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Autore: Soqquadro04    26/06/2014    4 recensioni
[Ten/Rose | Post Journey's End | Angst | Possibilissimo OOC | One-shot (1967 parole)]
[...] Si volta di scatto verso di lei, iridi scure e quel suo viso affilato – le sorride, un sorriso amaro che non gli si addice, le gambe distese, e le è troppo vicino.
«Perché mai? È solo un sogno, Rose Tyler. Solo un sogno.» lo osserva di rimando, il capo inclinato di lato. Sta aspettando, non sa bene cosa – forse che si alzi, veloce abbastanza da farle girare la testa, che la guardi con quegli occhi e la riprenda con sé, che la lasci entrare di nuovo; forse solo una di quelle sue uscite strane e assurde e speciali, tanto familiari da schiantarle il cuore.
Non è un bel sogno, quello – è il suo rimpianto, il suo dolore (è quello che vuole dimenticare – ma dopo il Dottore non puoi mai veramente andare avanti, non quando una parte di te rimane persa in qualche angolo dell'Universo e non torna più indietro) [...]

Sogni, piume rosa, ricordi - il vento gelido della Norvegia.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 10, Rose Tyler
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo, o non sarei qui, fidatevi.
Generi: Generale, Sentimentale, Angst
Avvertimenti: possibilissimo OOC, What if?/Missing moments,
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:

Buonsalve a tutte quante - inizio con lo scusarmi. Veramente. Di solito non entro in un fandom con una Angst, non sono il mio campo, adoro il Fluff e le coccoline e le cose dolci, ma a volte semplicemente non si può scrivere del Fluff.
Ho finito ieri la quarta stagione, non mi riprenderò mai - mai mai mai mai -, di conseguenza questo è quello che esce - in un certo senso, perciò, non è tutta colpa mia.
Grazie a tutte quelle che avranno il coraggio di arrivare in fondo e, sì, in caso avete il permesso di tirarmi quel che avete sotto mano u.u

A presto,
la vostra Soqquadro

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Colei per cui splende il sole

Ed eri lì, a ridere, e giuro che in quel momento mi è esploso il cuore.
Tumblr – Allyssa Villanueva

 

Non saprebbe dire come è sicura che quello sia un sogno, ma lo è – forse sono i colori, troppo accesi anche in quelle tonalità di grigio e beige e bianco, forse è abbastanza lucida da rendersene conto, a volte capita, non importa.

Prima – prima di tornare, prima di tutto – le capitava spesso di sognarlo. Erano ricordi, solo momenti riportati a galla dall'inconscio con crudele precisione, ogni dettaglio vivido e doloroso come sale su una ferita aperta (la lasciavano sveglia, notte dopo notte, il cuore trafitto e lo sguardo alla finestra, a quelle stelle che non erano mai sembrate così lontane).

Forse per questo non è poi molto sorpresa quando le appare vicino, all'improvviso, su quella spiaggia che ancora dopo anni le fa male riconoscere, quel giorno più di sempre – sembra reale, Darlig Ulv Stranden, il freddo norvegese che le si infila nelle maniche, gelandole la pelle (labbra parole cadere a pezzi anima), e il mare agitato sotto quel cielo di piombo (è seduta su uno degli scogli, le ginocchia al petto e le braccia strette attorno, il mento appena sollevato).

Lo nota con la coda dell'occhio, mentre si siede lì accanto e tiene gli occhi fissi sull'orizzonte, cercando quello che cerca lei – un raggio di sole, un po' di speranza, un modo per tornare a casa, non lo sa più (probabilmente sente che si tratta di un sogno anche perché lui è identico a come lo rammentava, anche dopo tutti quegli anni – non può immaginarlo in altro modo, né vorrebbe doverlo fare).

«Non dovrei essere qui. Non è giusto.» non è quello che avrebbe voluto dire (avrebbe voluto abbracciarlo, raccontargli giorni e ricordi e quel che era stata la sua vita – dovrebbe dirgli addio, quello è il luogo degli addii. Ma dopotutto non è mai stata brava a obbedire).
Si volta di scatto verso di lei, iridi scure e quel suo viso affilato – le sorride, un sorriso amaro che non gli si addice, le gambe distese, e le è troppo vicino.

«Perché mai? È solo un sogno, Rose Tyler. Solo un sogno.» lo osserva di rimando, il capo inclinato di lato. Sta aspettando, non sa bene cosa – forse che si alzi, veloce abbastanza da farle girare la testa, che la guardi con quegli occhi e la riprenda con sé, che la lasci entrare di nuovo; forse solo una di quelle sue uscite strane e assurde e speciali, tanto familiari da schiantarle il cuore.

Non è un bel sogno, quello – è il suo rimpianto, il suo dolore (è quello che vuole dimenticare – ma dopo il Dottore non puoi mai veramente andare avanti, non quando una parte di te rimane persa in qualche angolo dell'Universo e non torna più indietro), non un sogno che vorresti fare, uno di cui hai bisogno.
Sa cosa intende dirle – l'ha sempre capito, non perderà certo il tocco ora.

«Non sei davvero tu.» non le risponde. Sa che non può esserlo, razionalmente ne era già consapevole – eppure c'era un qualche frammento di lei che ne è stato convinto, per un attimo (è facile conoscerlo e pensare possa fare tutto – ma è così fragile, alle volte, come un uccellino, un bambino, e fra loro quanti ce ne sono stati di istanti, di sguardi come quelli).

Rose abbassa lo sguardo, si morde le labbra – non ci pensa nemmeno su prima di prenderlo per mano, sembra che ne abbia bisogno e allora solo lo fa, solo stringe fino quasi a fargli male (o almeno lo farebbe se lui fosse reale, se fossero ancora loro), le spalle che si toccano e le dita intrecciate (sono gesti che parlano, quelli, – sono qui non te ne andare non può essere per sempre – che svelano un mondo in un momento, la fine di tutto).

Restano in silenzio, per un po', – molto più di quanto lo riteneva in grado –, ascoltano il vento che grida e si sente rispondere dall'eco dei fiordi, e il gelo le si insinua fin dentro le ossa (è immobile, però, addosso la paura feroce di vederlo svanire – è stanca di guardarlo andar via).

Non dura molto, quella loro stasi inquieta, né se lo aspettava, in fondo, di rimanere così, ferma, a fingere di non sapere quanto tempo resta – torna a voltarsi nella sua direzione, mormorando appena, come per non farsi sentire (come se ci fosse qualcuno da cui proteggersi, poi – sono entrambi soli, oggi; così irrimediabilmente soli).

«Raccontami qualcosa – qualsiasi cosa, solo... parla. Parlami.» la sua stretta si fa un po' più forte, come a confortarla (sono state poche le volte in cui non è riuscito a calmarla, in qualche modo, un'occhiata di sottecchi o una parola o uno di quegli abbracci vittoriosi che le dicevano che ancora una volta erano vivi), e lo vede alzare lo sguardo al cielo, pensando a qualcosa di lontano.

«I fiori giganti di Serre*1? Brutta situazione, quella, avevano i denti – o quella volta in cui dei pappagalli mi hanno arrestato, era il... 3162, una storia assurda. Oppure più indietro, nel 1972 a. C., in Egitto – avrei voluto portartici. Caldo, sole, le piramidi in costruzione...» sembra una guida turistica, gli manca solo un dépliant spiegazzato da sfoggiare – il pensiero la fa ridere. Se non lo conoscesse, sarebbe sorprendentemente facile immaginarlo in divisa, un programma fra le mani e un microfono appuntato al bavero – ed è assolutamente ridicolo, ben oltre l'improbabile, ma solo Dio sa quanto ne ha bisogno, quanto ha avuto bisogno di lui anche così (momenti come quelli, che sfociano in quell'allegria pure insensata e così tremendamente bella).

Soffoca la risata nascente in fondo alla gola, abbastanza da riuscire a parlare – potrebbe andare avanti per chissà quanto tempo, senza nulla da fare e con lei lì ad ascoltarlo.

«L'Egitto va bene – mi è sempre piaciuto.» e il sorriso che le rivolge è soltanto suo, incrinato e triste e pieno di troppe cose.
Scuote il capo e si sistema meglio sullo scoglio, si siede a gambe incrociate, scioglie le dita dalle sue – lei lo imita, come una bambina concentrata, e per un secondo le sembra di non avere più freddo.

 

«Piume?» gli lancia uno sguardo allegro, per nulla stupita – hanno affrontato di peggio che una regina egiziana infettata da non-ha-capito-bene-cosa, sono poche le cose che possono sorprenderla, ormai.

Non sa da quanto sono lì, probabilmente ore o forse pochi minuti – è un sogno ben strano, quello (non c'è nulla al di fuori di loro, dell'adesso – pare non dover finire mai, come se potessero passare davvero tutta la vita su quello scoglio, in quella baia, a parlare di tutto e di niente, aspettando qualcosa che non arriverà), ma non ha importanza finché c'è lui, come non avevano avuto importanza il pericolo e la sua vita e quel che era rimasto di lei, se le restava accanto.
Lui la osserva per un momento, le sopracciglia inarcate, prima che getti il capo all'indietro e sorrida al cielo – non c'è azzurro, solo nuvole e vento.

«Coperta di piume rosa dalla testa ai piedi. Il faraone era sul verde.» avverte l'ilarità nella sua voce, la leggerezza di un istante – quando abbassa gli occhi, però, ha la fronte corrugata e la studia con attenzione, come se potesse sparire.
Lo fa a sua volta, incuriosita – non capisce, stavolta (non è sempre facile sapere quello che gli passa per la testa – spesso si tratta di fortuna).

«Cosa c'è?» è un mormorio di gola, sottile, inconsistente, le fusa di una gatta – non sta così bene da tanto tempo, non c'è molto al mondo che potrebbe distruggere quella sensazione (anche se è solo un sogno e anche se sa che presto finirà, anche se non si tratta realmente di lui e di lei – di loro –, per un po' si può vivere d'illusioni).

Sembra riscuotersi dai suoi pensieri, all'improvviso, e le sorride e potrebbe anche crederci, se fosse qualcun altro – ma non lo è e quel sorriso lo riconosce (perfetto come un falso d'autore, non è quello che vorrebbe vedere – non le sta dicendo qualcosa, ma non ha il coraggio di chiedere). Il freddo è tornato, con quello sguardo – e lui non replica.

«Persone simpatiche, il vecchio Ramses e sua moglie – almeno, una delle sue mogli, ne ebbe otto.» arriccia il naso, un'espressione buffa, un po' strana – non gliel'ha mai visto fare.
Cerca di sorridere a sua volta, ma le esce una smorfia storta che non lo inganna neppure per un secondo.

«Otto mogli? Quale hai conosciuto tu?» annuisce, come a conferma, prima di rispondere, guarda lontano, soffiando fuori le parole come se fosse molto stanco – o come se facesse molto male.
«Nefertari. La chiamavano colei per cui splende il sole*2.» ancora quel sorriso che non è il suo, ancora sembra distante come era stato, a volte, nei momenti in cui pensava non potesse vederlo (così triste, così stanco sotto il peso del passato) – non cambia nemmeno quando prova a farlo ridere (continua a riempirsi gli occhi di lei, a raccontare – a darle quel che può, come ha sempre fatto).

 

Una vita dopo sembra non essere cambiato nulla – effettivamente, Rose continua a non avere idea dello scorrere del tempo (può essere davvero passata una vita, per quel che ne sa).
Il vento si è alzato, è più forte, più cattivo – lui l'ha vista rabbrividire e le ha adagiato il cappotto sulle spalle (quello non sembra più nemmeno un sogno – sono come racchiusi in una bolla e starebbe davvero bene, se non fosse per il gelo feroce della Norvegia).

Lui sospira e non è un suono familiare – non le era capitato spesso di sentirlo così, quasi... sconfitto. Probabilmente non le era mai successo – non lui che salvava il mondo e che si era tirato fuori da situazioni decisamente peggiori che un sogno. Non il Dottore.

Eppure ha paura – paura come non ne ha mai avuta – quando lui si alza e ancora la guarda, la guarda, la guarda senza dire nulla.
Si tira in piedi a sua volta, il sangue che le pulsa nelle tempie – non andartene non andartene non andartene –, i battiti del cuore in gola.

«Devo andare.» timbro dolce, un sussurro confuso – potrebbe quasi fingere di non aver sentito, se solo volesse.
Deglutisce, lacrime che premono dietro le sue palpebre socchiuse, le si incastrano fra le costole e il cuore – è troppo presto, non è giusto.

«Non voglio svegliarmi.» un singhiozzo, un altro – non trattiene più, aspettare non è servito a niente (lui l'abbraccia ed è l'ultima volta, lo sa che è l'ultima – lo sa nella forza che ci mette, nel suo respiro fra i capelli).

C'è una parte di lei – la parte che non è mai tornata a casa – che sembra aver preso forza, che le urla dentro, che sa. Ricorda.
E si chiede come abbia potuto dimenticare – come dimentichi la tua morte?

(Il passato le torna in mente di colpo, un'ondata – acqua salata, acqua gelida.
Non se n'era andata giovane, non era stata da sola – c'era stato il Dottore, l'altro, quello che era rimasto con lei, quello che l'aveva amata come aveva chiesto d'essere amata.
Era stata felice, nonostante tutto – l'aveva ricordato per tutto il resto di quella sua vita, ma era stata felice e ora il freddo è troppo da sopportare, fa troppo male; perché non è vero, non è mai vero, che si può vivere d'illusioni. Le illusioni ti uccidono anche se sei già oltre, le illusioni fanno male sempre – perché quello è il suo Dottore, l'uomo nella cabina blu, due cuori e il mondo nello sguardo).

«Non puoi più svegliarti, Rose.»

 

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*1 Non sono in grado di inventarmi nomi, non fateci troppo caso u.u
*2 Uno degli appellativi di, appunto, Nefertari, Grande Sposa Reale di Ramses II.

   
 
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