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Autore: Ita rb    28/06/2014    4 recensioni
AoKise per Nahash ~
[...] Loro due erano estremamente diversi e forse era proprio quella disomogenea combinazione a tenerli saldamente legati l’uno all’altro. [...]
Genere: Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Ryouta Kise, Yukio Kasamatsu
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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Note: Salve a tutti! Finalmente riesco a scrivere qualcosa su questo pairing che, nonostante io ami alla follia assieme a molti altri, non sono mai riuscita ad affrontare seriamente con una fan fiction. Ne ho lette, sia chiaro, ma non sono mai riuscita a concluderne una delle trentordici (?) che avevo in programmazione. Anche qui c’è la presenza di Kasamatsu – ebbene sì, lol, mi sarò affezionata (?) – ma sebbene sia importante a rigor di trama, questa non è una KasaKise *sospir*
Spero che vi piaccia e che possiate farmi avere una vostra opinione in merito – anche pomodori marci, se volete, qui è tutto ben accetto e magari riesco a farne una piantagione (?) ù.ù’
La storia la dedico a Nahash per svariati motivi: innanzitutto perché gliel’avevo promessa prima del suo esame – che essere indegno che sono, da notare il ritardo mostruoso con cui la presento! – e poi perché una sua qualche strampalata uscita sull’AoKise mi ha lasciata perplessa come un catamarano senza conducente (?) ò_ò *sa che lei capirà*
Or dunque, pazienti creature, vi lascio alla storia ~
 
Contrasto Simultaneo

Loro due erano estremamente diversi
e forse era proprio quella disomogenea combinazione
a tenerli saldamente legati l’uno all’altro.
 
Sebbene in molti gli avessero consigliato di procedere meccanicamente, Ryouta Kise aveva imparato da sé a non dare ascolto alle voci di corridoio: si muoveva fluidamente, quasi come fosse composto di pura aria, e quella caratteristica primordiale non era solo apprezzata da chi lavorava al di là dell’obbiettivo, ma anche da tutte le fan che si era accattivato con un semplice sguardo. Ogni qual volta si trovava immerso dal caos di un set fotografico, era inevitabile che gli tornasse alla mente il giorno del primo scatto – vuoi per nostalgia del passato, vuoi per semplice caso, quel ricordo era lì.
Non pensare all’obbiettivo, gli aveva suggerito il suo manager prima ancora che varcasse la soglia dello studio, sospingendolo con una leggera pacca sulle spalle per incentivarlo a dare il massimo. Sii naturale, ma a tratti, e ascolta sempre le direttive del fotografo, aveva detto la truccatrice, spennellando sul suo viso un po’ di cipria come se fosse una tavolozza da riportare a nuovo.
Prese un grosso respiro e restrinse di poco la cassa toracica, indurendo i muscoli dell’addome e lasciando che il mento si posasse morbidamente – o per lo meno fingesse di posarsi, perché tutto quel che riguardava la moda doveva sembrare e non essere – sul dorso della mano; allora sorrise lievemente, lasciando che le ciocche chiare gli saettassero appena dinanzi allo sguardo caramellato, e il primo flash lo inondò.
«Perfetto, rimani così», disse il tipo che si trovava dall’altro capo di quel velo chiamato obbiettivo. Lo mormorò a denti stretti, mettendo meglio a fuoco l’immagine e sapendo perfettamente che il ragazzo avrebbe mosso le palpebre come tutti – oh, dopotutto non era un manichino!
Attese quell’istante e scattò ancora, cominciando a dare le direttive giuste per ogni singolo muscolo a sua disposizione: era un Dio, un artista, e come tale andava ascoltato da quelle creature misteriose che bazzicavano nel mondo della moda – Kise incluso.
 
«A cosa stai pensando?» Gli chiese una voce, riscuotendolo all’improvviso dal torpore in cui era calato una volta concluso il servizio – dopotutto non era la prima volta che Ryouta si fermasse più del dovuto negli studi e restasse a fissare il vuoto con una strana sorta di malinconia.
«A nulla, forse sono solo stanco», si giustificò lui con un sorriso, portandosi una mano alla testa e cercando di passarsela fra i capelli pieni di lacca con ben pochi risultati. «Ieri ho avuto gli allenamenti fino a tardi con la squadra di basket…» soffiò allora, lasciandosi andare a quella confidenza «… è davvero massacrante in questo periodo: sono tutti agitati per l’Inter High e il coach ci fa sgobbare pesantemente.»
«È normale», constatò l’assistente, finendo di sistemare il pannello riflettente nella sua custodia per poi sollevarsi da terra con uno sbuffo. «Eppure sei giovane, non dovresti sforzarti tanto», aggiunse allora, sollevando un sopracciglio nella direzione del modello che, dal canto suo, si voltò a guardarlo un po’ crucciato. «Dovresti decidere cosa fare davvero, sai?»
«Ossia?» Lo spronò il biondino, reclinando la testa contro il muro. «Cosa intendi dire?»
«Intendo dire che dovresti decidere quale delle due strade percorrere», mormorò il tipo, sistemandosi il berretto sul capo e sorridendo all’indirizzo di Kise. «Devi pensare bene a cosa fare della tua vita: giocare a basket o continuare a fare il modello, è questo il punto.»
«Ha un che di shakespeariano», commentò il ragazzo, ghignando appena alle sue stesse parole – e non senza un velo di malinconia, perché era proprio quello il punto: la situazione iniziava a farsi pesante e non era più così certo di riuscire a sostenerla a dovere. «In realtà ho fatto una promessa a me stesso, perciò non ho voglia di decidere…» borbottò tra sé e sé, sentendo ridere l’altro con naturalezza.
«Sei troppo giovane e troppo impegnato, ecco cosa!»
«Forse», commentò sottotono, stringendosi le gambe al petto e posandoci contro il viso con fare infantile. «Però devo riuscire a fare una cosa prima di decidere quale strada prendere.»
«Se è così, Kise, ti consiglio di farlo alla svelta…» disse, assumendo quasi la tonalità di voce della sua coscienza «… il tempo vola, le giornate si accorciano, gli anni passano.»
«Lo so», sbuffò soltanto, lasciando che l’altro lo salutasse bonariamente con una pacca sulla spalla per poi tornare al lavoro e lasciarlo lì da solo come un perfetto idiota, contornato dal resto dell’attrezzatura del set che doveva essere spostata.
Si alzò a fatica, più che altro svogliato, e sospirò nel mettersi le mani in tasca con quel peso sulla coscienza. Non poteva abbandonare il basket, non adesso e non quand’era così vicino dal suo obbiettivo, senza contare che, in fondo, il motivo che lo spingeva a non mollare la presa era fin troppo distante da lui.
«Forse dovrei davvero farmene una ragione», si disse inconsciamente, arricciando il naso con uno sbuffo e incamminandosi verso i camerini per lasciare lì l’abito di scena. Doveva tornare nei suoi panni reali per la vita che lo attendeva fuori dalle pesanti porte di metallo degli studi, ne era più che consapevole, ma quel mondo fatto di menzogne era diventato una sorta di seconda casa per lui che tanto detestava le scelte e preferiva adagiarsi sugli allori.
Quando tornò in possesso del suo cellulare ci mise un po’ per riaccenderlo, conscio che in quell’esatto momento sarebbe stato letteralmente invaso dalle notifiche di non risposta – e ce n’erano davvero tante, come al solito: sua madre, il manager e infine il capitano della Kaijo, Kasamatsu Yukio.
L’aveva avvisato della sua assenza, ma probabilmente il coach non doveva averla presa bene quanto lui – o forse era meglio dire che di suo non aspettasse altro che vederlo sudare come un pazzo in attesa delle partite per sfoderarlo come asso al momento giusto, se non addirittura dal principio.
«Dove diavolo sei?» Ronzò subito la voce di Yukio quando si decise a chiamarlo per sentire cos’avesse da dirgli.
«Agli studi, ho appena finito», borbottò un po’ giù di corda, assistendo a una di quelle scene tanto classiche quanto tragicomiche.
«Ancora?» Sbottò il moro dall’altro capo del telefono, assordando quasi il modello che, dal canto suo, dovette allontanare l’orecchio dall’altoparlante. «Possibile che ogni dannata volta sei irreperibile?»
«Ah, senpai…» soffiò lui «… dovresti saperlo che non posso tenere il cellulare acceso durante i servizi fotografici: te l’ho detto un milione di volte.»
«Non è una scusa!» Scattò quello. «Se c’è una chiamata urgente, dovresti essere in grado di rispondere, no?» Chiese, assumendo un tono un filino più irritato del previsto e facendo battere le palpebre al biondo di rimando.
«Ma non è successo niente, no?» Provò a dire lui, sentendo l’altro sbuffare esasperato dall’altro lato della comunicazione.
«No, non è successo niente!»
Non ne era molto sicuro, dato il modo in cui quello aveva tentato di rendere la faccenda più sbrigativa del previsto – e non era da lui, perché quando accadevano certe circostanze, Kasamatsu diventava una vera furia e sembrava quasi accanirsi su di lui.
«Davvero?» Chiese il biondo, imboccando il corridoio d’uscita degli studi per dirigersi fuori di lì al più presto. Era certo che gli stesse nascondendo qualcosa, malgrado non sapesse esattamente cosa.
«Certo, figurati se è successo qualcosa solo per via della tua assenza», borbottò Yukio, facendo sollevare all’altro un sopracciglio. «E non fare quella faccia!» Puntualizzò, lasciando Kise di sasso.
«Quale faccia, senpai?» Domandò perplesso, cominciando seriamente a credere di essere osservato dall’altro.
«Lo si capisce dal tono della voce, idiota», spiegò irritato, sospirando ancora una volta e con fare rassegnato. «Ad ogni modo è passata di qui una ragazza», concluse vagamente, cercando di tagliare corto con quella conversazione. «Immagino che fosse una tua fan o qualcosa del genere, perché ha detto di avere un’impellente bisogno di parlare con te…»
«Una ragazza?» Domandò lui, incuriosito e crucciato al contempo. Ne aveva conosciute di fan, soprattutto inopportune e moleste com’erano in gran parte, ma stentava a credere che una di queste potesse presentarsi proprio alla palestra della Kaijo in un misero tentativo d’incontrarlo – oh, dopotutto erano molto preparate al riguardo e sembrava che conoscessero bene tutti i suoi spostamenti quasi quanto i membri della squadra. «Non ti ha detto il suo nome?»
«Non ricordo, dovresti chiedere al coach visto e considerato che è lui che ci ha parlato…» borbottò contrariato «… ormai è tardi: ho provato a chiamarti fin quando ho potuto, ma adesso sto tornando a casa.»
Una strana idea gli balenò in testa senza che potesse comprenderne bene la motivazione, così si fermò con la mano sulla maniglia della porta d’uscita e rimase in attesa, dubbioso, ponendo il suo cruccio con voce soffusa:
«Puoi descrivermela?»
«Mi stavo allenando, razza di scemo!» Ringhiò Yukio dall’altro capo della conversazione. «Ti sembra una domanda da fare, questa? Vuoi forse vedere se può essere di tuo gusto o cosa?» Domandò con insofferenza, ricordandosi benissimo di quella ragazza che tanto aveva distolto l’attenzione dei membri della squadra. «Era bella, ecco tutto», sentenziò infine, arricciando il naso con fastidio.
«Senpai, sei forse geloso?» Domandò Ryouta con una risatina, volendo pungolare un po’ l’altro come faceva di solito. «Non ho la ragazza, se è quello che vuoi sapere», continuò scherzosamente, abbassando la maniglia per uscire fuori di lì e prendere una boccata d’aria.
«Figurati se m’interessa una cosa simile, sei tu l’idiota che non ha una ragazza pur avendone centinaia al seguito!» Sbuffò l’interpellato con una punta di risentimento, colto nel vivo. Non voleva darlo a vedere e perfino Ryouta se ne rendeva conto, ma quella sua strana affezione che sfociava in perenne fastidio era per lo più lampante come l’interesse di un bambino per una sua coetanea.
«Stavo scherzando…» soffiò col sorriso sulle labbra, facendo per dire altro ma fermandosi con le labbra schiuse a guardare dinanzi a sé.
«Non mi piacciono questi scherzi, razza di cretino!» Sbottò la voce del più grande, rimbombandogli nelle orecchie come un eco lontano e ovattato. «Quando ti vedo, giuro che ti stendo con un pugno in faccia: me lo ricordo!»
«Senpai, adesso ti saluto, okay?» Fece appena Ryouta, lasciando che il sorriso scomparisse completamente dal suo volto.
«Ah, adesso attacchi? Non potevi farlo prima?» Borbottò irritato quello. «Va bene, fai un po’ come ti pare: ciao», sillabò a denti stretti quella parola, chiudendo lui stesso la comunicazione e lasciando all’altro il tempo giusto per perdere un battito.
Socchiuse le palpebre, cercando di scrutare nell’ombra poco distante e scorgere il volto del ragazzo che teneva un pallone da basket sulla punta dell’indice teso. Roteava sinistramente, quasi come se fosse dotato di vita propria, e il muscolo teso sotto il giacchetto sembrava non risentire di alcuna pressione.
«Ce l’hai fatta a uscire di lì, mi stavo quasi per dare per vinto!» Sbuffò la voce indiscutibilmente annoiata di quel tipo, mentre il suo padrone fermava la palla con la mano e si calava giù dal muretto per essere invaso dalla luce giallognola del lampione vicino. «Yo…» fece atono, osservando il biondino qualche istante in attesa che anche lui si palesasse e uscisse dal torpore in cui pareva essersi calato da sé.
«Era Momoicchi, allora», si disse tra sé e sé, infilando il telefonino in tasca e scrutando il volto di Aomine che gli si stagliava di fronte con la sua classica espressione burbera.
«Satsuki si è irritata con me, nulla di diverso dal solito…» fece Daiki, sollevando le spalle e facendo scrocchiare appena le vertebre intorpidite dalla postura che aveva preso fino a poco prima «… eppure le avevo solo fatto notare che le sue mutandine erano carine», continuò tra sé e sé, prima di battere le palpebre e tornare a fissare l’altro con attenzione. «Ah, ad ogni modo sono venuto a cercarti, Kise.»
«Lo immaginavo, non è facile vederti da queste parti, sai?» Soffiò lui, avvicinandosi all’altro di qualche passo. «Come mai?»
«Un po’ di pensieri», disse vago, prendendo a palleggiare distrattamente e facendo per incamminarsi verso la strada principale. «Devo ammettere che è davvero difficile farti una sorpresa, Kise: non mi hanno fatto entrare neppure quando gli ho detto che sono un tuo vecchio compagno delle medie.»
«Ci tengono alla sicurezza, tutto qui», sorrise Ryouta, affiancandolo e indicandogli quale direzione prendere. «Ma non capisco perché sei venuto qui, ecco…» continuò allora, lanciandogli un’occhiata dubbiosa e sentendo il ritmo del pallone rimbombargli nella testa quasi come se volesse scandirne i battiti del petto.
«Mh…» Aomine parve pensarci su – troppo, a detta di Kise. «Diciamo che avevo voglia di vederti.»
«Mi sorprendi, Aominecchi», disse lui, sollevando un sopracciglio con fare assorto, prima di tornare a guardare dinanzi a sé. «È tardi adesso, quindi non dovrei stare in giro ancora per molto, altrimenti rischio d’incontrare qualche fan sotto casa e non è una cosa piacevole!»
«Quanto ti vanti…» si lasciò sfuggire l’altro con un sogghigno.
«Non mi vanto, dico solo la verità», si lamentò l’interpellato, considerando davvero l’ipotesi di aver parlato troppo senza però riuscire a fermarsi: «Una volta è successo che una ragazza si è presentata sotto casa mia con un taglierino in mano, una scena davvero inquietante, giuro…»
«E cos’hai fatto?» Incalzò Aomine, improvvisamente curioso di quella stranezza.
«Ho chiamato la polizia, ecco cosa…» borbottò, conscio che non avesse fatto una gran figura, perché Daiki sbottò a ridere con tono basso quasi come se volesse prenderlo in giro per il suo poco fegato.
«Non hai neppure avuto le palle di avvicinarla per farla ragionare?»
«Vorrei vedere te al mio posto, sai!» Soffiò indignato, prendendo a giocherellare con le dita nelle tasche.
«E se venissero fuori dagli studi?»
«La sicurezza le manderebbe via», constatò lui con un’alzata di spalle.
«Vero, però io non sono stato cacciato a pedate da lì», volle precisare, fermando poi la palla e tornando a farla roteare un poco, cercando il baricentro della stessa per concentrarsi – Ryouta lo sapeva: quando Aomine aveva con sé una palla da basket e la faceva girare tanto freneticamente, di certo aveva qualcosa d’impellente da cavarsi di bocca.
«Ti sarai confuso con il muretto», ghignò Kise, sardonico, sentendosi poi colpire con uno scappellotto dietro la nuca dall’altro. «Ahi!» Si lamentò allora, chiudendo un occhio e massaggiandosi la testa.
«Ma cos’hai sui capelli, il cemento?» Domandò ironico Aomine, sfregandosi le dita tra loro e constatando che il biondino fosse letteralmente pieno di robaccia d’alta moda fra i fili color sole. «Che diavolo ci mettono in quella roba?» Continuò imperterrito, divagando ancora un po’.
«Aominecchi, come mai sei venuto?» Chiese ancora Ryouta, assumendo un tono più serio del precedente. «Hai detto che volevi vedermi, ma questo non ha senso: non ti sei fatto vivo per così tanti mesi che pensavo di aver dimenticato la tua faccia…» soffiò ironico, storcendo di poco le labbra in un sorriso amaro.
«Volevo vederti e basta», disse lui, deglutendo e riconoscendo la via giusta per arrivare a casa di Kise; allorché lo afferrò per un polso, fermando il roteare della palla e mettendosela sottobraccio per poi incamminarsi a grandi falcate verso il palazzo del biondino.
«Ehi!» Lo chiamò, battendo le palpebre perplesso. «Ehi, che hai intenzione di fare, Aominecchi?» Arrossì appena, credendo di aver inteso cosa passasse per la testa di quel tipo perennemente annoiato che incarnava il perfetto motivo della sua indecisione sul futuro; eppure non volle dire nulla, preferendo che fosse lui a parlare.
«Niente, assolutamente niente», fece sbrigativamente in uno sbuffo, indirizzandolo verso casa sua senza troppe cerimonie. «Non ti vedo da tanto…» continuò, lasciando che il discorso in sospeso prendesse una piega del tutto prevedibile alle orecchie del modello.
«Aspetta», borbottò lui, puntando i piedi sul terreno e sentendo le suole sfregare forte contro l’asfalto. «Non è normale quello che stai facendo, te ne rendi conto?» Domandò un po’ seccato, restringendo lo sguardo e imporporandosi irrimediabilmente. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva visto e adesso quel tipo pretendeva che tutto tornasse come in principio? Doveva essere impazzito del tutto.
«Perché?» Chiese lui, arrestandosi e lasciando che Kise lo guardasse di sguincio per farlo sentire un po’ in colpa – cosa che detestava profondamente. «Sei sempre il mio ragazzo, no?» Borbottò un po’ imbarazzato, affievolendo il tono di voce e guardando altrove, mentre la mano del biondino si toglieva il suo polso di dosso.
«Non direi, sei sparito!» Si lamentò. «Non è normale per questo: non puoi venire fuori dagli studi per poi credere di portarmi a casa e…» la voce gli morì in gola, mentre le sue guance presero ad arrossarsi di vergogna.
«E?» Lo incentivò l’altro, lasciandolo andare di sua sponte senza tornare a guardarlo.
«So cos’hai in mente, non ci vuole un genio a capirlo…» soffiò Ryouta, tenendo il capo chino. «Il tempo è passato, però, quindi non farti strane idee.»
«Non mi faccio strane idee», sbuffò l’interpellato, tornando a far roteare il pallone come se nulla fosse, giusto per scaricare un po’ di tensione. «So che c’è qualcun altro adesso», borbottò allora, facendo drizzare la schiena al biondo che, dal canto suo, rimase perplesso a quell’insinuazione.
«Come?»
«Senpai, sei forse geloso?» Gli fece eco, ricordandogli della conversazione di poco prima al cellulare. «Immagino che sia qualcuno della Kaijo, dico bene?»
«No, anche su questo ti sei fatto un’idea sbagliata», disse il modello, serrando i denti di fronte a quell’accusa. «Stavo scherzando, ecco tutto.»
«Anch’io scherzo spesso con Satsuki, eppure ti lamenti ancora…» disse Aomine, voltandosi a guardarlo con una lieve sufficienza «… prima hai fatto una faccia terribile, sai?»
«Quando?» Sollevò un sopracciglio, tentando di farsi scudo della perplessità per evitare di fare una pessima figura con l’altro.
«Quando ho parlato delle mutandine di Satsuki», spiegò quello, incurante della parvenza di Ryouta.
«Perché sei il solito pervertito, ecco perché», volle precisare l’interpellato, malgrado le sue guance non accennassero a tornare di un colore normale.
«E non sei geloso?» Lo punzecchiò Aomine, avvicinandosi a lui per fissarlo da vicino negli occhi, certo che, almeno loro, non avessero avuto paura di dirgli la verità.
«No», mormorò piano, senza scostarsi, sentendo il respiro dell’altro sul viso e rabbrividendo alla sola idea che, volendo, avrebbe potuto annullare quelle distanze come un tempo e lasciarsi trascinare da un bacio rovente.
«No…» soffiò «… giusto, perché dovresti?»
 
E le distanze si annullarono ugualmente, volente o nolente che fosse Kise, perché sembrava che il suo animo parlasse da sé: lo voleva, desiderava sentire le sue labbra più di ogni altra cosa al mondo e bramava per un attimo di piacere nudo e crudo – non che fosse un ossessionato, è ovvio, ma di certo non mancava di ricordare quanto fosse bello stare con lui e amarlo piano, lentamente, quasi come se a unirsi non fossero semplici corpi, bensì animi maldestri.
Il tocco delle sue dita sulla nuca impastata di lacca era permeante, la lingua che gli carezzava il palato e cercava la sua sembrava febbricitante e poi ancora il suo respiro, l’addome che si sollevava appena a ogni spasmo e lo sguardo – calamitante punto d’incontro che non aveva eguali.
Lo fissava, lo scrutava nella penombra del corridoio, mentre il suo affanno gli riempiva le orecchie e quel nomignolo tanto rispettato diventava soffuso, vibrante ed eccitato nelle sue orecchie.
«Aominecchi…» mormorò, reclinando appena il collo e lasciandogli spazio per sentirsi subito attaccare da lui che, come una belva inferocita e vogliosa, prese a lambirne la pelle chiara col chiaro intento di marchiarla e ricordargli chi fosse – il suo ragazzo, no? «Aominecchi», lo chiamò ancora, con voce mozzata, mentre le sue mani scendevano sul petto, contro i fianchi, e volevano spogliarlo per renderlo indifeso e nullo sotto i suoi occhi taglienti e maliziosi.
Si era rifiutato per orgoglio – quello stupido testardo. Si era rifiutato per paura – quella dannata impicciona.
Aveva detto di non volerlo portare a casa sua, ma la verità era esattamente l’opposto: incurante dell’orgoglio e della paura, sotto il suo tocco famelico e i suoi baci che sapevano di fuoco freddo – gelavano l’anima e riscaldavano i lombi – lui era lì, ad annaspare nel buio.
   
 
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