaccia. Non reagisce. Gliene faccio un’altra.
Si drizza all’improvviso. Incredibile, sta abbandonando la sua postazione.
Lo vedo allontanarsi dalla stanza e immettersi nel corridoio. Lo sento aprire una porta, probabilmente quella dell’ufficio del capo.
«Bussare mai eh?», sento che borbotta Wilson con voce impastata. Stava sognando una bella vacanza con sua moglie.
«Capo, cosa dobbiamo fare di quello che ama la donna al 12 B?», chiede il mio carceriere.
Le notizie si spandono in fretta. Sorrido.
Se Lisbon sentisse mi ucciderebbe. Purtroppo non può sentirmi. Il lato positivo è che non può neanche uccidermi.
Un nodo mi chiude improvvisamente la gola. In un attimo capisco.
Sarà la sua assenza a uccidermi. Giorno dopo giorno. Lentamente.
E sarà molto peggio.

 
  
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