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Autore: Lost_it_all    01/07/2014    4 recensioni
Piacere, sono Alaska. Non sono esattamente una brava ragazza, almeno a primo impatto: fumo, bevo, ho piercing e tatuaggi e non ascolto musica da salotto.
-Be', cosa ascolti allora, "cattiva ragazza"?
Ascolto loro, cinque re e un Angelo: gli Avenged Sevenfold.
Mi hanno salvata, lo giuro su tutto quello che volete, e il mio unico sogno è incontrarli e ringraziarli col cuore in mano.
Non pensavo però che si sarebbe mai realizzato. Almeno finché non sono capitata in California a casa di una ragazza più pazza di me con due pass per il backstage.
Questa è la mia storia. Volete accompagnarmi ?
Dal testo:"“Dicevo... Vai da sola al concerto?”
Annuii. “Sì.”
“No.”
“Cos-“
“No.”
“Ho capito. Ma cosa stai dice-“
“Ci sarò anche io!” (...)
“Ma non avevi detto che non eri riuscita a prendere il biglietto?” mi tornò in mente.
Alzò le spalle. “Sì. È così. Ma mio zio lavora per gli Avenged e così-“
La bloccai, esterrefatta. “Cosa!? Tuo zio lavora per loro!? E me lo dici così!?”
(...) E mi ha dato due pass per il back.”
“COSA!?”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Baby don’t cry, you had my heart
 


 
 
CAPITOLO UNO - before.
Merda.
Io non volevo essere lì, a quella stramaledetta gara di nuoto a cui mi aveva portata Denise. Volevo essere a casa mia a suonare e perdermi in me stessa.
Un fischietto trillò e gli atleti si tuffarono. Denise andò in visibilio: “Eccolo! È lui” mi sussurrò eccitata all’orecchio indicando il ragazzo che si era tuffato dalla postazione numero tre.
“Non è stupendo?”
“A me sembra uguale agli altri, Deni.”
In più era per due terzi in acqua, perciò come potevo giudicarlo? Deni sbuffò sonoramente borbottando burbera qualcosa come “non le va mai bene niente” e tornò a fissare interessata la gara.
Dal canto mio, ero a disagio. Non sapevo cosa fare. I dieci atleti nuotavano fendendo l’acqua e i loro corpi scolpiti ogni tanto emergevano a pezzi: spalle larghe, fianchi stretti, gambe slanciate e secche.
Chiusi le mani a pugno sulle gambe, fissando a metà fra l’annoiato e l’incazzato i tatuaggi sulle dita. Su quelle della destra avevo tatuato la cifra “1997”, su quelle della sinistra la parola “ever”. Io volevo fare qualcosa di grande, anzi: molto più che grande! La vita era troppo breve per accontentarsi e solo compiendo azioni memorabili sarei vissuta per sempre – forever.
Un altro fischio rovinò la mia instabile tranquillità.
Denise si alzò e applaudì esuberante: “Vai Matthew! Grande!”.
Borbottai fra me. A volte avrei preferito fosse più introspettiva e chiusa, come me.
Mi osservò piena d’entusiasmo: “Allora? Bella gara eh? Ma Matt è troppo bravo e li ha battuti tutti! Lui è così talentuoso!”
Oh cazzo: era cotta a puntino di questo Matthew.
Le lanciai un’occhiata piena di ammonizione, mentre tutti gli spettatori si alzavano dalle tribune e si allontanavano.
“Attenta a non scottarti” dissi.
“Cosa?”
Denise era così felice per questo Matthew che non mi sentii di rovinarle la festa.
“Uhm, bravissimo però eh.”
Iniziò a parlare a vanvera. Mi sfuggì anche un sorriso e qualche commento poco acido, ma questo perché la mia mente si era già proiettata al momento in cui sarei uscita dal palazzetto e avrei pescato una Marlboro odorante di tabacco dai jeans, per poi fumarmela in santa pace.
Tastai la tasca dei jeans con quasi l’acquolina in bocca. Il pacchetto rettangolare mi invitava a fumare molto più che un’unica cicca, ma ci pensava ogni volta Denise a frenarmi. Quella ragazza che era una Santa.
La guardai con affetto quasi materno. Io e lei, una cosa sola, da quasi diciotto anni.
I suoi lunghi capelli scuri, li conoscevo più dei miei, li avevo snodati mille volte. I suoi piccoli occhi blu come l’oceano mi avevano guardata con amicizia e, alle volte, disprezzo, soprattutto mentre fumavo. Le sue labbra sottili mi avevano sorriso più di quanto fosse lecito e le sue mani mi avevano fatto tante di quelle volte il solletico o asciugato una lacrima...
Mi schioccò le dita davanti agli occhi. Sussultai: “Oh, eh?”
Alzò gli occhi al cielo. “Sei sempre così distratta, Alaska!” mi riprese mentre scendevamo l’ennesima gradinata. Io la seguivo, o mi sarei persa. “Ma mi ascoltavi o no?”
“Ehm... Io...”
“Okay, non ascoltavi.” Ridacchiò. “Dicevo che Matthew mi ha scritto. Vuole che andiamo a salutarlo.”
“Chi?”
“Matthew!” esclamò un po’ piccata Deni. “Quello che ha vinto, quello figo...”
“Ah” finsi di capire, lei non se la bevve ma accettò pazientemente il mio menefreghismo. Mentre camminavamo verso la zona adibita agli spogliatoi mi raccontò vita morte e miracoli di questo Matthew, di cui però non me ne fregava un emerito cazzo.
L’unica nota positiva in lui era il nome. Inutile spiegarne il perché, vero?
Denise mi raccontò che lo conosceva da anni e anni e che io e lui avevamo un sacco di cose in comune.
Mi fece l’occhiolino. “Magari vi piacete”.
Pff.” Non seppi dire altro. L’unica frase in cui potevano convivere il nome Alaska e il verbo amare era Alaska ama gli A7X. Solo quella. Non amo altro – no, neanche la Nutella – più di quei cinque scapestrati. La loro musica ha sconvolto la mia esistenza: prima ero una tipa da roba più commerciale, ero arrivata persino a Katy Perry – con tutto il rispetto verso lei e i suoi fan, ovviamente – con Dark horse; poi, un giorno, mi capitò di ascoltare Seize the day e da lì li avevo iniziati ad amare. Da loro, poi, ero passata agli Asking Alexandria, ai Bless the fall, agli I see stars e molte altre band metal. Ma loro erano gli unici, i migliori.
Mi passai la mano sul polso destro, dove avevo tatuato un perfetto deathbat, a dimostrazione di ciò che ero.
Un amaro sorriso mi si spiegò sulle labbra. A scuola ero quella strana, fuori posto, tatuata, incompresa... Eppure io non mi sentivo così. Il mio posto era con loro, con gli Avenged Sevenfold, a un loro concerto, fra la folla che urla “Se-ven-fold!” all’impazzata e le lacrime di felicità che annebbiano la vista.
Ancora un mese esatto, e sarei stata lì. Poco importava che ci sarei andata da sola, anzi: meglio.
Denise mi risvegliò dai miei pensieri bussando alla porta di uno spogliatoio, il numero tre. Eccoci dal caro Matthew, insomma.
Mi fece un grande sorriso di incoraggiamento, proprio mentre la porta si apriva.
“Matthew!”
Lei gli saltò al collo felice e gioiosa mentre io lo analizzavo.
Alto, altissimo in realtà, capelli a spazzola, sorriso perfetto di chi è nato così senza bisogno di apparecchi per i denti, occhi di un incredibile ciano e fisico compatto, coperto solo da una leggerissima T-shirt e dei bermuda militari.
Denise si complimentò con lui: “Bravissimo! Anche se non avevo dubbi!” sghignazzò.
Matthew la allontanò un po’ da sé per guardarla.
“Ehi, grazie Deni. Ma esageri sempre.”
Ultima aggiunta alla descrizione del ragazzo: voce strepitosa. Una perfetta voce da screaming. Cazzo. Che invidia!
Chiacchierarono fra loro per un po’, finché Matthew non mi notò, intenta a giocherellare con il pacchetto rosso e bianco delle sigarette. Gli si aprì un bellissimo sorriso sul volto e mi porse la mano: “Matthew” si presentò, come se non sapessi già chi era.
Un po’ a disagio, gliela strinsi.
“Alaska.”
“Wow, che bel nome” commentò, sempre con quel sorriso da urlo. Poi lo sguardo gli ricadde sulle nostre mani, ancora strette. Le mie, tatuate e pallide, contrastavano terribilmente con le sue, pulite e abbronzate.
Qualcosa sembrò colpirlo. Forse il tatuaggio 1997. O forse...
“Un deathbat. Siamo sulla stessa barca”.
Denise mi sorrise. “Sì. Anche a lei piacciono gli Avengers” esclamò tutta convinta, pensando di fare bella figura.
Io e Matthew ci scambiammo un’occhiata divertita, poi lui trovò il coraggio di contraddire Deni: “Si chiamano Avenged, Denise...” ridacchiò, mentre lei assumeva un colorito tendente al color pomodoro sulle gote. Mi sfuggì una risata.
Incrociai le dita delle mani fra loro e strinsi le labbra. Ero davvero in imbarazzo.
Matthew continuava a guardarmi, insistendo sui tatuaggi delle braccia e sui piercing che avevo sul viso – septum, central labret e nostril. Lanciò anche una veloce occhiata alla moltitudine di orecchini che mi ornavano le orecchie, e ai dilatatori da 0,7, ma non commentò. Forse non gli andavo così a genio, forse non gli sembravo più così appetibile, nonostante fossi una amante degli A7X. Questo perché lui sembrava proprio un bravo ragazzo, e io non ero esattamente una brava ragazza, almeno a primo acchito.
Denise ci salvò dal silenzio.
“Bene, io e Alaska stiamo andando a prendere un gelato, ti va di venire, Matt?”
Il suo viso si illuminò. “Volentieri, ho una fame! Recupero le Vans e arrivo...”
Si ritirò nello spogliatoio chiudendo la porta dietro di sé. Sarei voluta scappare.
La mia amica mi diede una gomitata.
“Beh? Che te ne pare?” ammiccò.
“Normale.”
“Normale? Ma se gli piacciono quelli là!”
Avenged Sevenfold. Cosa c’è di difficile nel dirlo?”
Arrossì. “Beh sai... Dopo prima... Comunque hai visto come ti guardava?”
“Sì. Come se fossi una drogata eroinomane.” Sbuffai.
Denise mi guardò male: “Ma che dici? Non è vero. Solo che bisogna conoscerti per fidarsi di te.” Mi spiegò.
“Cos’è? Un insulto?” ghignai rigirandomi una Marlboro fra le dita. “Perché, tu quanto ci hai messo a fidarti di me?”
Mi guardò dolce.
“Io? Dal primo secondo che ti ho vista, ti ho letto dentro. Tu hai una corazza, Alaska. Questi tatuaggi non vogliono far spavento, vogliono rendere più facile leggerti. E questo perché hai quei grandi occhi che dicono tanto ma non si capisce niente. Mi sei piaciuta da sempre, Ala.”
Il suo discorso mi turbò un po’.
Turbò nel senso buono, ovviamente.
Le diedi una spintarella, arrossendo. “Cazzo Deni. Devi fare la psicologa tu”.
“Eccomi”.
Matthew interruppe bruscamente il nostro momento di fraternità e, quando uscì con noi dal palazzetto verso la gelateria, non mi degnò di un’occhiata neanche per sbaglio.
Dal canto mio, mi fumai due Marlboro e la vita mi sembrò meno bastarda.
 
 
 
Una settimana più tardi.
 
Denise sonnecchiava sul mio letto mentre io ascoltavo musica con le cuffie a palla.
A little piece of Heaven mi rimbombava in testa, staccandomi da ogni altra cosa.
Mancava così poco al momento in cui l’avrei sentita dal vivo che mi batteva tremendamente forte il cuore.
Il mio sogno stava per realizzarsi, non me ne capacitavo.
Denise borbottò qualcosa nel sonno. Interessata, mi avvicinai a lei abbassando il volume della musica. Aveva gli occhi per metà aperti, ma dormiva. Glieli chiusi e lei sussultò, sussurrando: “Matthew ti amo.”
Mi tirai indietro come scottata. Avrei preferito non sentire niente, sarebbe stato meglio. Tornai alla scrivania riempiendo di foglio la scritta “You are so far away – but legends never die” riferita a Jimbo. Oh, Sullivan, lui sì che era una leggenda. Non sarebbe mai morto, in troppi lo amavano e stimavano ancora e, sebbene la ferita fosse ancora aperta e dolorosa, per la band non era un problema parlarne con i fan, ricordando assieme il miglior batterista della storia.
Denise si agitò sul letto.
“Matthew...”
Finsi che si riferisse al mio Matt, a Shadows, così da sentirmi meno schifata. L’altro Matthew, il nuotatore, mi dava i brividi. Non so per quale motivo, ma mi sembrava uno fuori posto, uno stronzo, un falso. Come poteva Deni amarlo?
“Ti amo... Non farmi male...”
Sussultai.
Cosa?
“Ti prego!” strillò piano lei, ancora dormendo, quasi non volesse farsi sentire. “Mi fai male!”
Iniziò a piangere dimenandosi e chiudendosi a riccio in posizione fetale.
La mia rabbia e l’ansia salirono alle stelle.
Mi pietrificai mentre le cuffiette ancora finivano di farmi sentire A little piece of Heaven, che mi sembrò la canzone più adatta a farmi incazzare ancora di più verso quel Matthew, come se lui e Deni fossero stati i protagonisti della canzone.
La mia amica tremava, così la coprii con un lenzuolo preso pulito dall’armadio. Le tremavano labbra e palpebre quando sibilò: “Non voglio farlo con te... Matt... No...”
Non capii subito, poi però, quando collegai, strinsi le mani a pugno. Presi fuori di me il cellulare di Deni e cercai senza ragionare il numero di Matthew.
Lo chiamai furente.
CHE CAZZO LE AVEVA FATTO.
Rispose al terzo squillo, la sua voce era impastata.
“Ehi, amore...” mormorò sonnolento.
Che fare? Fingermi Deni e scoprire di più oppure...
“Ehi bastardo. Non è il tuo amore Denise, sappilo. Appena scopro che minchia le hai fatto io ti denuncio! Ti smonto con le mie stesse mani Matthew, è una promessa!”
Riagganciai con gli occhi lucidi.
Denise tossicchiò. Si passò inconsciamente le mani sulle gambe fasciate dai jeans fermandosi all’apice delle cosce e iniziò a urlare, come se le stessero facendo il male peggiore della sua vita.
Il mio cuore scalpitò nel petto.
“Deni...”
Iniziai a piangere, svegliandola.
Mi guardò con gli occhi gonfi e rossi.
“Io...”
“Denise, dobbiamo parlare.”
 
 
L’aveva violentata.
Non ci potevo credere.
L’aveva violentata, e lei lo amava.
Me lo confermò chiaro e tondo: “Magari sono stata io poco disponibile... Lui non voleva trattarmi così... Io lo amo ancora...” facendo incazzare come una bestia.
Presi  cellulare, cuffie, sigarette e soldi e uscii da casa mia sbattendo tutte le porte. Mia mamma non commentò, non lo faceva mai da quando era morto papà.
Ascoltai gli A7X finché la testa mi rimbombò.
Non potevo crederci.
Denise era un’idiota.
Ora dovevo denunciare Matthew, ma ero senza prove e lei lo avrebbe protetto parandogli il culo. Non aveva possibilità di farcela.
Ancora tre settimane e sarai al tuo posto, fra le persone che ti capiscono, a cantare finché la tua gola non brucerà di sete e piangere dalla felicità finché non avrai più lacrime.
Manca poco.
Manca così poco.
 
 
 
NdA.
Okay, lo so che avevo già iniziato un’altra fanfic ma quando mi sono messa a scrivere non ce l’ho fatta a fermarmi ed eccomi qui!
Questo è il prologo, non è proprio un capitolo sugli A7X ma spiega com’è la vita di Alaska prima del concerto, e vi assicuro che dopo sarà molto diversa!
Che ve ne pare? Grazie per aver letto,
Lost_it_all

 
   
 
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