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Autore: La Figlia Della Luna    01/07/2014    3 recensioni
Valentina figlia di genitori italiani ma nata e vissuta a Tokyo,decide dopo le scuole superiori di trasferirsi a Gion in provincia di Kyoto, per diventare una Geisha. Valentina (Yurika || Seiyo-chan) é appena un'apprendista Maiko e la sua esperienza come aspirante Geiko, Geisha più esperta, non sarà semplice, costretta a seguire rigide regole nella casa da té della zona. Nonostante ciò all'apice della realizzazione del suo sogno, Valentina perde uno dei suoi genitori a Tokyo decidendo cosi' di tornarvi essendovi stata assente per due lunghi anni. Di lì si imbatte nei ricordi della sua vecchia vita da adolescente e, nella conoscenza di un musicista ventenne Thomas Kaulitz, in viaggio promozionale, nella capitale giapponese. in compagnia del suo gruppo musicale, i Tokio Hotel. Il giovane, metterà a dura prova le priorità esistenziali di Valentina, che presto influenzeranno anche le proprie, innamorandosi perdutamente di lei .
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Triangolo
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<<Ehi, Seiyo Chan!>> Mi sentii chiamare per il cortile della scuola. Una delle mie compagne di classe, mi corse incontro in preda all’affanno. Come me, aveva una divisa alla marinara dalla camicia bianca, dal cravattino e una gonna zigrinata, neri. Le volsi un mezzo sorriso:
<<Ciao>>
<< Hai visto i quadri? Promossa?>> Mi chiese, sistemandosi un calzerotto bianco, all’altezza del suo tallone destro. Non sapevo cosa mi desse fastidio in quel momento: che mi avesse posto la domanda sul mio andamento scolastico o che si improvvisasse equilibrista su una gamba sola.
 <<Bene, ho ricevuto anche la lode>> Le dissi. Portai le mie braccia dietro la schiena e lasciai che una brezza primaverile,  accarezzasse i miei capelli lunghi castani e giocasse con le pieghe della mia uniforme. In quel preciso istante, presi coscienza, che la mia carriera scolastica fosse definitivamente conclusa. Finalmente mi potevo liberare di quel soprannome: Seiyo Chan (l’occidentale). Dopo dodici ed estenuanti anni,  potevo dire addio alla mia emarginazione, vissuta con il “peso” di non essere una ragazza normale come tutti gli altri.
Già, perché non era consuetudine conoscere una ragazza giapponese che non avesse gli occhi a mandorla. Le mie origini autoctone erano ben diverse da quelle asiatiche. Concepita da genitori italiani, quindi europei, nata e cresciuta a Tokyo. Non potevo di certo pretendere ancora in grembo, che loro tornassero in Italia, per mettermi al mondo. Mamma e papà viaggiavano molto spesso. Se non altro, seminando residenze in ogni parte del globo, per via del loro lavoro da ricercatori. Basti pensare che,  si erano sposati in Africa, in una piccola comunità cristiana in Congo. Mi chiedevo sempre  se, invece di fare i ricercatori, non avessero tentato di lavorare per il National Geographic.  Erano stravaganti certo, ma genitori speciali. Avevano sempre sostenuto le mie scelte e nonostante i loro impegni, trovavano ogni volta un momento da trascorrere con la loro unica figlia, almeno, nelle occasioni più importanti.

Quando entrai nelle loro vite, furono così entusiasti che avrebbero abbandonato tutto ciò che avevano costruito per anni nella loro carriera, promettendosi di essere più sedentari per badare a me, la piccola Valentina. Così mi chiamarono. Forse per conservare quella piccola parte della nostra origine italiana, così lontana, così estranea. Per fortuna non avevo mai avuto l’ambizione di andare in Italia, perché il Giappone oltre ad essere la terra dove emisi il mio primo vagito, lo consideravo un mondo a sé stante. Un altro pianeta del sistema solare dove l’antico e il moderno convivevano in armonia. Che non avesse bisogno di altro se non della luce del sole e dell’acqua per la popolazione, la quale, viveva tra fantasia e realtà, presente e passato come se, non esistesse una linea di demarcazione che distinguesse tutto ciò.  E a me questo, affascinava davvero molto. Nonostante amassi il Giappone, aspetti negativi e positivi permettendo, avvertivo l’esigenza di ricercare qualcosa che lo riguardasse nel profondo. Qualcosa che mi facesse sentire parte della terra che calpestavo tutti i giorni per andare a scuola,  parte dell’aria che respiravo per le strade del centro di Tokyo. Così tornai a casa, tutto sommato contenta di aver concluso l’ultimo anno scolastico nel miglior modo possibile. Non mi rimaneva altro che decidere cosa fare della mia vita.  Quando varcai la soglia, sapevo già che i miei non erano in casa. Nonostante avessero posto dei limiti sul lavoro, un viaggio mensile o ritirarsi fino a tardi, capitava se ciò fosse stato più  che necessario. Ma mai quanto sapere come sarebbe andata la mia giornata anche se erano assenti, o lontani chilometri. Mi sedetti sul divano ancora in divisa e attesi una loro telefonata:

<<Pronto?>> Portai la cornetta al mio orecchio.
<<Tesoro, sono la mamma. Come stai?>> Mi chiese. La linea era leggermente disturbata.
<< Bene, sono appena tornata da scuola. Ho preso il massimo>> La informai modesta, cercando di sfilarmi il cravattino nero, annodato al collo.
<<Amore, è fantastico! Io e tuo padre siamo fieri di te>> Ci fu per un attimo, un fruscio di sottofondo che non mi permise di risponderle all’istante, ma lei proseguì il discorso, come se nulla non fosse accaduto:
<<Domani quando torniamo, dobbiamo festeggiare a dovere. Momoka è lì con te?>>  Momoka. La mia “Tata” se così la volessimo definire. Una signora bassa di mezza età, che i miei genitori avevano assunto per accudirmi nei giorni della loro  assenza. Una donna riservata e di vecchio stampo, ma una gran lavoratrice capace di consigliarti saggiamente.
<<Non l’ho trovata quando sono rientrata. Starà a momenti per venire…>> Dissi. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra che dava sul vialetto. Mentre mia madre continuava a conversare, scostai le tendine di merletto bianco dal vetro: a parte qualche vettura che rincasava più avanti, nessuno era per strada. D’altronde l’orologio a pendolo nel salotto, rintoccava l’ora di pranzo. Finché non vidi Momoka fare capolino dietro l’angolo, portando due buste di carta piene della spesa:
<<… E’ proprio qui adesso, vado alla porta>> Avvisai in fretta mia madre alla cornetta:
<<Ci vediamo domani allora, fate buon viaggio>>
<<Grazie cucciolo, mi raccomando fa la brava>> Disse sollevata. La rassicurai e riattaccai.


芸者

 <<Momoka, questo Ramen è stato davvero delizioso!>> Esclamai entusiasta. Bevvi un ultimo sorso di brodo di pollo e mi ripulii le labbra, con una espressione soddisfatta.
<<Sono contenta che le sia piaciuto, signorina Valentina>> La donna si accinse subito a prendere un’altra porzione: <<Ne vuole un altro poco?>> Posai le bacchette che avevo usato per mangiare alla mia destra e, le chiesi se potevo alzarmi da tavola:
<<No, grazie. Sono apposto. Credo che fra un po’ andrò a correre per i giardinetti>> Le dissi:
<<Tornerò in tempo per il Sakè, vorrebbe farmi compagnia?>> Chiesi ancora per semplice cortesia. Ma lei sapeva bene che, fare attività fisica era estremamente importante, per me. Un’occasione che mi permettesse di riflettere su qualsiasi cosa. Momoka credeva che fosse una cosa positiva e non voleva per principio, disturbare il mio flusso di pensieri:
<<Gentile da parte sua, mia cara. L’aspetterò qui non si preoccupi, l’importante che sia puntuale>> Mi avvertì abbassando leggermente gli occhiali sul naso: <<Grazie lo stesso>>. Sorrise e il mio cuore si sciolse:
<accordo, ci vediamo più tardi>> L’abbracciai alle sue spalle e le schioccai un bacio sulla guancia.
Mi diressi in camera per organizzarmi. In meno di venti minuti fui pronta per correre all’aperto.

芸者

Correvo parallela alla staccionata che separava il parco del mio quartiere dalla strada asfaltata. Improvvisando un salto in lungo, scavalcai da un anfratto poco prima dell’entrata, proseguendo la corsa fino alle altalene. Il posto non era molto affollato: c’erano anziane signore sedute ad una panchina che chiacchieravano concitate,  una madre che disinfettava il ginocchio sbucciato del suo bambino con l’acqua della fontana e due innamorati seduti sul prato, che si accarezzavano il viso l’una con l’altra. Correvo e a farmi compagnia erano soltanto la terra sotto i piedi e la musica. Questa, liberava un motivetto da un I-pod, che agganciai a mo di spilla, sulla felpa della tuta che avevo indosso. Era incredibile di quanta vita potesse scorrermi davanti agli occhi, correndo. Fantasticavo nella mia testa,  su cosa pensavano ognuna di loro, dovunque si trovassero o cosa avessero trascorso prima di venire al parco. Quali erano i loro progetti, come sarebbe stato il loro futuro. Tutto. Come in un film del cinema muto con più protagonisti, nel quale tu eri semplicemente una comparsa indisturbata o uno spettatore, che interpretava i loro gesti.

Feci un altro giro per poi imboccare l’uscita del parco, ansiosa di poter tornare e farmi una doccia. Mentre proseguivo lentamente la strada di casa, una ragazza con indosso un kimono a fiori, mi sfiorò una spalla.  Non potei non essere attratta da quel capo di abbigliamento. Mi voltai e lo inquadrai meglio da dietro: la ragazza, portava con sé un ombrellino rosa pallido posato con grazia sul suo polso sinistro, per il manico. Il kimono aveva più o meno lo stesso colore ma, ovunque posassi lo sguardo dall’alto verso il basso, era tutto ornato di fiori di un violetto vivace che, sotto la luce del sole pomeridiano, davano tutta l’aria che sbocciassero. Infine alla vita, risaltava una fascia doppia e resistente di colore bianco annodato ad arte, con dei riporti dorati. Non so cosa mi prese esattamente, ma l’istinto mi diceva di seguire quella ragazza così elegante e raffinata. Rimasi così ammaliata da quel kimono, da dimenticare che ero in ritardo per l’ora del sakè con Momoka.

芸者

Mancavano dodici ore all’arrivo dei miei genitori dal viaggio di lavoro mensile. Mi alzai molto presto la mattina, non perché fosse mia abitudine, ma non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte, pensando alla ragazza del kimono. Prima che prendessi coscienza del fatto, che non avrei potuto essere di ritorno a casa in tempo da Momoka, come accadde, ebbi l’impulso di pedinare la sconosciuta. Non avevo un motivo valido per farlo. Se fosse stato solo per un kimono, mi convinsi che era davvero paradossale, in quanto fosse la vera causa istintiva. Ma ebbi la netta sensazione che la mia curiosità andasse ben oltre la ragazza e il kimono che indossava. La seguii vedendola passeggiare lungo la strada con una tale compostezza, che mi sorprese. Mi chiesi nel contempo, come facesse a camminare su degli zoccoli di legno, così scomodi. Poi, la vidi fermarsi davanti a quello che inizialmente sembrava ai miei occhi, un negozio di crepes. Invece no. Una casa da tè. Allora capii: la ragazza che stavo pedinando non era una persona qualunque, ma una Geisha. Mi avvicinai alla piccola e accogliente struttura in legno, dal tetto semi-spiovente, dai tendaggi e le lanterne appese appena sul soffitto del portico. Sentii delle voci provenire dall’interno e una musica leggera, soffusa di sottofondo, che alimentava sempre di più la mia curiosità. Fui fortunata, nel trovare la porta principale della casa socchiusa. Un piccolo spiraglio, mi diede la possibilità di spiare all’interno:
erano tutte ragazzine, qualcuna forse doveva avere l’età superiore alla mia. Ognuna di loro, danzava lenta e con  regime a ritmo di musica,  portando alla mano destra, un ventaglio che aprivano e richiudevano in un modo a dir poco sublime. Con loro vi era un’insegnante che ordinava i passi da compiere. Come lei, le presenti in quella stanza avevano un kimono, uno diverso dall’altro ma dai colori piuttosto sgargianti. I movimenti delle danzatrici, sembravano simulare un enorme arcobaleno, che tagliava in maniera arcuata il cielo azzurro. Rimasi ad osservarle di nascosto per diversi minuti, senza ritrovare fra di loro la ragazza dal kimono rosa che avevo inseguito.

Momoka rimase molto delusa, quando mi vide tornare a casa quasi un’ora dopo il tempo che avremo potuto dedicare al Sakè. E la donna poverina, si preoccupava del perché avessi fatto così tardi. Cercai di giustificarmi ma non le dissi cosa mi accadde davvero. Momoka mi scrutò però non fece obbiezioni.
Continuavo a riflettere su tutti gli avvenimenti, con la speranza di ritrovare Momoka in cucina, per chiarire le cose che lasciai a metà il giorno prima, ma non c’era. Scorsi però, un biglietto attaccato al frigorifero dove mi scrisse che sarebbe arrivata un poco prima dell’ora di cena, per preparare qualcosa di speciale, per il ritorno dei miei genitori. Ma soprattutto che mi avrebbe perdonato. Mi sentii sollevata e sorrisi. Avevo mezza giornata a disposizione da passare da sola  . Cosa potevo fare? A parte mangiare cibo in scatola per pranzo,  decisi di fare una ricerca. Un’azione che mi portò non pochi cambiamenti nella mia vita. Non immaginavo che, la ragazza del kimono e un semplice click sul motore di ricerca,  sarebbero stati per me, l’inizio di un’esistenza completamente diversa. Un’ esistenza fuori dal comune e dal tempo, che ero destinata a vivere.

芸者

Quando volli parlare ai miei di voler fare la Geisha, non la presero molto bene:
<<Perché, figlia mia?>> Chiese mio padre, strofinandosi le tempie allucinato.
<<Credo che sia una figura ragguardevole, tradizionale…>> Cercai di spiegarmi come meglio potei per convincerli a pagarmi una scuola per imparare l’arte della musica, della bellezza e l’educazione millenaria del mio paese: <<Ho bisogno di sperimentare qualcosa, che mi faccia sentire parte del luogo in cui vivo>>
<<Puoi sempre viaggiare, tesoro>> Mia madre tentava di farmi cambiare idea. I suoi occhi esprimevano disagio: << Avrai comunque modo, di trovare un posto al quale appartieni. E’ normale che tu abbia delle incertezze,  che sei in cerca delle risposte alle tue domande>> Mi prese le mani per tenerle fra le sue ma, abbassai lo sguardo e lentamente le sfilai al suo tocco dolce e delicato.

- Mamma …Forse non avete capito, un posto l’ho già trovato -

Mi imposi poggiando i gomiti sul tavolo, intorno al quale ero seduta con loro in cucina.
<Preferirei che andassi in Italia a studiare all’università, piuttosto che trovarti rinchiusa come una perpetua, all’interno di una casa da tè!>> Disse mio padre alterandosi: <<Avresti uno scopo nella vita!>>.
Mi alzai di scatto dalla sedia livida di rabbia:
<Mi spieghi perché siamo finiti in Giappone?! Fin’ora, tutto quello per cui ho vissuto è stato dettato solo ed esclusivamente dalle vostre scelte. Ho il sacrosanto diritto di decidere per una volta, cosa ho intenzione di fare della mia esistenza? Me l’avete mai chiesto?>> Sbuffai e presi fiato. Guardai mia madre terrorizzarsi alla discussione animata con mio padre, il quale blaterava concetti filosofici di libertà e indipendenza. Come se non sapesse che quello che cercavo, fosse proprio lo spirito che animava entrambe le cose. Avevo messo sul tavolo una delle ricerche che avevo fatto, per informarmi sul ruolo etico e culturale della Geisha. Afferrai tutto il materiale e lo piazzai fra le mani di mio padre con tutta la violenza che ebbi in corpo. Egli non gesticolò e mi guardò stralunato, mentre mia madre trattenne il respiro, temendo il peggio della situazione che si era creata:
<<Valentina…>> Soffiò tremula.
<<Leggi e comprendi di cosa sto parlando>> Dissi esausta: <<Mi dispiace, forse non sarà quello che ti aspettavi per la sistemazione della  tua unica figlia, ma sono convita che te ne farai una ragione. Spero che un giorno mi perdonerai, per aver fatto una scelta>>. Infine, diedi un’altra rapida occhiata a mia madre rimasta senza parole e con amarezza mi rifugiai in camera.


   
 
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