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Autore: gattomatto89    19/08/2008    2 recensioni
cosa fa un carcerato? ripercorre gli sbagli della sua vita...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DIALOGO DI UN CARCERATO INNOCENTE -Quando ricordo gli anni trascorsi, mi viene un crampo al cuore. L’adolescenza non è certo stata la fase più intrigante della mia vita. Ora come ora sinceramente non capisco come ho potuto vivere in quel modo, per anni. Non capisco come ho fatto a provare quello che non avrei mai voluto vedere in vita mia. Ripenso a tutte le cavolate che ho fatto e me ne vergogno. Oh, se me ne vergogno. Sono qui da vent’anni, ma ne sono orgoglioso. Si, certo, potevo anche evitare tutto ciò, ma dentro di me sento che quel giorno feci la cosa giusta. E se penso a tutto ciò, mi vengono ancora i brividi. Parecchi anni fa ero un ragazzo adolescente, e vivevo con la mia famiglia in un paesino vicino al mare, nella provincia di una grande città, dove la gente viveva principalmente di pesca. Mio padre ovviamente era un pescatore, e quando ero ancora un neonato in fasce mi fece salire, contro la volontà di mia madre, sulla sua barca lunga dodici metri. Avevo un fratello, Giovanni, più grande di me, ed una sorella piccola, Mariangela, di appena sette anni. Dormivamo insieme, tutti in una stanza di circa tre metri quadri, su tre letti affiancati. Questo vi fa capire quale fosse la nostra ricchezza. Io sono cresciuto in quella casa, vedendo mio padre partire la mattina alle sei e tornare la sera verso le sette, guardando mia madre farsi in quattro per accudire noi tre, suoi figli, al meglio che poteva. Ho visto mio fratello un giorno partire con mio padre su quella barca e cominciare la sua vita da pescatore. Ho visto mia sorella, piccolina, che cercava di crescere tra le litigate dei miei genitori, riuscendoci, per giunta. Ma ho visto e ho sentito quegli schiaffi e quei pugni quando dissi a mio padre che la mia vita non sarebbe stata su quella barca, con lui e mio fratello, che io volevo fare una vita migliore, andarmene da qui. Si, mio padre mi picchiò. Era fuori di sé, non avevo mai visto quell’espressione nei suoi occhi. Credevo che mi avrebbe ucciso. Mi picchiò davanti a mio fratello e a mia madre. Mariangela era in spiaggia con le sue amiche, così per fortuna non vide cosa mi fece. Sentii le urla della donna che tentava di difendermi, di colei che prese anch’essa schiaffi e pugni, che giorni dopo sarebbe stata portata all’ospedale e ricoverata per una grave emorragia interna. Mentre ero disteso a terra, dolorante all’addome e con un pulsare violento sulla guancia, vidi mio fratello aprire la porta e scappare, come un codardo, lasciando a mio padre l’occasione di creare altra violenza. Bastardo. Dopo averci picchiati, mio padre uscì. Io mi alzai e chiamai l’ambulanza per mia madre, facendola distendere sul mio letto, con le forze che mi erano rimaste. Le diedi un bacio sulla fronte e le dissi addio. Vidi i suoi occhi cercare i miei, come per supplicarmi di non farlo. Ma io lo feci. Cercai nello sgabuzzino e trovai la vecchia bici di mio nonno. La portai in strada e, in qualche modo, la cavalcai. Cominciai a pedalare verso la strada principale, e con mio stupore sentii che l’addome riusciva a non dolermi. Percorsi le piccole viottole di sassi tra le case, e quando le mie ruote toccarono l’asfalto mi fermai. Osservai il mare, calmo e luccicante alla luce del sole, assaporai il suo sapore inspirando una boccata d’aria, e mi tranquillizzai. Ma quando girai la testa, vidi mio padre appoggiato al parapetto. Parlava con una donna, una signora di mezza età. Rideva, come se non avesse appena picchiato figlio e moglie. Rideva e faceva il lusinghiero con quella nonnetta, sorridendo e scherzando. Quella fu l’ultima volta che vidi mio padre. Mi calcai un cappello in testa, e partii. Non mi voltai, anche se ebbi l’impressione che lui mi avesse notato, che avesse capito. Guardai la mano che stringeva il freno: una vena pulsava forte. Poi accelerai e abbandonai la mia giovinezza. Andai a vivere da mio zio, il boscaiolo. Sapevo che lui avrebbe capito, in fondo con mio padre ci aveva convissuto: erano fratellastri, mio nonno si era sposato due volte, prima di partire per la guerra. Poi, nel ‘44, fu ucciso da una bomba. Da quel giorno mio padre lasciò casa e scappò dalla famiglia della sua futura moglie, che lo accolse come un figlio. Mio zio invece si occupò della nonna finché lei non morì, e la casa andò a lui. Non disse mai a mio padre che io mi trovavo lì, nemmeno a mia madre. Per un anno lavorai tagliando alberi e spaccando la legna, e quando riuscimmo a farmi dare un lavoro in una città a cinquanta chilometri da lì, mi diede un passaggio con il suo trattore e mi scaricò davanti al negozio di un suo amico, un certo Gennaro, pasticcere di professione. Salutai mio zio e lo abbracciai forte, ringraziandolo di tutto quello che aveva fatto per me. Poi aprii la porta ed entrai nel locale. Non sto a raccontarti cosa ho fatto, come mi sono ambientato e come vivevo, altrimenti la tirerei troppo lunga. Ti dirò soltanto che imparai l’arte di preparare i dolci, le tortine, i biscotti, e in poco tempo mi trovai a servire direttamente i clienti. Gennaro era un uomo serio, dedito al lavoro, professionale, ma ogni tanto mi lasciava fare qualche pausa. A diciotto anni comprai la mia prima moto, e la domenica portavo una ragazza che avevo conosciuto lì a fare un giro. Si chiamava Mariangela, come la mia sorellina, e sembrava proprio come avrebbe dovuto essere lei in quegli anni. Mi pareva davvero di portarla abbracciata a me. Forse è per questo che mi piaceva tanto. La mia nuova sorellina mi fece scoprire il mondo della vita notturna, portandomi per la prima volta in discoteca. Erano gli ultimi anni dei ’70, la gente se la godeva la vita, a più non posso. Tutti i giovani di città e dintorni migravano ogni fine settimana in quella grande tana illuminata da neon e luci riflettenti. E poi bevevano tanti alcolici. Mariangela una sera bevve tre tequile di fila e uscì dal locale ubriaca. Chiesi a uno dei suoi amici che aveva la macchina se poteva portarla a casa, perché io con la moto non ce l’avrei fatta. Così la fecero salire dietro con altre due ragazze, e i due davanti mi salutarono, dicendomi che era in buone mani. Avviarono il motore e partirono. Io ero stanco, mi faceva male la testa da tutto il casino che c’era lì dentro, quindi me ne andai. La domenica successiva incontrai di nuovo Mariangela, e le chiesi perché durante la settimana non si era mai fatta sentire: non una telefonata, non un’apparizione, niente. Eravamo seduti in un bar, poco distante dalla piazza centrale, e mi disse che era stata male e non aveva potuto contattarmi. Disse anche che di mercoledì era uscita la sera con quelle persone che l’avevano accompagnata a casa, i suoi amici, per una pizza in compagnia. Era strana. Bevemmo un caffè e poi si sollevò di colpo, prendendomi la mano e trascinandomi fuori dal centro, correndo. Le chiesi cosa diavolo stava facendo, ma arrivati dietro a un muro mi baciò. Non chiesi più nulla. Mi portò poi in posto desolato, e lì infilò la mano in tasca e ne estrasse due pastiglie bianche. Domandai se stava ancora male e se quelle erano pastiglie con cui doveva curarsi. Si girò e mi rise in faccia. Ne mise una in bocca, poi mi invitò a prendere l’altra. Non sapevo cos’era, ma di lei mi fidavo, così la inghiottii. Guardai nei suoi occhi e vidi che le sue pupille erano dilatate, nonostante fossimo alla piena luce del sole. Poi, quando le mie gambe cedettero ed io cadi all’indietro, finendo con il culo per terra, vidi le cose ondeggiare, le nuvole si scomponevano ed il sole sembrava una serpe impazzita. Lei si accasciò di fianco a me e mi guardò. Rise, ed io ricambiai, poi entrambi ci rilassammo a guardare il cielo. Mi piaceva molto quella sensazione. Molto. Mentre lavoravo al negozio ogni tanto mi tornava la voglia di rivivere quel momento, però non sapevo cos’era quella pastiglia. Così, la domenica, andando in discoteca con Mariangela ed i suoi amici, le chiesi di cosa si trattava. Disse che gliel’aveva data un suo amico, quando l’avevano portata a casa in macchina, ma non aveva la più pallida idea del nome di quel confetto bianco. Quando lo chiesi a quel suo amico, mi disse che non era niente di speciale, e mi chiese se volevo qualcosa di più emozionante. Certo, risposi, e lo seguii. Mi portò in un casolare appena dietro la discoteca, dove mi fece fermare davanti ad una porta. Aspetta qui, disse. Entrò e sentii dei rumori provenire dall’interno. Quando cessarono mi chiamò. Io entrai e lo vidi trafficare con una valigia appoggiata su un tavolo di legno. Estrasse vari oggetti, tra cui una siringa, un cucchiaio, un laccio emostatico e una bustina contenente polvere bianca. La aprì e mise un po’ di quella polverina sul cucchiaio, poi prese il suo accendino e fece scaldare con la fiamma la conca dell’utensile. Vidi quella polvere diventare liquida. Prese la siringa e, dopo aver immerso la punta in un vasetto pieno di acqua, le fece risucchiare quel liquido. Alza la manica e legati quel laccio attorno al braccio, disse, ed io eseguii. Non sapevo cosa voleva fare, non ne avevo la minima idea. Appoggiò la punta della siringa sulla mia vena, ed io lì intervenni, chiedendo che giochetto era mai quello. Lui disse di rilassarsi, che era soltanto un altro modo di avere le sensazioni che dava quella pastiglia, ma con intensità maggiore, perciò mi tranquillizzai. La punta penetrò nella vena, e ne uscì sangue. Il ragazzo tirò verso di sé il pistoncino, facendomi un male cane, ma quando spinse e quel liquido mi entrò in circolo, io non capii più niente. Sentivo ogni piacere dei sensi vivere in me, tutto il mio corpo era in eccitazione, avevo i brividi, sudavo freddo. Era come provare degli orgasmi multipli ad intervalli di pochi secondi. Era come correre libero tra i prati in fiore. Era come… era come… come volare. Mi accasciai a terra tenendomi aggrappato alla gamba del tavolo, ed appoggiai la testa sulle pareti di legno della cascina. Con quello che mi restava di vista notai che il ragazzo si stava facendo di quella polvere, ma con una cannuccia infilata su per il naso. Sentii un rumore di risucchio, seguito da un respiro liberatorio. Venne da me, si inginocchiò, piuttosto goffamente, mi diede uno scossone e disse che erano trenta carte. Sono trentamila lire, ciccio. Ti faccio uno sconto, visto che è la prima volta per te, ok? Io riuscii a capire soltanto che voleva dei soldi, così mi sfilai il portafoglio e glielo porsi. Lui ci mise le mani e lo vidi rabbuiarsi. Cazzo, ne hai solo venticinque, in questo merdoso portacarte! Ma che ti costa uscire con un cinquanta in tasca? Hai paura che te lo rubino? Non capii niente di quello che disse. Alla fine rise e se ne andò. Io chiusi gli occhi e li riaprii molto più tardi, quando un amico di Mariangela mi trovò e mi svegliò. L’effetto della droga era finito, così presi la moto e me ne andai. Avevo bisogno di dormire. Da questo punto in avanti io taglierei ancora, perché non ho molto tempo. Tra poco ci sarà l’ora d’aria, ed una volta all’aperto prenderò il veleno che mi sono fatto recapitare da una guardia, corrotta con uno zippo che sono riuscito a rubare al bibliotecario! Voglio farla finita in questa vita. Questa non è vita. La mia vita è cambiata quella notte alla cascina di legno, oh si, quando cocaina pura mi è entrata in circolo, sia nel sangue che nel cervello. Per comprarne ancora rubai soldi a Gennaro, e quando lo scoprì mi licenziò. Insieme a Mariangela ci trasferimmo da quel suo amico spacciatore. Lavoro non ne avevamo, così eravamo costretti a rubare. Non importava a chi. Fosse stata anche mia madre, o mio zio… noi dovevamo farci. Giravamo per la città come dei ragazzacci, spettinati, sporchi, svogliati. Prendevamo i soldi che la gente donava ai barboni, agli artisti di strada ed ai ciechi, senza lesinare di usare la forza fisica, se necessario. La nostra dignità si era dissolta del tutto. Rubavamo persino in chiesa, rompendo le cassette delle offerte ai poveri ed arraffando il più possibile prima che ci prendessero. Vivevamo di espedienti. Venne successivamente l’idea di assaltare negozi di periferia. Mi ricordo che comprammo le pistole al mercato nero grazie alla somma di tutti i nostri risparmi. Rubammo una macchina, le facemmo cambiare la targa e dare una riverniciata. Io, durante le rapine, la guidavo. Per due anni facemmo colpi, uno ogni due mesi, finché un giorno un componente della banda, durante la notte, se ne andò con tutto il bottino. Restammo senza un soldo bucato. Cercai di tornare da Gennaro, ma mi cacciò puntandomi un fucile addosso: avevo tradito la sua fiducia. Provai a lavorare in una fornace, ma soffrivo troppo spesso di crisi e mi licenziarono. A quel punto non ebbi altra scelta. La voglia di bucarmi mi opprimeva, così tentai una rapina. Rubai una pistola ad un poliziotto di servizio, rischiando grosso, poi mi calai un berretto con due buchi in testa e svaligiai un negozietto in centro. Scappai e riuscii a nascondermi sotto un cavalcavia. E lì la vidi: Mariangela stava con la testa dentro il finestrino di una macchina, dalla quale scese un uomo che non conoscevo. Le si avvicinò e tentò di baciarla, ma lei si ritrasse. Lui ci riprovò ed ottenne lo stesso risultato. Fu quando vidi quella mano darle un violento schiaffo che in me esplose la rabbia. Uscii dal mio nascondiglio e mi feci incontro a quell’uomo, puntandogli addosso la pistola. Lasciala stare, brutto stronzo! Si girò e la sua espressione si trasformò da soddisfazione pura a puro terrore. Mariangela mi guardò, stupita. Io ricambiai, ma l’immagine che la mia mente riflesse di lei fu quella di una bambina di sette anni, tutta sorridente, che teneva in mano la sua cartella di scuola. La mia sorellina. Lascia stare mia sorella, bastardo! E guardandola fissa negli occhi, Bang! sparai all’uomo. Cadde a terra, inerme. Sorellina, ora non ti darà più fastidio. Contenta del tuo fratellone? Lei annuì, e mi sorrise di nuovo. Poi tutte le cose persero la loro forma, tutto appariva curvilineo o sferico, e mi venne un gran male alla testa. Una fitta, forte tanto da farmi chiudere gli occhi e gridare per il dolore. Durò cinque, dieci secondi…e passò. Riaprii le palpebre. Le cose erano ferme, al loro posto, come anche la mia sorellina. Sorellina… Lei alzò la mano, per salutarmi, e sempre con quel sorriso dolce dipinto sul viso, svanì. Puff! Era scomparsa. E poi sentii le sirene, la macchina della polizia mi raggiunse. Un agente mi bloccò e mi tolse la pistola di mano, mentre un altro mi ammanettava. Al processo fui condannato a trent’anni per omicidio di primo grado, più altri cinque per tutte le rapine alle quali confessai di aver partecipato. Oggi faccio i vent’anni di permanenza qui, in questo carcere. Ho sempre pensato di essere colpevole, quindi so di meritare la prigione, ma dentro di me sono contento: la mia sorellina ora è lì fuori da qualche parte felice grazie a me. Capisci, figlia mia? Io non voglio che tu finisca come il tuo papà, perciò vai a scuola, prendi bei voti e trova un lavoro, così poi ti sposi e vivi felice per tutta la tua vita!- -Si, papà- -Andiamo, Angelo. C’è l’ora d’aria- -Oh, ecco, è arrivato Giovanni. Lo conosci, no? È la più brava guardia del mondo!- -Dai, Angelo. Smetti di parlare a quel cesso, se no fai diventare matto anche me! Muoviti, che dobbiamo andare- -Ehi, un po’ di rispetto, chiaro? Non è un cesso, è mia figlia!- -Si, va bene Angelo. Mi scuso con tua figlia. Ecco, contento? Ora andiamo, per l’amor del cielo?- -Un attimo, devo salutarla- -Oh, Signore!- -Papà, ma ora vai via?- -Si, piccola, io vado. Ma tu fai come ti ho detto e sarai felice! Ora vado, però è meglio che non mi abbracci, perché sono tutto sporco! Ciao, ti voglio tanto bene!- -Anche io te ne voglio tanto, papà- -Hai finito?- -Si, possiamo andare. Ah, ormai che ci sono saluto anche te. Sei stato proprio un buon amico. Lasciati abbracciare!- -E mollami! Ma che ti prende? Bah, io te lo dico, Angelo: tra tutti i matti che ho visto qui dentro, tu sei proprio il più matto!- -Hai ragione, Giovanni. Hai assolutamente ragione-.
  
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