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Autore: ScarsOpen    01/07/2014    6 recensioni
E se la seduta di John Watson non fosse iniziata dal momento in cui è arrivato Moriarty? Se prima ci fosse stato un altro particolare, che però è stato omesso? Le giornate a Baskerville sono veramente l'intera storia di quel viaggio per risolvere un mistero? Forse sì, forse no. Magari in quei giorni ed in quelle notti ci sono più emozioni di quanto si possa immaginare.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Sinceramente non so mai cosa scrivere nella parte poco prima della storia, quindi mi limiterò a poco:
Per evitare incomprensioni, volevo farvi sapere che questa storia prende in questione il secondo ed il terzo episodio della seconda stagione, soprattutto il secondo, come se fossero entrambi raccontati durante la seduta di John all'inizio della terza puntata. Le parti in grassetto sono "il presente", quelle scritte ovviamente all'indicativo presente e che descrivono ciò che succede al momento, durante la seduta. Quelle normali sono le parti che John racconta, quelle avvenute in passato. Detto questo, ringrazio coloro che hanno fangirlato hard con me guardando la serie tv e che mi hanno aiutata a scrivere questa fanfiction- anche se inizialmente sarebbe dovuta essere una rating rosso e le ho tradite all'ultimo per poca voglia di scrivere la parte erotica. E se io non ho voglia scrivo veramente male, quindi ecco, ho preferito non farla, gn (e anche perchè è la prima Johnlock che scrivo, quindi non sapevo se fossi pronta sul serio lol) ç3ç. Spero che la storia vi piaccia e che lascerete delle recensioni (VI PREGO FATELO ç_________ç), ora vi lascio alla lettura. Il titolo è una frase di una canzone dei Linkin Park (volevo dirlo perchè bo, sì). Ciao ciao C:

Desclaimer: questi personaggi non sono miei e non sono stati presi a scopo di lucro e nonmiricordopiùcosaltromavabbeciao.

ScarsOpen

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When the lights go out and we open our eyes, out the in the silence, I'll be gone.


 - "Perchè si trova qui, signor Watson?"

- "Sh-Sher..."

Un momento di silenzio, un solo istante in cui il dottore si vede passare davanti agli occhi tutte le parole che può dire, insieme a tutte quelle che non dovrebbe neanche pensare.
I propri occhi puntati a terra, mentre sente lo sguardo indecifrabile della psicologa pesargli addosso, in attesa  di un completamento alla frase lasciata in sospeso.

Ed ecco che arrivano, allora: le parole giuste -ma neanche poi tanto- sono proprio sulla punta della sua lingua, pronte ad uscire fredde  e pungenti. Ma il tremolìo con cui vengono pronunciate, quella sottile nota di stupore, come se colui che le pronuncia sperasse che non siano veritiere ed il volume della voce che si abbassa sensibilmente, fanno  capire quanto, in realtà, John Watson sia spaventato anche solo al pensiero di dirle.

- "..Il mio migliore amico, Sherlock Holmes...è morto."

Nessuna emozione da parte dell'altra persona, come se la cosa non la toccasse minimamente, come se la morte del grande detective, salvatore di molte vite e risolutore di decine di misteri, non le facesse scaturire nemmeno la più banale delle emozioni.

- "Vuole raccontarmi com'è iniziato tutto?"

E lui inizia a raccontare.
Forse da "un po' troppo tempo prima dell'accaduto", come fa notare la donna, ma lui continua imperterrito, senza rispondere alla sua affermazione, iniziando dal luogo più importante fra tutti quelli che ha condiviso con Sherlock: Barskerville.



Erano appena arrivati nella località, dopo essere venuti a sapere da Henry delle "enormi impronte di mastino", come aveva detto il ragazzo.
John ancora non aveva ben capito il motivo della loro presenza in quel posto, dato che, fino a pochi secondi prima di accettare il caso, l'amico aveva espressamente definito quel mistero "noioso". Ma, daltronde, da Sherlock Holmes ci si sarebbe potuto aspettare di tutto, quindi perchè rimuginare su una scelta cambiata all'improvviso? Di certo lui non ne aveva nè tempo nè voglia, quindi lasciò perdere. 

Si erano poi diretti verso la locanda dove avrebbero alloggiato e, nel tragitto, poterono notare quanto quel luogo sfruttasse la pubblicità, bella o brutta che fosse, che la creatura gli faceva: cartelli con l'immagine di un grosso cane nero affissi ai muri, turisti con tanto di guida che girovagavano per il luogo, interessati come un bambino che entra per la prima volta in un Luna Park. Tutto ciò provocava in loro una strana sensazione, facendogli pensare che, forse, i residenti in quella cittadina non volessero che il caso, che tanto faceva impazzire Henry, venisse risolto. Ma ormai l'avevano accettato.


-"Sherlock. Sherlock l'aveva accettato, non io."-, si affretta a sottolineare lui, prima di continuare.


Entrati nella suddetta locanda, un posto abbastanza fatiscente, ma tuttavia accogliente nel complesso, avevano chiesto gentilmente una stanza dove stare, ricevendo in cambio, oltre alla chiave, un paio di ammicamenti da parte dell'uomo dietro al bancone, il quale aveva rifilato loro una matrimoniale usando la scusa -a detta del detective- di aver terminato le doppie.


-"E così avete litigato?", lo interrompe la psicologa prima che lui possa dire altro.

-"Come, scusi?"

-"Avete litigato per questa stanza? Non so, magari un motivo stupido come chi deve dormire nella parte sinistra del letto."

All'atro scappa una risata, come se lei avesse veramente detto la cosa più stupida ed impensabile sulla faccia della terra. Si ferma un po' a guardare il pavimento ricoperto dalla moquette, notando anche un paio di macchie di caffè che sembrano ancora piuttosto fresche.

-"No, affatto.  Sherlock non è-

Si interrompe. Nei suoi occhi una luce dorata, una fitta al cuore, la sensazione dello stomaco che si restringe e una voce in testa  che lo informa di aver sbagliato tempo verbale. 

-...non era una persona con cui si litigava. Con lui non lo si poteva fare. Era Sherlok Holmes, nessuno ha mai dubitato del fatto che, chiunque si fosse buttato in una discussione con lui, avrebbe perso tempo tre frasi. Io e lui alzavamo la voce, arrivavamo ad urlarci addosso, ma non era mai un litigio, benchè lo sembrasse. Io sapevo fin dall'inizio di ogni discorso che lui avrebbe avuto l'ultima parola."

-"E cos'è successo, allora?"

Un momento di silenzio, forse in cui l'uomo soppesa le parole da usare, tamburellando ritmicamente il bastone a terra, provocando quel rumore di schianto ovattato dalla moquette.

-"Io e lui ci siamo sempre detti cose piuttosto pesanti, durante i nostri 'litigi'. Cose che non pensavamo affatto. Daltronde, quando si è arrabbiati, lo si fa spesso. Ma quella sera...in quella sera lui ha detto quella frase."

Una spiegazione un po' contorta, per un dottore. Probabilmente la vicinanza al detective per così tanto tempo gli ha procurato la stessa scarsa capacità di essere chiaro e conciso.

-"Quale frase?", domanda l'altra, chiedendosi se mai riuscirà a fargli raggiugere il nocciolo della questione.

E allora lui ricomincia dall'esatto punto in cui si era fermato, senza saltare i particolari ritenuti, da lui, importanti.



Tornati dal bosco dove Henry giurava di aver visto per l'ennesima volta il famoso mastino, ma senza l'appoggio di Sherlock, che ammetteva il contrario, c'era qualcosa di strano in quest ultimo. Qualcosa che solitamente non c'era: un'emozione, un pensiero, un taglio di capelli differente o un cappotto diverso, John non lo capiva. Ed è tutto dire, se si parla dell'uomo più strano di tutti i tempi. Per questo, la sera stessa, si era seduto sulla poltrona accanto alla sua, davanti al caminetto della sala da pranzo della locanda: voleva capire, tramite delle semplici domande e affermazioni, ciò che rendeva il detective così dannatamente diverso.
Pensava di potersi fidare ciecamente di ciò che l'altro gli aveva detto, ovvero di non aver visto la creatura, per questo continuava a parlarne: "Se non l'hai visto non abbiamo niente da fare", "Si saranno inventati la storia per attirare attenzione", "Henry avrà subito un trauma e allora dice di vederlo quando non è così", "Nemmeno io l'ho visto, quindi...". Continuava e continuava, ne parlava e riparlava, faceva domande a cui il moro non rispondeva ed esponeva affermazioni che solo lui ascoltava, spostando lo sguardo da Sherlock, ai ciocchi infuocati che emettevano quel crepitio rilassante all'interno del camino, al resto della gente che cenava, chiacchierava, discuteva, interloquiva, rideva e scherzava senza badare a loro due. Non faceva altro che ripetere le stesse cose usando solo parole diverse, fino a quando l'altro non ha risposto , mettendolo a tacere- o almeno l'intenzione era quella.

-"Io l'ho visto, John."

Nessuna risposta immediata da parte del biondo, il quale si era bloccato a fissarlo, incredulo e, probabilmente, spaventato.
Come "L'ho visto"? Non poteva essere, insomma: Sherlock Holmes, uomo amante della verità più pura, colui che probabilmente provava persino un'eccitazione sessuale nel far sapere al mondo quanto avesse avuto ragione nell'accettare un determinato mistero...che mentiva facendo credere a tutti di essersi sbagliato? Certamente una cosa del genere sarebbe potuta accadere solo il giorno in cui l'inferno si fosse gelato. E se in quel momento Satana fosse coperto da un cappotto proprio come quello di Sherlock per proteggersi dal freddo che divora l'inferno?

-"Co-come l'hai visto? Non può essere, hai detto che non lo hai fatto!"

-"Ho mentito, John. Io l'ho visto, ho visto un grande cane nero con gli occhi rossi che si avvicinava."

-"Ma non è possibile!"

Ed è da lì che hanno iniziato a discutere. Una discussione piuttosto accesa, ma che, fortunatamente, non ha attirato l'attenzione degli altri. Il dottore cercava di convincere il detective che non poteva aver visto il mastino e il detective cercava di convincere il dottore che l'aveva visto eccome. Un circolo vizioso, ognuno dei due ripeteva ciò in cui credeva fermamente: il moro tornava a mostrare le proprie capacità deduttive parlando di un uomo seduto ad un tavolo vicino a loro, descrivendo la sua vita, le intenzioni della serata e i pensieri di quest ultimo come se lo conoscesse da una vita  e gli avesse parlato per l'ennesima volta pochi minuti prima, mentre il biondo cercava di farlo smettere invano. Era spesso così con loro: Sherlock cercava di dimostrare cose di cui tutto il mondo era consapevole e John cercava di fermarlo e di fargli capire inutilmente che non ce n'era bisogno, poichè tutti sapevano chi lui fosse e quanto fosse intelligente e qualsiasi altro aggettivo gli potesse passare per la testa.
Parlavano e parlavano, probabilmente senza riprendere fiato e senza badare a ciò che li circondava, fino a quando non è arrivata una frase, una semplicissima frase detta da Holmes, che però ha fermato tutto:

-"Io non ho amici."

Pochi attimi hanno diviso quelle quattro parole dalle tre pronunciate da Watson prima di andarsene:

-"Chissà come mai."

Dopodichè si era alzato ed era andato di corsa nella camera, pieno di rabbia e di frustrazione che gli bruciavano in corpo come durante un incendio, chiedendosi per quale motivo continuasse a seguire quello stupido detective ovunque egli andasse, nonostante quest ultimo continuasse a trattarlo in quel modo, nonostante tutte le definizioni poco simpatiche, i favori senza ringraziamenti e spesso anche senza spiegazioni, tutte le volte in cui c'era stato per Sherlock e a lui sembrava importare solo di risolvere i propri casi e delle proprie elucubrazioni mentali più che contorte.
Insieme a tutte queste cose che gli passavano per la testa si era andato a sdraiare sul letto, nella parte destra, ovvero quella imposta dall'altro uomo. Già, perchè non avevano minimamente parlato per prendere una decisione, tutto era stato imposto fin dall'inizio, perchè a Sherlock Holmes non è mai interessato ciò che vogliono gli altri, lui è sempre arrivato e ha sempre preso tutto ciò che pensava gli potesse servire a qualcosa.
E quindi John Watson si era ritrovato da solo, nella camera di una locanda di una città sperduta chissà dove fra i campi, a pensare a ripensare alla suddetta frase pronunciata dal compagno di stanza.

Perchè "Io non ho amici"? Allora tutto quello che aveva fatto per lui in quegli anni non aveva il minimo peso? Tutti i casi risolti fondamentalmente insieme, tutte le volte in cui per chiedere aiuto uno dei due aveva chiamato l'altro, tutto quello che avevano passato? Nessuna di queste cose li aveva resi come minimo amici?


Con questi pensieri passavano i secondi, con i secondi i minuti e con i minuti le ore, fino a quando, a tarda notte, la porta non si era aperta rivelando una figura alta e magra, dai capelli corvini e coperta dal solito cappotto scuro. Questa ormai fin troppo conosciuta sagoma si era fatta strada all'interno della stanza buia, fino ad avvicinarsi al corpo sdraiato del dottore per parlare con la solita voce atona e senza il minimo sentimento.

-"John? John, sei sveglio?"

Il diretto interessato si era chiesto più volte se avrebbe fatto bene a rispondere, o se sarebbe stato meglio se avesse finto di dormire. La parte sincera e dolce dell'uomo alla fine non potè fare altro che vincere, facendogli rispondere con una nota di sarcasmo nella voce.

-"Non lo sarei stato ancora per molto, se non mi avessi parlato. Cosa vuoi?"

-"Io volevo, ehm...chiederti scusa per prima. Mi ero fatto prendere dal panico, non mi è mai capitato di provare il senso del dubbio e tu sai quanto una sensazione nuova può farmi saltare i nervi."

Ma quelle parole suonavano vuote e fredde alle orecchie di chiunque potesse ascoltarle, dette solo per il gusto di non doversi far perdonare più di tanto, pronunciate per il semplice motivo che sarebbero dovuti stare insieme ancora per giorni prima di risolvere quel caso, quindi meglio passarli senza troppi pesi sulle spalle, no?

-"E' inutile, Sherlock. Va a dormire."

Per l'altro non era prevedibile una risposta simile. Certo, si trattava del detective privato più famoso di tutto il Regno Unito, ma era pur sempre un uomo, tra l'altro uno poco esperto di relazioni umane e vita sociale. Passi il sapere la vita di una persona guardandola per pochissimo tempo, ma quando si trattava di cose relativamente semplici come chiedere scusa, lui si sentiva come un pesce fuor d'acqua.
Per questo, dopo aver ricevuto quella risposta, si era allontanato dal letto battendo a terra il piede destro a terra, in segno di disapprovazione ed anche di un po' di stress.

-"Come 'è inutile'? Sai quanto sia difficile per me chiedere scusa quando non dovrei farlo, cosa dovrei dire o fare per farti capire che mi dispiace?!"

Ecco, l'aveva detto. Per di più con un tono che sembrava voler dire "Perchè non ti accontenti che la grande ed onniscente divinità che è in me abbia chiesto scusa ad un umile plebeo come te?". Ormai tutto l'universo era consapevole dell'inadeguatezza di quell'uomo riguardo a tre cose: l'affetto, i complimenti e le scuse e di certo nessuno sarebbe mai stato in procinto di provare il contrario.
E così, spremendo le ultime forze che gli rimanevano fuori dai muscoli, il biondo si era messo a sedere sul bordo del letto ed aveva alzato lo sguardo verso l'altro, che ancora lo fissava attendendo una risposta e l'aveva guardato con tranquillità, umettandosi le labbra e parlando con una voce bassa, quasi un sussurro, ma pur sempre calma e priva di qualsiasi genere di nervosismo, come se stesse per dire la cosa più normale, banale e comune di tutto il mondo.

-"Baciami."

Poi silenzio. Non una risata, non una parola in più, non un cambiamento di idea e non un minimo cenno di pentimento per quella richiesta. Tutto questo faceva quasi impazzire l'altro, che non capiva il perchè di quella frase. E il non capire perchè era probabilmente peggio che non volerlo fare.

-"Co-come scusa? Spero tu stia scherzando!" aveva esclamato, ma il suo viso comunemente pallido non aveva assunto alcun tipo di colore
e nei suoi occhi non si leggeva nessun cedimento alla fortezza mentale che gli aveva sempre permesso di rimanere impassibile a qualsiasi cosa e questi aspetti facevano capire che l'incredulità che egli mostrava erano, in maggior parte, frutto della sua grande capacità nel recitare. Forse a stare sempre con lui qualcosa in fatto di deduzioni l'aveva imparato, il signor Watson.

Questo, dopo aver sentito la domanda falsamente esasperata del compagno di camera, si era alzato premendo le mani sulle ginocchia e tirandosi su per potergli stare di fronte, nonostante la diversità di altezze, per poi continuare a parlare, guardandolo dritto nelle iridi brillanti, che contrastavano col buio della stanza, usando lo stesso tono calmo ed allo stesso tempo intimidatorio dell'altro quando doveva incastrare qualcuno. Per la prima volta- e forse anche l'ultima-, quello ad avere il controllo della situazione era lui.

-"Hai capito bene, Sherlock. Hai detto di non avere amici, no? Quindi io e te non lo siamo. Eppure ogni volta chiami solo me, ogni volta chiedi qualsiasi cosa a me, ogni volta si tratta sempre e solo di Holmes e Watson. Quindi, se non siamo amici, qualcosa dovremmo pur essere. Perciò o mi abbracci, o mi baci. Non hai scelta, non questa volta."

E si vedeva che non scherzava, si vedeva che non aveva la minima intenzione di scoppiare in una fragorosa risata alla John Hamish Watson, si vedeva che era maledettamente serio. E tutta quella serietà e determinazione erano completamente nuove all'altro, che ancora se ne stava avvolto nel proprio cappotto ed osservava l' "amico-o-qualcosa-in-più" con i soliti occhi indecifrabili, ma che in quel momento avevano un nonsochè di diverso, una piccola luce di pura anarchia che probabilmente gli stava dicendo "Fa qualcosa, anche una cosa stupida, ma falla. Ora o mai più". Ma probabilmente era solo il biondo a notarla.

Eppure il corpo magro e slanciato dell'altro si era avvicinato terribilmente, la stanza buia improvvisamente era diventata ancora più tale -per quanto fosse possibile- e loro due non erano mai stati tanto vicini. Stavano uno di fronte all'altro come due pilastri che reggono imperterriti lo stesso tempio da anni e non minacciano di crollare, a guardare ognuno nelle iridi di quello di fronte, come per chiedere un permesso o una risposta. Il più alto si era anche chinato leggermente, per raggiungere la stessa altezza del viso del compagno di stanza. Si era chinato e gli aveva fissato prima i capelli arruffati -probabilmente a causa del contatto prolungato con il cuscino-, poi le pupille dilatate -emozione? Bisogno di luce? Non si capiva-, poi le labbra ed, infine, le mani strette a pugno, che l'uomo di fronte a sè tentava di nascondere tenendo le braccia dritte lungo il corpo, nascondendole un po' dietro la schiena. Aveva poi alzato una delle mani magre e affusolate, portandogliela al viso, prima accarezzandolo in una maniera quasi impercettibile, poi posandogliela dietro al collo, fra i capelli color del grano. L'aveva tirato lentamente verso di se per rendere la distanza dei due volti sempre minore, gli aveva praticamente sussurrato qualcosa a fior di labbra, qualcosa che probabilmente nessuno dei due capì, tanto a bassa voce era stato detto.
L'intenzione era quella di azzerare la distanza, renderla inesistente.
E ci sarebbe anche riuscito, il moro, se solo non avessero bussato alla porta, costringendolo a staccarsi molto velocemente, facendogli emettere un ringhio di disapprovazione e lasciandolo con una sensazione di imbarazzo e disagio a divorargli il cervello.

-"Servizio in camera. Ai signori serve qualcosa?"

-"No, no. Non ci serve niente. Grazie lo stesso.", si era affrettato a rispondere il dottore, per poi voltarsi di nuovo verso il detective senza però trovarlo dov'era prima, bensì seduto su una poltrona all'angolo della stanza, a fumare una sigaretta -ma lì non era vietato fumare?- ed a comportarsi come se niente fosse successo, o come se niente fosse stato in procinto di accadere.

-"Ehm...allora? Non hai niente da dire?"

Il moro lo guardò perplesso, probabilmente pensando qualcosa tipo "Io? Cosa centro io?".

-"Allora cosa? Non c'è motivo di interloquire adesso, John. Andiamo a dormire, domani avremo da fare."

Poi aveva tentato di alzarsi. Ci aveva provato mantenendo i nervi saldi, cercando di farlo nella maniera più naturale possibile, cosa non impossibile per quel gran genio della finzione che era Sherlock Holmes. Ma ovviamente, se l'altro era stato capace di farsi ascoltare con le maniere forti prima, come si poteva anche solo pensare che non ci sarebbe riuscito adesso che aveva una conferma di tutto?

-"No, noi ora non andiamo da nessuna parte! Vuoi liquidare tutto così, come fai sempre? Vuoi far finta che non sia successo assolutamente
nulla?"

-"Cosa intendi, John? Non 'faccio finta che non sia successo niente' per il semplice motivo che non è successo veramente niente!"

-"Ma non prendermi in giro!" aveva esclamato con la voce fin troppo alta, prima di posizionarsi di fronte a lui, indicandolo com'era solito fare quando voleva sottolineare che qualcuno aveva fatto qualcosa, poi aveva continuato a parlare guardandolo dritto negli occhi, senza abbassare lo sguardo e, stranamente, senza il minimo timore di quello che avrebbe risposto il moro.

-"Tu stavi per baciarmi. Non stavi per dire qualcosa di inerente al caso, non stavi per fare una delle tue battute antipatiche, non stavi per fare niente che non fosse baciare me."

L'altro si era sentito improvvisamente spogliato di qualsiasi velo di mistero, più nudo che sotto la doccia, più in trappola che con una pistola puntata alla tempia.

-"Co-cosa?! Come fai a dirlo, non è per niente vero! Non stavo per baciarti, io stavo per...per..."

Per la prima volta non ha saputo dare una risposta in tempo. Si era bloccato in cerca di una scusa adatta, ma persino il suo cervello da super deduttore poteva trovare difficile nascondere la verità. Perciò non si era trovato preparato quando l'uomo ancora in piedi si era piegato su di lui, poggiando le braccia sugli stessi della poltrona, per impedirgli di andarsene e costringendolo a guardarlo dritto in faccia.

-"Cosa? Cosa stavi per fare? Ti conviene muoverti a dirlo, perchè sto per concludere quello che secondo me stava per accadere."

Nessuna risposta. Solo un boccheggiamento silenzioso da parte dell'altro, il quale probabilmente non sapeva come reagire, gli occhi un po' più aperti del solito come se non stesse capendo cosa stava succedendo e giusto il tempo di stringere la presa sulla stoffa ruvida della poltrona dove era seduto, prima di trovarsi le labbra calde di Watson premute sulle proprie. In quel momento entrambi, non si sapeva chi più dell'altro, avevano sentito un tuffo al cuore, di quelli con triplo salto mortale e doppio avvitamento con tanto di spaccata a mezz'aria prima di cadere in acqua. Il biondo aveva gli occhi chiusi, stringendoli fino a sentire dolore e le ciglia piegarsi, mentre il moro li aveva improvvisamente spalancati fissando il primo con uno sguardo incredulo e immergendo le dita nella stoffa del suo maglione. Rimasero così per un po', nessuno dei due pronto a staccarsi da quella posizione. Solo dopo svariati secondi immobili, i due si erano decisi a fare qualcosa. Il primo fu -cosa da non credere- Sherlock che, abbassando piano piano le palpebre fino a coprire completamete le iridi, aveva iniziato a  muoversi lentamente contro la bocca dell'altro, assaggiandone il sapore di menta forte -la mania di Watson di lavarsi i denti era davvero incredibile- e mordendone la carne mentre lo spingeva verso di sè. La sua mano era tornata a posarsi sul suo collo e le dita magre erano tornate fra i fili biondi e sottili dei suoi capelli, che erano più morbidi del solito. Gli aveva stretto un fianco con l'altra mano ed aveva fatto perdere ogni particella viva delle menti di entrambi, quando aveva chiesto il permesso di entrare con la lingua, leccandogli piano i denti. L'altro aveva accettato ed entrambi avevano aumentato la passione di quello che ormai era più che un semplice bacio. Si erano alzati -il dottore un po' di più per raggiungere il viso dell'amico fin troppop alto- e quest'ultimo aveva aumentato la presa sul corpo del primo. Si erano baciati con foga e con passione, godendo l'uno del sapore dell'altro, sentendo fra i palmi le stoffe di tutto ciò che ognuno indossava abitualmente, come un cappotto scuro o un maglione.

Tutto questo prima che il moro si staccasse allontanando il biondo e comportandosi in maniera fin troppo agitata per Sherlock Holmes.

-"Cosa stai facendo?!", era stata la domanda impulsiva del secondo.

-"N-niente, è solo che...si è fatto tardi, dovremmo veramente andare a dormire.", la risposta sbrigativa del primo, che tentava in ogni modo di nascondere l'imbarazzo ed il rossore sulle proprie guance.

-"Sei impazzito?! Perchè? Dopo quello che è successo, noi non...tu non puoi fare finta di niente!"

-"No, John, io non faccio finta di niente! Io non faccio finta di nulla perchè non è successo nulla!"

Peccato che l'amico non fosse d'accordo e che, ormai, l'avesse spinto contro il muro per parlargli a poca distanza. Le dita che stringevano forte il bavero, la schiena del più alto schiacciata contro il muro, il viso del biondo a poca distanza dal suo. Dopodichè aveva parlato, cercando di non mostrare la tensione che provava ed usando un tono che non ammetteva una risposta negativa.

-"No, tu non capisci. Tu non capisci mai, quando si tratta di queste cose. Mi hai baciato, Sherlock. L'hai fatto, l'ho fatto anche io, l'abbiamo fatto entrambi e nessuno dei due ne era dispiaciuto, tantomeno tu, che non fai altro che rimanere freddo ed impassibile a qualsiasi cosa, ogni volta. Eri tranquillo, eri energico e lo volevi quanto me, quindi perchè ora fingi che non sia così? Per l'amor del cielo, fallo una volta, ok? Per una sola, dannatissima volta, non potresti smettere di essere lo Sherlock Holmes conosciuto da tutti, quello insensibile e privo di emozioni o sentimenti verso chiunque ed essere quello che poco fa mi ha baciato senza tirarsi indietro?!"

Silenzio, lo sguardo di uno immerso in quello dell'altro e tanta, tanta agitazione in quel momento. Nessuno dei due aveva osato fare un movimento e negli occhi del moro si leggeva una strana luce che solitamente non aveva, che non gli era mai appartenuta e che in quel momento stonava così tanto con quell'uomo, eppure era perfetta per quel momento. Da quel piccolo puntino luminoso, dalla suddetta luce si poteva notare una cosa alquanto ovvia, ma allo stesso tempo completamente nuova: Sherlock Holmes era vivo più che mai e stava probabilmente provando più emozioni che in tutta la sua vita.

-"John, io non-", ma non poteva parlare, non in quel momento, non proprio quando l'ultima cosa che quella stanza avrebbe dovuto sentire era la voce di qualcuno che accampava scuse per negare ciò che nessuno aveva visto e che non avrebbe fatto male a nessuno, per  questo quello che lui cercava di fermare era anche lo stesso uomo che in quell'istante l'aveva interrotto.

-"No, niente 'John', niente scuse, niente di niente. Voglio solo me e te su quello stupido letto a fare qualsiasi cosa tu voglia, qualsiasi cosa ci venga in mente. E non mi importa di domani, se ci pentiremo di stanotte come delle parole che non ci diremo, non mi interessa se mi chiederai di non farmi più vedere o se mi sveglierò e tu non sarai più accanto a te, ma in qualche angolo del mondo col puro intento di lasciarmi qui da solo. Non mi frega di nente e di nessuno, Sherlock. Mi interessa solo di noi e di adesso."

E non si sapeva di chi fosse il cuore che batteva più forte, non si capiva quali fossero i pensieri più vividi nelle loro menti, tanti che erano a rimbombargli nella testa come una batteria suonata male, come uno Stradivari non accordato e confusi come un complesso musicale senza nesso logico. Non si poteva vedere chi fosse a spingere di più l'altro sulle coperte pulite e profumate di sapone, o chi aveva tolto i vestiti dell'altro nel modo più veloce, o quanti baci si stessero scambiando in quei pochi secondi di tempo che hanno avvolto il tragitto dal muro al materasso.
Sta di fatto che quella notte si erano presi, si erano resi di proprietà l'uno dell'altro, si erano marchiati col fuoco proprio come si fa con gli animali, si erano lasciati andare alla passione più pura. Persino il detective, colui che mai si sarebbe abbandonato ad un errore umano come la lussuria e la brama di avere un corpo, aveva guardato il dottore dritto negli occhi mentre questo lo prendeva, mentre si spingeva completamente in lui e mentre gli provocava piacere con le mani, con il bacino, con le labbra, con la lingua e con qualsiasi parte del suo corpo da uomo, come se non fosse la prima volta, come se ormai ci fossero entrambi abituati e come se ognuno sapesse i punti sensibili dell'altro a memoria, con uno schema mentale degno dell'investigatore che era il moro.
Tutto quello che era successo quella notte non l'era venuto a sapere nessuno, tanta era la sincerità che ci avevano messo. I loro vi    si erano stravolti dal piacere e qualsiasi movimento facevano era eccitazione che saliva e saliva e saliva sempre di più, fino a raggiungere picchi forse impossibili da scalare. Si erano guardati e riguardati, accarezzati e riaccarezzati, graffiati e rigraffiati ed i loro nomi erano stati pronunciati così tante volte dalle voci di entrambi che ormai non ci facevano più caso, era un continuo cercarsi, spingere, gemere e volersi, volersi più di quanto si può volere l'aria mentre si sta sott'acqua. E così per tutta la notte, così per tutto il tempo che volevano, così per tutto il tempo che il mondo avrebbe atteso per loro. E il mondo aveva atteso, il tempo si era fermato per le ore necessarie a fargli esplodere i cuori per tutte le emozioni di cui erano rimasti preda.
E con le emozioni era arrivata l'estasi, con l'estasi il sonno, col sonno il bisogno di tornare ad essere John Watson e Sherlock Holmes, anche se ormai non si poteva più dire che fossero due persone distinte, visto il legame con cui ormai si erano legate le loro anime.


-"E' andata semplicemente così. Andava tutto bene, il giorno dopo lui era tornato il solito Sherlock di sempre, ma si vedeva benissimo che non era più seriamente come prima. Ogni sera ci ritrovavamo, ogni notte tornavamo ad essere come quella notte ed ogni volta che eravamo soli lui si comportava con me come mai con nessun altro: da umano. Provava emozioni, sentiva il dolore e la felicità, si lasciava andare alla vita normale, invece che alle solite questioni da investigatore. Era sempre se stesso, non potevo certo pretendere che cambiasse drasticamente, ma almeno riusciva ad essere un po' meno distante di quando tutto ciò che riusciva a dirmi era "Mi sto annoiando John, trovami un nuovo  caso interessante". Stavamo bene entrambi."

E si incanta. Si blocca a guardare il vuoto, senza fissare un punto ben preciso della stanza. Il cuore che batte all'impazzata, gli occhi che sembrano di ventro da quanto vuoti e privi di sentimento sono, ma non perchè lui non prova niente, anzi: in quel momento si sta guardando dentro, sta scrutando ogni minima parte di se stesso come se questa potesse guardarlo di rimando e parlargli, spiegargli perchè si sente cadere a pezzi pur rimanendo in piedi. La donna si aspetta un continuo del racconto, ma lui sembra fin troppo impegnato a fare domande al proprio corpo, alla propria mente ed al proprio cuore, per rispondere da solo. Eppure lei sa che la storia non è finita: come fa ad esserlo, se è iniziata da una morte ed è arrivata ad un "lieto fine" da fiaba? Per questo lo scuote dai suoi pensieri e gli fa una semplice domanda, una piuttosto ovvia, se si aspetta un continuo di qualcosa. Serietà negli occhi ed impassibillità sul viso, ma interesse e dispiacere nella voce.

-"E poi cos'è successo?"

L'altro scuote la testa per distogliere l'attenzione dai propri pensieri, la guarda con intensità come se cercasse di nuovo il filo del discorso. Poi annuisce, fa un respiro profondo e risponde, con la voce stanca e piena di rimorsi, piena di cose che non sono state dette e di cose non potrà mai più avere il tempo di dire.

-"E poi è arrivato Jim Moriarty."


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-"Tutte le cose che non gli ha detto, tutto quello che vorrebbe che lui avesse saputo. Lo dica ora."

-"No. No, non posso farlo, non ci riesco."

Un risposta secca, che non dava possibilità ad un cambiamento di idea o ad un'insistenza da parte di chiunque. La prima seduta di John Hamish Watson si chiude così, con poche parole scritte sulla carta dalla psicologa e una confessione da parte di lui.

Eppure le suddette cose, quelle che avrebbe dovuto dire in quel momento, non hanno poi tanta importanza. Non ha la mente piena di frasi da dedicare alla persona perduta, non ha la testa che gli scoppia per le troppe parole che gli ronzano intorno, non ha una lista mentale di tutte le bellissime qualità dell'altro uomo e tantomeno una con tutte le belle cose che avrebbe potuto dirgli. Ha solo un'unica, assillante frase che non se ne va dal cervello, che gli sbatte nel cranio come una pallina da ping-pong in una scatola che viene agitata. Quella sola frase che lui sussurra ogni sera prima di dormire, ogni mattina prima di andare a lavorare ed ogni pomeriggio, vicino alla tomba del detective.

"Ti amo, Sherlock."
  
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