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Autore: GGMiriel28    30/06/2014    0 recensioni
Prima avevo uno scopo per cui lottare, adesso non ho più niente, solo la rabbia ed il risentimento che provo nei miei confronti: “Sei stato uno stupido, ti sei lasciato ingannare. Adesso che lei ti ha portato via tutto, cosa speri di fare?”.
Ripercorrendo gli ultimi giorni di prigionia fino alla liberazione e al raggiungimento del Distretto 13, questa fanfiction soddisfa, almeno in parte, tutte quelle domande sulla prigionia di Peeta a cui non è stata data una vera e propria risposta.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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 La tempia martella insistentemente da molte ore, non so se smetterà più di farlo. Il ronzio delle lampade sopra la mia testa mi mantiene saldamente legato a ciò che credo dovrei chiamare “limbo”: non so da quanto tempo me ne sto qui, a stringermi le ginocchia con le braccia che non la smettono di tremare; prego perché resti tutto uguale, perché niente mi distolga dal torpore in cui sono caduto. Tengo gli occhi semichiusi sulla stessa sezione di piastrelle biancastre ai miei piedi, restando al mio posto: le visioni si sono attenuate ma non mi sento sicuro, libero di poter lasciar vagare lo sguardo attorno a me come facevo prima. Sento il rumore di una piccola fessura che si apre nella porta, certamente quella in basso, accompagnata dalla voce che mi consegnerà il pasto. Una distrazione inutile: mangiare, dormire sono parole che mi appaiono estranee: aspetto solo di morire, perché è quello che mi auguro ogni giorno da quando sono qui.
<<"Vedi di buttar giù qualcosa, oppure te la facciamo venire noi la voglia. Ci servi vivo">>. Le parole di Rufus aleggiano aspre nell’aria ma non mi raggiungono, restano vuote e prive di senso; mi sento più costretto ad ascoltare quella parte di me stesso che viene a tormentarmi. Prima avevo uno scopo per cui lottare, adesso non ho più niente, solo la rabbia e il risentimento che provo nei miei confronti: “Sei stato uno stupido, ti sei lasciato ingannare. Adesso che lei ti ha portato via tutto, cosa speri di fare?”.
Non lo so”è tutto quello che riesco a rispondergli. Le mie parole restano sempre le stesse, le sue fanno sempre più male: per questo spero che prima o poi mi lasci in pace.
Il tempo continua a passare mentre in un sottofondo ovattato sento le grida di Johanna, poi lo scalpiccio di almeno tre paia di stivali ed il tonfo della pesante porta che la richiude ancora una volta nella sua cella. Fanno sempre così, seguendo una cadenza regolare: quando viene il mio turno lasciano in pace lei e viceversa; in questo modo possiamo sentirci a vicenda. Per questo non mi aspetto che la porta si apra all'istante, senza che le sia data almeno qualche ora per riprendersi; non mi aspetto che gli stessi tre paia di stivali mi afferrino braccia e gambe per trascinarmi ancora una volta verso il patibolo. Contraggo i miei muscoli in uno spasmo rabbioso, ma sono troppo instabile per opporre alcuna resistenza. Allora lascio fare alla mia voce: esce roca e a volte scompare per lo sforzo, ma almeno è l’unica parte di me che riesco ancora a far valere ogni tanto; trasmette il terrore che a breve proverò ancora, la rabbia che mi sento dentro nei confronti di questo maledetto Paese e di ciò che ha creato.

Due dei tre che mi stanno trasportando non perdono l’occasione per darmi qualche calcio, forse sperando che io la smetta; il terzo tace, non mi sfiora neanche con un dito e si limita a fare il suo dovere: potrei quasi pensare che stia provando pietà nei miei confronti. Le porte automatizzate sfrecciano veloci al nostro passaggio, e si richiudono ermeticamente. Un terribile senso di vuoto mi assale mentre i miei occhi intravedono la sedia in pelle chiara, posta al centro dell’ampia stanza cubica; ho come un attacco di claustrofobia, al sentire quel lieve suono. Il soffitto sembra diventare troppo basso, il respiro si fa affannoso, il tremore aumenta e perdo del tutto il controllo di me stesso.
Nel momento in cui riacquisto un poco di lucidità mi ritrovo a fissarmi i polsi, saldamente stretti nelle stesse cinghie che fanno aderire i miei arti e il mio busto alla morbida pelle; adesso sono del tutto inoffensivo. I tre uomini lasciano spazio ad una donna dallo sguardo gelido e robotico, vestita in una rigorosa uniforme bianca: come ogni volta mi innesta una cannula in entrambe le braccia, poi scompare dietro un’invisibile porta che da qui non riesco mai a vedere. L’agitazione torna famelica a reclamare la mia trasparenza mentale: tra poco inizierà il dolore, morirò ancora.
La prima volta che venni portato qui non sapevo cosa dovessi aspettarmi; avevo già subito ogni forma di tortura preliminare, dall’elettroshock al pestaggio. Quando però mi ritrovai a contemplare quella sedia, sola, in mezzo a una stanza tanto vasta, provai da subito un terrore inaudito:  temevo che mi avrebbero cavato un occhio, di venire mutilato com'era stato fatto a Darius. Non riuscivo ad immaginare niente di peggio; eppure la tortura fisica è quasi sopportabile, se non arriva ad annientarti mentalmente. Un simile tipo di dolore non è destinato ad affievolirsi: non importa quante volte ti sarà riproposto. Lede alla lucidità delle tue convinzioni, ciò per cui sei pronto a soffrire e combattere fino alla fine. Nel mio caso è stata imposta la verità, atroce, servita su di un piatto d'argento; quella a cui mi ero imposto di non credere. È stato come scoprire un mondo d’incubi da cui non riesco ad uscire.    
La luce si fa fioca e scompare, lasciando il posto al mio volto incorniciato in un completo azzurro: appare sui tutti e sei i lati della stanza, di modo che non possa evitare di guardare. Sembra una delle interviste che mi hanno fatto in seguito ai Settantaquattresimi Hunger Games;  sento la mia bella voce uscire calma e rilassata mentre, con un sincero sorriso stampato in faccia, racconto dei suoi gesti d’amore nell’arena, stringendo quella che credo sia la sua mano. Improvvisamente le cannule si riempiono dello stesso liquido violaceo, così scuro da parere nero: non ho mai capito di cosa si tratti, credo sia una specie di siero progettato per amplificare i sensi, ma sono sicuro che non si limiti a questo. Il liquido mi finisce dritto in vena, quasi mi sembra di vederlo scorrere all’interno del mio corpo; di qui a poco raggiungerà i muscoli facciali, paralizzandomi il viso. Sento fin da subito il formicolio premonitore e le mie palpebre restano completamente aperte di fronte agli schermi; le labbra rimangono semichiuse in una smorfia informe. Subito dopo iniziano il dolore e la confusione: la telecamera si sposta verso di lei, mentre i miei occhi la percepiscono per quello che è. La vedo trasformarsi in un ibrido: vedo la sua pelle fatta di scaglie vitree, i suoi occhi da rettile di un ocra irreale, simili a quelli di Snow. Le video riprese dell’arena mi mostrano una realtà diversa da quella che credevo: comincio a gemere guardandole avvicinare i suoi denti affilati al mio collo, mentre deliro per la febbre. La vedo lasciarmi indietro in balia degli ibridi-lupo, che non osano torcerle un capello. È un martellamento continuo di flashback, immagini e suoni che mi portano ad un altro passato, quello reale: sento delle grida che non ricordo, delle parole sussurrate all’orecchio, mentre rantolo paralizzato dalla paura, in preda agli spasmi. Un nauseabondo profumo di rose si spande nell’aria offuscandomi la mente: mi fa lacrimare gli occhi, che non tollerano più di restare spalancati di fronte a un simile massacro. Sento una voce sterile risuonare per tutto l’ambiente.
<<"Soggetto 1056, Katniss Everdenn. Specie, Ibrido umanoide. Altezza definitiva, 1 metro e 75. Capelli castano scuro. Occhi grigi. Capacità di ibrido mutaforma. Destinazione, Distretto 12. Obbiettivo, Peeta Mellark">>.
Cosa significa tutto questo?!Cosa sono questi dati?!” tento di biascicare, ma la bocca è troppo serrata perché possano capire quello che vorrei chiedere loro. Mi appaiono delle immagini sfarfallanti, fino a che non mi trovo di fronte alla fonte di quelle parole: un uomo in uniforme da laboratorio che accompagna la telecamera per un tour della sua equipe. Parla del progetto e mentre questa viene inquadrata, noto sullo sfondo una vasca in cui resta sospesa una creatura: non riesco a metterla a fuoco, l’inquadratura non resta fissa che per pochi secondi. Di nuovo flashback, allucinazioni, paura. Poi torna la tenebra: un’oscurità così densa da sembrarmi soffocante, che mi avvolge lentamente mentre tento disperatamente di risalire in superficie.
Sono di nuovo nella mia cella, disteso sul pavimento lindo. Mi sforzo nel muovere la faccia per sciogliere i muscoli affaticati ed irrigiditi, massaggio i polsi attorno a cui erano strette le cinghie. Sposto lentamente lo sguardo, notando il nuovo pasto poggiato all' entrata; mentre mi stropiccio gli occhi, la vedo, accovacciata contro la porta: Katniss Everdeen è istintivamente attratta dalla mia presenza; i suoi occhi inumani mi scrutano attenti, soppesando la situazione. Grido convulsamente accovacciandomi su me stesso: ripeto piú volte che non può essere qui, che è in mano dei ribelli, e mi convinco a riaprire gli occhi solo per un momento. Quando torno a fissare la ciotola, lei è svanita. Mi raggomitolo in fretta senza mai perdere di vista le piastrelle ai miei piedi, mi afferro di nuovo le ginocchia con le mani, aspettando che tutto passi. Per un po’ non percepisco altro che il ronzio della lampada sopra di me, poi lo sento: quel nauseabondo profumo di rose mi investe, mentre il suo alito caldo si spande sul mio collo.
<<"Peeta..">>.
 Grido ancora e, trascinandomi carponi, sono di nuovo rannicchiato contro il muro: mi stropiccio confusamente le mani per far diminuire il fremito, mentre continuo a gemere in preda all’ansia. Non so quanto tempo sia passato ma non riesco più a tenere lo sguardo fisso su quelle dannate piastrelle: le palpebre mi pesano terribilmente e si chiudono prima che possa fermarle. Di colpo mi ritrovo nella sala torture, con la mente invasa da voci ed immagini raccapriccianti: Katniss che vaga sulle macerie del nostro distretto, cercando il mio cadavere in mezzo a tutti quei corpi carbonizzati. Mentre vaga, la vedo fermarsi davanti a quella che un tempo era la panetteria; per un po’ guarda il luogo in cui c’era la vetrina, poi aggira l’edificio inquadrando la porta sul retro bottega. Si accovaccia poggiando la schiena contro l’albero che un tempo l’aveva vista piccola e denutrita, mentre io le gettavo il pane che avevo fatto bruciare di proposito. I suoi occhi paiono soddisfatti adesso, mentre stringe le pagnotte fra le mani: ne spezza una, da cui esce un liquido rosso scuro ed oleoso come il sangue; fa lo stesso con le altre sorridendo famelica. Attorno a lei posso vedere ciò che resta della mia famiglia. Riconosco con chiarezza i corpi dei miei genitori e dei miei fratelli: li ha uccisi tutti.          
Il tempo continua a passare e io mi faccio sempre più debole. Mi ritrovo a fissare con un’espressione vuota il ritratto che le avevo fatto sul muro della cella, proprio accanto alla branda. Lo avevo dipinto con cura il giorno in cui temetti di averla persa, quando mi gettarono in questa nuova prigione dopo aver avvertito i ribelli del bombardamento in arrivo sul Distretto 13: mi avevano conciato davvero male, avevo quanto sangue desiderassi per realizzarlo.  Adesso si è sbiadito e da lontano appare come una  macchia informe: dopo le ultime sessioni di tortura l’ho cancellato fino a farmi male. Nel frattempo le gambe hanno iniziato a tremare meno, le braccia si sono arrestate: mi sento sfinito, forse questa è la volta buona in cui me ne andrò via per sempre.
Un rumore sordo rimbomba nella testa,  accentuato dal dolore alla tempia: la porta della cella si apre di nuovo. Entrano i soliti tre uomini accompagnati da quello che pare un medico in uniforme.
<<"Quanti pasti dite che ha saltato?">>.
<< "Non tocca cibo né acqua da quattro giorni">>.
Parlano fra loro delle mie condizioni fisiche, l'uomo mi illumina gli occhi con una piccola luce, poi ascolta il polso. Resto docile, non sento più alcun impulso: facciano di me quello che vogliono, mi considero già morto.
<<"Seguitemi; dev’essere sottoposto a fleboclisi e ad un ciclo di alimentazione forzata" >>.
Mi trascinano via dalla cella, per condurmi in una sala di un bianco accecante. Non ho capito cosa abbia detto il medico, ma credo che lo scoprirò presto. Vengo posto su di un lettino, mi legano di nuovo a dovere. Sento che stanno iniettando qualcosa nel braccio e prego perché non sia ancora quel siero scuro; attendo di sentire la faccia paralizzarsi, ma non accade niente di tutto ciò. Invece mi infilano una sonda in gola e cominciano a versarvi una brodaglia bruna a piccole dosi. Quando comprendo quello che mi stanno facendo, non posso che piangere. Le lacrime scendono copiose ed amare mentre gemo, conscio del fatto che mi stanno rimettendo in forze per impedirmi di morire. Non appena mi estraggono il tubo comincio a gridare contro di loro, con una forza che non credevo avrei mai avuto: grido invettive orribili, li scongiuro di lasciarmi morire in pace.
<< "Non potete farlo! Non potete…" >> sono le ultime cose che riesco a dire mentre una siringa mi inocula l'ennesima dose di morfamina. Al mio risveglio sono di nuovo nella cella.


Ancora rannicchiato sul pavimento, più lucido ed in forze di prima; mi fisso le mani, restando concentrato sulle tantissime linee che le compongono: se è vero che raccontano chi siamo, rimpiango il fatto di non saperle leggere. Ad un tratto sento la terra tremare bruscamente: una specie di boato risuona lontano, la luce bianca sfarfalla per un po’ prima di tornare ad illuminare l’ambiente; sembra lo scoppio di una bomba. All’improvviso mi ritrovo a pensare alla guerra che stanno portando avanti i ribelli; mi hanno continuato ad informare sulla situazione affinché potessi tornare loro utile durante le interviste: adesso sono del tutto all'oscuro di ciò che succede là fuori. Non so da quanto tempo sia relegato qui, forse sono mesi, forse anni; non vedo la luce del sole da molto tempo: credo che mi spaventerebbe, perché sono abituato a vivere nella penombra. Per quanto mi riguarda la guerra potrebbe anche già essere terminata: ma il fatto che mi trovi ancora qui mi fa pensare che la situazione non sia così semplice. Certo, ormai sarei comunque inutile, pazzo come sono diventato ai loro occhi; o forse no, mi verranno a prendere, dopo aver capito cosa si cela dietro Katniss. Avevano preso, come simbolo della ribellione, l’ibrido peggiore che Capitol City abbia mai potuto creare. Sento di nuovo avvolgermi in uno strano torpore: sembra che nell’aria sia stato immesso un gas dolciastro come il miele: mi premo le mani sulla bocca mentre tento di combattere la sonnolenza che mi sta assalendo. Intanto, per tenermi sveglio, provo a chiamare il nome di Johanna. Durante i primi tempi provavamo a metterci in contatto, poi siamo stati inghiottiti dall’abisso dentro noi stessi; adesso invece è diverso, forse ci stanno veramente venendo a prendere. Non so perché mi senta così entusiasta: desidero ancora morire, ma la voglia di tornare a casa è forte. Penso a mio padre, a mia madre e ai miei fratelli: per loro varrebbe la pena di tornare. La luce sfarfalla di nuovo e stavolta si spegne, mentre tutto piomba nel buio assoluto; anche le porte automatizzate delle celle sembrano essersi sbloccate. Nonostante la mano, il gas riesce a penetrare: strattono un lembo della divisa per premerlo con più forza possibile contro naso e bocca, mentre mi distendo sul pavimento per tentare di respirare meno aria contaminata possibile. Delle voci energiche e ferree squassano il silenzio dei corridoi attorno alla cella: gridano ordini, risposte affermative o negative; talvolta sento degli spari.
<< "Trovate i prigionieri! Abbiamo 7 minuti e mezzo a disposizione!" >>. Questa dev’essere la voce del capo dei soldati.
Improvvisamente i passi si fanno più vicini, la porta della mia cella si apre, rivelando un giovane alto e muscoloso. << E' Peeta. Me ne occupo io >> grida ai commilitoni.La sua voce non mi è nuova e, sotto la maschera antigas, mi ritrovo a fissare gli occhi grigi di Gale. <<"Johanna è nella cella qui accanto…">> riesco a farfugliare.
<<"Si, l’abbiamo trovata">> annuncia con un tono soddisfatto; mi issa sulle sue spalle portandomi fuori. Sento il suono delle sirene che lampeggiano insistenti, rivelando con voci atone che la zona è stata violata dai ribelli; percepisco altri spari, la voce autoritaria di prima che raccoglie le truppe, fa un rapido calcolo ed ordina la ritirata. Mentre Gale corre con le spalle coperte dai compagni, mi assopisco.
L’hovercraft appare più piccolo di quei mastodontici velivoli che ho visto nell’arena: probabilmente è stato progettato sin dall’inizio per missioni di salvataggio segrete come questa. Mi trovo attaccato ad un respiratore di aria pura; mentre i miei polmoni si rifocillano sto ben attento a mantenere le palpebre semichiuse: non voglio che mi rispediscano a dormire ancora. Accanto a me percepisco la presenza di Johanna, mentre Annie deve trovarsi dall’altro lato. Siamo separati dallo scompartimento dei soldati, ma sento le loro voci ovattate da dietro la porta.
 << "Adesso potrà collaborare con noi in piena sicurezza; lui è di nuovo al sicuro" >>.
<<" Si, Katnip sarà finalmente felice" >>.
Sentir pronunciare il suo nome con così tanta naturalezza risveglia in me la paura: la ritengono una di noi, non hanno ancora capito niente. “Com’è possibile questo?!Come possono non essersene accorti?!” , le mie mani tornano a tremare ma faccio uno sforzo per controllarmi. “Cosa speri di fare? Se non la fermi, lei continuerà a portarti via tutto”, il me stesso loquace torna con le sue domande insistenti. Me ne resto un po’ immobile tentando di captare qualche altro suono e di fare ordine nella mia mente; sento solamente una flebile risata soddisfatta.
Cosa speri  di fare?”, stavolta ce l’ho una risposta: loro non conoscono la verità, io invece sì. Loro non sanno che li porterà alla rovina: “Io devo fermarla prima che faccia male a qualcun altro; prima che distrugga gli sforzi dei ribelli”.
Quando mi sveglio di nuovo mi ritrovo su di un lettino d’ospedale; alcuni infermieri che mi stavano monitorando chiamano vari medici perché accertino le mie condizioni. Vedo il lettino di Johanna sfrecciare via lungo la stanza per poi essere portato da qualche parte; adesso che posso vederla con chiarezza resto sconcertato dalle sue condizioni: la sua pelle è butterata da lividi ed escrescenze sanguinolente, le ciglia e i radi peli che le coprono la testa sembrano bruciacchiati. Annie invece appare raggiante, mentre scappa dalle grinfie dei medici seminuda alla ricerca di Finnick, che la sta chiamando a sua volta per i corridoi.
Mi siedo mentre gli infermieri lasciano il posto ai medici; appaiono rilassati, sembrano soddisfatti delle mie condizioni. Una piccola luce lampeggia di nuovo davanti ai miei occhi: << "Anche i riflessi sembrano a posto; ti vedo proprio bene Mellark" >>. Probabilmente è in buona fede, vuole solo confortarmi. Abbozzo un sorriso, ma mi esce una smorfia strana sul volto: “Mi vedono proprio bene. Dopo quello che ho passato..”, ma i miei pensieri dirottano subito argomento. Lei, la ragione di tutte le mie sofferenze, si sta avvicinando alla stanza; affondo le mani nell’imbottitura del lettino per reprimere il terrore e lo spasmo muscolare, cercando di restare lucido. Accanto a lei c’è Haymitch, mio mentore per ben due volte nell’arena: com’è possibile che anche lui non si sia accorto della vera natura dell’essere che gli cammina a fianco?    
Se non te lo avessero rivelato, non te ne saresti accorto neanche tu, stupido ragazzo innamorato”, queste parole fanno terribilmente male, tanto da rigettarmi per un attimo nel baratro.
Non appena Katniss entra nella stanza, mi sento confuso: non mi sta guardando con lo sguardo famelico che le ho visto tante volte; sembra sollevata di vedermi, i suoi occhi sono arrossati al limite delle lacrime; le sue labbra schiuse in un dolce sorriso: il suo volto mi ricorda quello del ritratto che avevo dipinto nella cella.
Per un attimo la stanza sembra vacillare attorno a me: un sentimento antico tenta di farsi strada fra i cumuli di paura, mi spinge ad alzarmi in piedi, a scostare i medici. Ma la paura è troppo forte: il terrore prende piede in me ad ogni passo che faccio, via via che mi avvicino a lei.
Non è lei, non è la ragazza che hai dipinto” mi ripeto continuamente; “è un ibrido di Capitol City, nato per distruggere te”, la voce atona della stanza delle torture risuona nella mia testa. “Loro ti hanno fornito le prove, tu l’hai vista in quella vasca: era lei” continua a ricordarmi Peeta.
Katniss Everdeen apre appena le labbra come per sussurrare il mio nome. 
L’incubo torna a farsi reale, le ginocchia tremano ma io non mollo:“Devo fermarla”. Tendo le mani verso di lei, che non sembra essersi accorta delle mie intenzioni: sono armato di rabbia e paura miste in un’insaziabile sete di vendetta per tutto ciò che mi ha causato. La dolce bambina che amava cantare a cui donavo il pane è stata sostituita da un mostro che desidera il mio dolore: la porterò alla deriva con me, subirà per quello che mi ha fatto. Per tutto questo tempo mi ha solo ingannato; “E continuerà sempre a farlo” mi ricorda la voce nei miei pensieri, mentre gli occhi si arrossano, colmi di lacrime.. Così affondo le mie mani nel suo tenero collo.  




Angolo dell'autrice:
Salve a tutti! Spero che la mia fanfiction vi sia piaciuta. Da sempre mi sono chiesta, benché nella storia non sia rivelante il "come" sia avvenuto ma l'effetto sortito, cosa fosse accaduto con esattezza a Peeta nella prigione di Capital City; da qui il mio desiderio di scrivere a proposito di questo argomento. Sinceramente però la cosa mi faceva un po' paura, mi dava ansia: temevo che non sarei riuscita a superare le aspettative di nessuno. Alla fine però mi sono decisa e ci ho provato. Spero di essere riuscita ad emozionarvi almeno un pochino.  
  
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