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Autore: Oh_My_Eel    30/06/2014    0 recensioni
Anno 5140. L'uomo ha avuto la possibilità di espandersi per il proprio sistema solare per poi allargarsi per altre quattro galassie, senza mai fermarsi nel tentativo di trovare nuovi luoghi abitabili. Ogni pianeta, ogni stato, ogni satellite in quel territorio fa parte dell'unico e solo Impero Universale, dove tutti vivono felici come marionette attaccate a cavi elettrici invisibili con cui il Ratto si diverte a trastullarsi. Una dittatura velata che lentamente sta per cedere, e tutto per colpa di un sogno, un ideale irraggiungibile, un'Utopia pronta a guidare un intero impero contro il suo creatore.
Genere: Guerra, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo 
Olimpyia



Il Ratto: una figura slanciata e poco rilassante, non ispirava l’aspetto del padre dolce e caro. Certo, ad Olimpyia non era andata di lusso; trovare lui come nuova famiglia era stato terribile, alla fine la fortuna non amava tutti, a quanto pareva. Sul fatto che i suoi metodi educativi non fossero i migliori la quattordicenne non aveva torto; usare scariche elettriche come punizione per ogni cosa non era certo il miglior tipo di castigo. A volte, Olimpyia pensava che sarebbe diventata pazza a forza di trattamenti estremi. Non era mai cambiata dal giorno in cui era stata sequestrata; era lo stesso agnellino di Mary dal vello nevoso, un risultato che il Ratto non voleva. Lui voleva vedere la sua bambina diventare una macchina, una macchina forte e indistruttibile. Nemmeno in quattro anni di scariche elettriche il suo animo pauroso si era smosso, non era stato rimpiazzato da rabbia, non era stato celato né trasformato.
Si osservava per ore allo specchio – e spesso gli inservienti pensavano che forse le mancava qualche rotella. Non la smetteva di osservare quella figura, seduta su uno sgabello in mogano vecchio almeno mezzo secolo; le sue gambe erano piegate a novanta grandi, e come e braccia erano fin troppo fini. Non era anoressia, era nata così. Oltre ad essere fini erano anche troppo corte e storpie; Olimpyia era stata costretta alla sedia a rotelle per via di quell’insopportabile errore genetico, accompagnato da albinismo. Esatto, la sua pelle era del colore del vello di una pecora, i suoi capelli fini e delicati come fossero sintetici e gli occhi da bambina grandi e color canarino. Le spalle erano strette e basse, le ossa evidenti, le mani delicate come piume. Osservandosi, pensava soltanto che il Ratto era proprio un illuso se pensava di trasformarla in una macchina da guerra.
Nella sua camera, spoglia e priva di ogni luce artificiale, entrava il riflesso della luce lunare tutto grazie a una stretta fessura che il Ratto osava chiamare finestra.
A lei non interessava vedere la Via Lattea da una fessura.
Lei si guardava. Lei pensava. E più guardava e pensava, più ragionava, si rendeva conto di quanto fosse spacciata. Era cosciente del fatto che il suo corpo era debole, e che non avrebbe retto più di un altro mese, e sapeva perfettamente che tutti avevano ragione, lei stava perdendo la ragione. Le aveva provate tutte per sfuggire al nuovo padre, ma ormai era da quattro anni che falliva nel cambiare. Sottomettersi non bastava, implorare pietà la rendeva troppo debole. Un tempo optò per la rabbia, che si trasformò in terrore più crudo. Le scosse elettriche aumentavano sempre di più, per non parlare degli abusi, ma una povera albina andicappata cosa poteva mai fare? Nulla. Non poteva chiamar la polizia, perché era la polizia stessa a tenerla rinchiusa, a non lasciarla libera. Tutto perché lui aveva potere, perché il Ratto era un uomo importante ed altamente fluente in quell’Impero che si ritrovavano. Il fatto che fosse completamente fuori di testa non contava per niente; la furbizia non era morta con la sua sanità mentale, purtroppo. Lui era il Dittatore di cui nessuno sapeva niente, e cosa poteva fare Olimpyia? Nulla, di nuovo.
Il Ratto voleva vederla forte al punto giusto. Sapeva esattamente quanto fingeva, quando mentiva sull’obbedirgli. Era una Ribelle, e doveva essere tenuta d’occhio.
L’unica speranza era aggrapparsi alla propria sanità mentale, perché se l’albina avesse perso pure quella il Ratto avrebbe vinto la battaglia. E non c’era uomo più disgustoso e meno meritevole di vincere anche solo verbalmente per il semplice fatto che in mano teneva il telecomando del suo elettrizzante strumento di tortura, utilizzato ad ogni replica indesiderata.
Le rimaneva soltanto fissarsi. Ricordarsi chi fosse per davvero prima che il Ratto la trasformasse.
Ricordarsi del suo vero nome, non di Olimpyia. Aggrapparsi al passato.
Attendere.
  
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