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Autore: Gnana    27/06/2014    1 recensioni
Alexander era spaccone, impulsivo, un demone ammaliatore, un vagabondo. E' diventato un uomo vigile, posato, consapevole di sé stesso. Ma nessun evento, nessun insegnamento ha potuto cambiare la sua natura. A causa di un trauma terribile, diventa un abile e spietato assassino. Anche ora che si trova in un carcere di massima sicurezza, specializzato nella cura dei criminali come lui, dove trascorrerà il resto dei suoi giorni, lui non si pente delle sue azioni.
Vede il carcere come un punto di arrivo, un check point, un posto dove ristorarsi perché é molto meglio di qualsiasi sistemazione abbia trovato in tutta la sua vita. L'unica cosa che lo infastidisce é Bill, un criminologo, apparentemente ossessionato da lui e dai suoi omicidi che non perde tempo per riportare a galla ricordi ormai assopiti e dettagli insignificanti, ma Alexander non ha idea delle innumerevoli cose che nasconde.
La sua routine e la sua tranquillità verranno stravolte dal suo compagno di cella, Harry, un uomo umile ma sicuro di sé, che ha avuto tutto e poi niente dalla vita. Harry ha un piano ben preciso, un idea estremamente coraggiosa che Alexander non riesce a digerire ma che alla fine accetta solo per poterlo seguire.
Genere: Azione, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1.
 


Quando era giovane veniva spesso chiamato assatanato o mostro, ma lui non si sentiva così, anche se sapeva che in qualche modo era fuori dal comune. Una persona qualunque direbbe: “Uccidere è sbagliato e non lo farò” e non ammetterebbe mai, neanche a se stesso, di desiderarlo davvero in molte occasioni. Il più delle volte l’uomo non uccide perché é la morale che lo impone e le persone normali vivono di morale. Lui non era una persona normale, non voleva assolutamente esserlo. Per lui uccidere era la soluzione e spesso non la usava come ultima scelta.
Era un tipo fuori dagli schemi, ribelle, vedeva tutto come una partita in cui giocare le carte migliori e usare pedine, se necessario, e il suo trucchetto era familiarizzare sempre con la preda o con il nemico, come stava facendo adesso.
Non gli dispiaceva poi così tanto sedersi davanti a Bill, quasi ogni giorno, e intraprendere il solito botta e risposta. In tutti quegli anni aveva imparato a guardare il lato positivo e decise di vedere quelle sedute come un allenamento per la sua intelligenza, inoltre alimentava il suo ego. E poi si divertiva a vederlo sempre più frustrato dalla sua tenacia. D’altra parte, però, spesso si sentiva frustrato a sua volta perché quel suo passatempo non perdeva occasione per rendergli i minuti e le ore che passavano insieme difficili.
Bill scavava dentro come nessun’altro aveva mai fatto prima, sapeva capire le cose più piccole e frivole, scoprire tutte le sfaccettature e le sfumature quasi invisibili del suo modo di ragionare e, un pizzichino alla volta, lo stava rivoltando come un calzino. Lo studiava e ci metteva un sacco di determinazione, forse più di quanto poteva sopportare. Sembrava ossessionato, un malato di mente anche lui.
Alcune volte lo poteva sorprendere mentre lo fissava e sorridere. Non voleva ammetterlo, ma era inquietante. Era un uomo tutto d’un pezzo, con la testa sulle spalle e tutti pensavano, probabilmente, che questo derivasse dal fatto che fosse al servizio della giustizia; in realtà, anche Alexander, dotato di grande intelligenza e spirito di osservazione, aveva conosciuto abbastanza a fondo il suo strizza-cervelli e sapeva che c’era qualcosa di meschino e malvagio.
Percepiva la sua anima oscillare tra la vita e l’inferno. Gli ricordava se stesso.
Gli ricordava la sua non più tanto vicina gioventù, quando ancora era immaturo e impulsivo.
Viveva con quello che trovava, alla giornata. Rubava, rapinava e ingannava le persone per entrare nelle loro case e avere il lusso di dormire su un letto caldo o farsi una doccia.
Quando non aveva questi privilegi, era un vagabondo, ma non amava definirsi tale, né senzatetto. Era solo un nomade che cercava fortuna e nel suo bagaglio portava solo odio e presunzione.
Come quasi ogni intellettuale odiava gli uomini in generale, la stupidità umana, i costumi, le convenzioni sociali, le menti chiuse che popolavano gran parte della Terra e che, cosa peggiore, la avvelenavano. Con gli anni aveva imparato ad accettare la sua esistenza, a trovare il suo posto e a scovare persone abbastanza accettabili. Aveva imparato anche che l’odio poteva essere covato, accudito, fino a quando non diventava una specie di sciroppo che scivolava tra le vene; in questo modo poteva controllarsi e raggiungere più obiettivi, rendere freddo il suo sangue, insomma.
Era diventato l’uomo che sedeva ora su quella sedia e guardava gli occhi così azzurri che gli stavano di fronte. Era diventato più saggio, più calcolatore e aveva imparato a stare lontano dai guai.
Solo che non si poteva cancellare il passato, così un giorno la polizia lo trovò e lo trascinò lontano dal suo rifugio sotto un ponte, fatto di coperte e qualche scatola di fagioli che durante l’arresto rotolarono fino al fiume. Lo avevano preso, ammanettato e addirittura imbavagliato, come se la sua voce potesse essere un pericolo. Non si era ribellato, si rendeva conto che la sua vita prendeva sempre una piega diversa da quella che immaginava e così decise di affrontare quello che gli sarebbe capitato senza paura.
Gli occhi che stava osservando, quelli di Bill, sembravano una voragine sul suo passato. Poteva intravedere l’odio, la sofferenza e anche un po’ di paura. Ed era proprio quella che gli impediva di ridere di lui. Non si sentiva un uomo di cui avere paura: lui faceva male soltanto a chi doveva e a chi voleva. E lui non gli interessava. Probabilmente, però, sarebbe stato incomprensibile a chiunque non vivesse nella sua testa. E’ difficile capire e fidarsi di un famoso killer dalla fama mondiale.
Bill aveva una carnagione lattiginosa, capelli di un biondo talmente chiaro da sembrare quelli di un albino; sembrava tanto fragile, ma Alexander sapeva che nascondeva una iena dentro di sé. Continuava, però, a sbattergli in faccia la sua sicurezza, senza fargli capire che almeno un po’ lo stimava.
I suoi capelli biondi erano diventati un po’ più scuri e radi della prima volta in cui si erano visti, le sue mani più tremolanti e le sue occhiaie più profonde. Non gli interessava la sua salute, ma continuava a chiedersi perché sembrasse tanto ossessionato da una persona ormai in trappola e completamente innocua.
Il processo legale é stato lungo e abbastanza noioso, durante il quale non aveva dimostrato il minimo interessamento o partecipazione, aveva lasciato carta bianca al suo avvocato, che non aveva potuto fare molto per lui. Aveva avuto la sua dose di ramanzine, facce dure, sguardi spaventati, ma poi si era risolto tutto. Lui era confinato lì, in una prigione per pazzi, e ci sarebbe rimasto per tutta la vita, quindi perché darsi tanto da fare per continuare a indagare su cose di cui la legge non importava affatto?
Poteva capire che in una persona debole certe azioni possono trasformarsi in traumi irreversibili, ma Bill non lo era. Quindi c’era qualcos’altro sotto quella corazza, magari un segreto, ed era disposto a scavare per trovare delle risposte. Tanto ce n’era di tempo. Aveva ancora tutta la vita da passare lì.
Alexander interruppe i suoi pensieri quando si accorse che Bill lo guardava accigliato.
“Terra chiama Alex.”
Alexander colse subito l’occasione per prenderlo in giro. Alzò l’indice posandolo sulle labbra, mise l’altra mano attorno all’orecchio e bisbigliò: “Non lo senti anche tu?”
Bill si accigliò ancora di più.
“Che cosa c’é?”
“C’é una voce roca e inquietante.”
Fece una pausa guardandosi attorno con aria sospetta, poi puntò gli occhi su Bill e la sua espressione diventò delusa e annoiata.
“Oh, scusa, sei solo tu.”
Bill distolse lo sguardo indignato.
Alexander si ricompose e si stampò il solito sorriso enigmatico in faccia. Bill non sembrava molto contento, ma stava cercando di tornare al suo ruolo autoritario, senza riuscirci granché.
“Maledetto quel giorno.” Mormorò Bill tra i denti.
Qualcun altro non avrebbe fatto caso a quelle parole, ma Alexander sapeva di cosa stava parlando. Quel giorno era il giorno in cui la sua vita cominciò a cambiare piano, in cui vide se stesso come se fosse la prima volta e in cui vide un altro se stesso parlargli e odiarlo.

Il finestrino di una macchina gli rimandava un’immagine niente male: capelli neri, corti e spettinati; il viso era privo d’imperfezioni, con una leggera barba, ma la cosa che più gli piaceva erano gli occhi: grandi e azzurri come il cielo.
Se avesse voluto spostare lo sguardo più in là, invece, avrebbe visto uno sbruffone. Se avesse voluto spostare lo sguardo più a fondo, invece, avrebbe visto un pazzo. Gli venne da ridere e continuò a camminare.

Era sera e stava su un marciapiede logoro e sporco, dove finivano sempre i poveri senzatetto e i cani moribondi, ma non gli importava. Continuava a camminare a testa bassa e ad analizzare ogni dettaglio dell’asfalto e della sporcizia, lo prendeva come un nodo al fazzoletto: gli ricordava che ormai la sua vita non poteva chiamarsi tale, stava male e doveva scoprire dove sbagliava, altrimenti sarebbe finito morto anche lui su quel marciapiede come un cane.
Forse erano le relazioni umane il problema alla radice di tutto? O forse era la relazione con se stesso? Decise di lasciare le riflessioni importanti ad un altro momento, perché il suo stomaco gorgogliava e non aveva soldi con sé. Setacciò con lo sguardo ogni locale o bar della strada e lo vide. Era seduto, vicino alla vetrina e sembrava stesse discutendo con qualcuno al telefono. Decise che sarebbe stata la sua prossima preda perché sembrava ricco.
Al diavolo le relazioni umane.

Si sedette ad un tavolo alle sue spalle, in modo da osservarlo senza essere scoperto. Stava parlando al telefono con la sua fidanzata.
“Si, amore, non preoccuparti, non farò tardi, lo sai che il lavoro mi tiene occupato... Va bene, ti amo anch’io, ciao.” Chiuse la chiamata e sbuffò.

“Ah, le donne. Petulanti, molte volte, ma sempre nostre compagne di vita.”
Il ragazzo biondo platino si girò di scatto, sorpreso. Alexander gli sorrise, fingendo di voler essere gentile. Si alzò e con calma si andò a sedere al suo stesso tavolo, proprio di fronte a lui. Il ragazzo biondo platino sussultò leggermente, come se non si fosse accorto della sua presenza fino a quel momento. Vedendoselo lì davanti, indifeso, gli ricordava qualcuno.

“Mi chiamo Alexander.” Disse con un sorriso. “Ma puoi chiamarmi Alex.”
“Bill, molto piacere.” Fece con aria un po’ perplessa.
“Scusami se ti sembro invadente, volevo solo un po’ di compagnia.”
“Meglio così: ho ordinato dieci minuti fa, ma ancora nessuno mi si é avvicinato.”
“Beh, mi sono avvicinato io, no?”
Parlò con disinvoltura, come se Bill fosse un fratello.
“Quanti anni hai?” Disse Alexander, per rompere il ghiaccio. “Scommetto che sei più piccolo di quanto immagino.”
“Lo devo prendere come un complimento?”
Alexander non rispose, ma era contento che il ragazzo si stesse sciogliendo.
“Tu quanti me ne dai?” chiese Bill, interessato.
“Trenta.”
“Wow, troppi.” Fece Bill con un sorriso. Evidentemente lo prendeva come un complimento.
“Beh, a volte il mio intuito fa cilecca. Però un tempo ero molto bravo a indovinare le cose.”
“Parli come se fossi già vecchio.”
“Mi sento già vecchio, infatti.”
Alexander gli mostrò un sorriso triste e senza inganno. Era l’unica verità che aveva pronunciato. Bill sembrò essere colpito da quelle parole e si rintanò per una manciata di secondi nei suoi pensieri, poi ritornò vigile.
“Perché non andiamo a mangiare da un’altra parte?”

 
Passeggiarono per un po’ mentre la conversazione si interrompeva in più punti, perché Bill era ancora un po’ imbarazzato. Entrarono in una pizzeria italiana che Bill aveva consigliato perché c’erano pizze di tutte le forme. Per trovare posto dovettero aspettare un po’, ma alla fine un cameriere si avvicinò e li fece accomodare ad un tavolo già prenotato, ma poi disdetto all’ultimo minuto.
Dopo un paio di pizze e un paio di birre cominciarono a parlare di più.
“Quella a telefono era tua moglie?” gli chiese Alexander.
“No, per carità! Mi fa ribrezzo.”
Alexander fece spuntare un ghigno di scherno sulla sua faccia.

“E allora perché le hai detto ti amo?”
“Mi vergogno un po’ a dirlo a un estraneo, ma… organizzo truffe. E questa è una di quelle che mi porterà tanti bei soldi nella mia un po’ consumata tasca.”
Alexander si sentiva a disagio. Pensava di abbordare un tipo insicuro e facile da gestire.
Poco tempo prima era così, infatti, poi è cambiato completamente diventando spavaldo e sicuro di sé. Diede la colpa alle birre. Quasi gli piaceva.

“Quindi le stai spillando solo i soldi.”
“Esatto. Al momento opportuno la manderò a quel paese e farò sparire le mie tracce, come faccio di solito.”
Arrivarono altre due birre e Bill parlava, parlava e parlava.
“…era talmente ubriaco che mi rispose che non potevano esistere i vulcani al nord perché faceva troppo freddo!”
Cominciò a ridere a crepapelle e aveva le guance rosse, probabilmente aveva bevuto troppo. Alexander non ne poteva più e decise di agire.

“Ti va se mi accompagni a casa?”
Bill lo guardò perplesso e Alexander si rese conto di averlo interrotto mentre stava cominciando un altro racconto.
“Oh, scusami. Troppa birra mi da alla testa e non riesco a connettere.”
Finse un sorriso timido e Bill ci cascò.

Uscirono dal ristorante e camminarono per un paio di isolati e Alexander si accorse che il suo compagno aveva riassunto il carattere di quando gli aveva parlato al bar. Perciò non erano le birre, ma era lui che faceva di tutto per sembrare l’uomo più forte d’America. Cercò di attaccare bottone, ma ogni domanda, ogni tentativo veniva respinto da una risposta superficiale. Si rese conto che quello che aveva visto all’inizio, non era timidezza o imbarazzo, ma diffidenza, quasi paura. La stessa che vedeva anche in quell’istante e non poteva fare a meno di domandarsi che cosa stesse succedendo e perché nel ristorante aveva finto il contrario.
Questa situazione puzza quasi quanto me.

“Bill, da questa parte.”
Indicò un vicoletto buio in mezzo a due palazzi dalle scale antincendio ammaccate. Era notte e in quella strada non passava mai nessuno, non c’era pericolo di essere scoperti.
“Davvero abiti qui?”
Vide negli occhi di Bill un guizzo e decise di agire subito. Improvvisamente la sua natura tranquilla e amichevole si trasformò in quella di un mostro. L’espressione si fece cupa e guardò con occhi gelidi Bill, mentre sfoderava un pugnale.

“Mi sono accorto che ti sono rimasti parecchi soldoni nel portafogli. Hai voglia di darmeli?”
Bill cercò di scappare, ma Alexander fu più veloce e lo immobilizzò cingendogli il collo con il braccio e minacciandolo con l’arma da taglio. Bill riuscì a bloccare la mano che manteneva il pugnale e la morse, contemporaneamente riuscì con il tallone a colpirgli lo stinco. Una volta liberatosi del braccio intorno al collo, si voltò, ma Alexander, nonostante il morso, aveva tenuto stretto il pugnale e con esso gli ferì il braccio. Bill, ignorando il dolore, diede un calcio alla mano facendo finalmente cadere l’arma, dopodiché gli diede un pugno ben assestato al volto che lo fece cadere a terra. Si avventò su di lui e cominciò una raffica di pugni che impedirono ad Alexander di reagire, finché non svenne. 


NdA
Questo, credo, é il primo capitolo definitivo. Ho revisionato tante volte quasi tutti i capitoli, ho stravolto la storia e ho caratterizzato meglio i personaggi ma non sono ancora soddisfatta, probabilmente non lo sarò mai, perciò... recensite, ditemi se vi piace, se devo cambiare qualcosa, anche se fa schifo, non mi offendo! C:
   
 
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