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Autore: john_penniman    01/07/2014    2 recensioni
Emily è una donna affetta da una grave malattia ed è in punto di morte. Spostandosi spesso per New York, ha quasi sempre incontrato John Reese, senza che lui se ne accorgesse, e se ne è innamorata. L'unico desiderio che avrebbe prima di morire è di poter passare almeno cinque minuti col suo amato, ma sa che le possibilità che ciò accada sono praticamente nulle.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harold Finch, John Reese, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si posizionò bene in modo che la webcam riuscisse a centrare il suo volto, cliccò la finestrella per iniziare il video.

“Ciao a tutti. La maggior parte della popolazione mondiale non sa nemmeno della mia esistenza e quelle poche persone che conosco probabilmente non guarderanno questo video. Lo lascerò qui sul mio computer e non saprò mai se il ricordo del mio viso e della mia voce adesso rimarrà nella memoria di qualcuno quando ormai io non sarò più in grado di ricordarmene. Probabilmente ci sono due persone che guarderanno questo video, ma non penso. In fondo, non sono in pericolo. Non sto morendo, ma morirò a breve. Non per mano di qualcuno, per mano del mio stesso organismo, perciò nessuna macchina potrà mai sapere che rischio la vita. La mia morte sarà una delle tante che vengono dimenticate subito, che nessuno tenterà di fermare, anche perché nessuno può. Forse qualche amico mi ricorderà, ma sono tanto pochi che sono una nullità. Non sono sposata, non sono una madre di famiglia, lavoro come impiegata in un ufficio, ma domani mi licenzierò così da non essere d'intralcio a nessuno. Non ho molti amici perché pochi riescono a sopportarmi ogni singolo momento. Sono stata innamorata? Sì, sono innamorata tutt'ora a dir la verità. Perché non mi sono “dichiarata”? No, non per i soliti problemi che si fanno gli adolescenti: ormai ho la mia cerchia privata che si sta via via diminuendo per vari matrimoni, traslochi e cose varie; perdere una persona in più o una in meno ormai non fa troppa differenza per me. Diciamo soltanto che io conosco questa persona e lei no. Strano mi viene da dire. Solitamente è sempre il contrario: lui che conosce tutti, nessuno che conosca lui. Ma questa volta è proprio il contrario. Come faccio io a conoscerlo? Sarà il fato, ogni volta che lui è da qualche parte ci sono anch'io. Strano a dirsi perché le impiegate fanno un lavoro sedentario. Io, in realtà, sono la schiavetta del capo e spostarmi è tanto abituale quanto respirare. E ogni volta lo vedo. Il particolare che mi ha colpito non è stato tanto il fatto che lo incontravo sempre, ma che ogni volta vestiva un nome e una professione diversa. Ma ogni copertura avesse, si chiamava sempre 'John'. Quindi ho cominciato a fare varie ricerche, ascoltando anche le informazioni che lui passava ai suoi 'protetti' o quelle che loro traevano su di lui, e sono giunta alla fonte, all'esercito. Lì vegliava ancora un solo fascicoletto misero su di lui: un solo foglio e una sola foto. Non so cosa abbia passato nella sua vita, non so da dove venga né dove stia andando, so solo che il mondo lo ritiene morto. E io mi sono aggregata all'idea che ha di lui il mondo e non ne ho parlato con nessuno. Ma continua ad occuparmi la testa. Avrei tante domande da porgli, tante risposte da ricevere. Che non riguardino specificatamente il suo passato, il suo presente o il suo futuro, ma lui. Per esempio, perché sorride così poche volte? L'ho visto sorridere giusto due volte e il suo sorriso farebbe invidia al mondo se fosse mostrato. Il suo sorriso così bello, ma, per le volte che l'ho visto, mai sincero: sempre preoccupato, ansioso, compassionevole, mai allegro, felice. Perché, ti chiedo, non sorridi mai? Dei tuoi occhi poi non parliamo. Sono estremamente belli, ma anche loro così preoccupati, compassionevoli. Io ci scherzo, dico che hai gli occhi da cucciolo, ma sono tristi. E allora dimmi, perché sei sempre così serio e triste? Sii felice che potresti far morire d'invidia il mondo. Saresti l'uomo più bello che si sia mai visto. Il tuo carattere, sempre così protettivo. Saresti un uomo perfetto. E so che non esiste chi è perfetto, ma tu lo sei. Ho sentito dire che hai amato, amato e perso, e per questo cerchi di stare lontano dalle relazioni. Ma ci credi? Io sto amando e ho già perso in partenza non perché tu sia morto, perché lo sei per il mondo, non per me, ma perché io non esisto per te. Ci credi? E non fa soffrire. Non molto. Non troppo. O anche se fosse sono brava a dissimularlo a me stessa. Il mio sembra un amore platonico e fa davvero schifo. E allora mi viene da chiedere: è meglio aver amato e aver perso o non aver amato mai? Sinceramente preferirei aver amato e aver perso, vorrei averti avuto qui per cinque minuti: niente sesso, niente cose di quel genere, solo un bacio, un bacio, un tuo sorriso, una carezza e avrei potuto morire col cuore in pace. Certo, tu avresti continuato a vivere, ma in fondo per te non sarei stata niente, sarebbe stato perfetto. Ma cosa importa farsi tutte queste preoccupazioni? La mia situazione non viene nemmeno presa in considerazione da nessun pensatore, perché troppo assurda o forse troppo penosa. Ma allora dimmi, John Reese, potrò mai averti qui con me per cinque minuti? La risposta probabilmente è no e per questo ti lascio questo messaggio, per questo ho dedicato così tanto tempo della mia ultima testimonianza di vita a te: perché tu sappia che qualcuno che ti ama senza che tu l'abbia salvata esiste. Non sono vincolata da quel legame che si crea fra vittima e difensore. Non sono nulla di quello che potrebbero essere le altre che si innamoreranno di te. E vorrei dire due cose anche a te, Harold Finch. Sì a te, perché è grazie a te che lui è qui e che io posso mandargli questo messaggio. Grazie mille sig. Finch, grazie perché senza di te, io non avrei lui, e lui non avrebbe niente. Riflettici, tu sei l'amico più importante, se non l'unico, che ha e sei davvero speciale: non lo abbandoni mai. Ti ringrazio anche da parte sua perché sei una persona davvero speciale.

Detto questo, addio ragazzi, spero che vedrete questo video, vi amo entrambi, addio.”

Rimase a riflettere ancora quache tempo lasciando la webcam accesa. Guardava in basso, verso il pavimento. Spostava il suo ciuffo lentamente quasi ad accompagnare i suoi pensieri. Poi alzò la testa e con un sorriso triste aggiunse: “E, sig. Finch, sorrida anche lei, perché anche i babysitter più impegnati trovano del tempo per sorridere alla vita. Voi vivete all'oscuro degli altri, ma non viviate all'ombra delle vostre stesse vite: sorridete e divertitevi almeno una mezz'ora al giorno, perché salvare le vite degli altri senza vivere la propria è come morire.” Abbassò di nuovo lo sguardo riflettendo su ciò che aveva appena detto. Dopo alcuni secondi rialzò gli occhi verso la webcam e, sorridendo, concluse: “Grazie.” e chiuse il video.

Salvò il video senza norminarlo. Spense il computer, abbassò lo schermo e uscì di casa. Si diresse al Central Park portando a fare una passeggiata il suo cane. Un grosso Labrador dal pelo color ebano con grossi occhioni neri di nome Bear. Appena toccarono, l'erba il cane iniziò a saltare dalla gioia: era da tanto che non usciva più di casa. Lei si accucciò per togliergli il collare sussurandogli “Adesso ti tolgo il collare e ti lascio andare dove vuoi, ma non ti allontanare troppo che ti tengo d'occhio. Quando ti chiamo torna da me, io ho i tuoi giochi quindi quando vuoi torna indietro e giochiamo insieme, ok?”. Appena terminò la raccomandazione un altro cane si fiondò sul Labrador. Si sentì un richiamo di una voce maschile “Bear. Quante volte ti ho detto di non fiondarti in questo modo sugli altri cani?”. La donna, senza alzare lo sguardo, cominciò a slegare il collare del suo Bear e disse: “Non si preoccupi, se non sono gli altri che si tuffano addosso a lui è lui che si tuffa addosso agli altri.” Senza che lei lo sapesse, l'uomo sorrise divertito. “Bene, ora andate pure.” Li incoraggiò la donna e si alzò per vedere chi era l'uomo con cui aveva parlato. “Salve, sono John.” Lei rimase paralizzata per alcuni secondi, incredula. Divenne paonazza e abbassò leggermente lo sguardo. “Buongiorno, Emily.” Si strinsero la mano. “Tutto a posto?” Le chiese lui. “Sì, nessun problema, perché?” “Mi sembrava che la mia vista l'avesse imbarazzata.” Abbassò un attimo lo sguardo scartando in partenza l'idea di confessargli tutto quello che aveva confessato alla webcam. “No, si figuri, nessun problema. Soltanto che assomiglia molto al fratello di un mio amico.” “E lei ha un debole per lui?” “Abbastanza.” Rispose. John accennò lievemente un sorriso e lo stesso fece Emily. “E quindi anche il suo cane si chiama Bear?” Chiese la donna. “Anche il suo?” Si sentì rispondere con sorpresa. “Eh già. Sarà una bella sfida richiamarli indietro entrambi, soprattutto se saremo distanti.” “Ha ragione. Beh, allora non rimaniamo troppo distanti.” Le gote di Emily riassunsero un colore leggermente paonazzo. “Ci sediamo su una panchina?” Propose John. La donna annuì e iniziò a pensare di cosa avrebbero potuto parlare, dato che qualsiasi informazione personale che le avrebbe potuto dare l'uomo sarebbe stata falsa. Si sedettero ed Emily iniziò a scrutare prima il prato in cui si rincorrevano divertiti i cani, poi il cielo privo di nuvole e di un azzurro intenso. “Mi dica, John, lei si è mai fermato ad osservare il cielo?” Ci furono alcuni attimi di silenzio in cui John ragionò sul da farsi: aveva accanto una donna sconosciuta che era diventata paonazza alla sua vista, quasi lo conoscesse, e doveva rispondere ad una domanda più ricercata per cui mentire sarebbe stato più complicato. “Sì, mi sono fermato spesso a scrutare il cielo stellato, ma ormai non lo considero più.” “Perché questo cambiamento?” Chiese incuriosita Emily. “Quando ero nell'esercito, fino al 2000, guardavo il cielo e mi facevo consolare dall'idea che fosse lo stesso che avremmo visto io e la donna che amavo. Era bello e mi faceva piacere, benchè avesse un retrogusto amaro. Adesso mi farebbe tornare alla mente solo ricordi e ne soffrirei, per questo evito.” “E ad osservare il cielo diurno ci ha mai pensato?” “Devo ammettere di no. Non mi comunica molto.” “Un'idea di libertà?” “Da quando esiste la libertà su questa terra, Emily?” Dopo un intermezzo di silenzio la donna provò, a malincuore, a ricavare più informazioni sulla “donna che lui amava”. “Ha detto che il cielo stellato la fa soffrire poiché riporta alla mente tristi ricordi. La sua amata?” “Anche.” “Cos'è successo?” Silenzio. Mentre da un lato Emily si pentiva di avergli fatto quella domanda, John pensava a cosa rispondere. “Mi dispiace, non ho voglia di toccare il discorso.” “Non si preoccupi.” Ancora alcuni indugi. L'uomo disse: “Ora dovrei andare.” “No. Non se ne vada.” Disse velocemente e col cuore in gola Emily. Sapeva di aver sbagliato. “Per favore.” Aggiunse lentamente. John era stranito. “Ci conosciamo?” Le chiese. “No, assolutamente no, ma lei è la mia unica compagnia qua.” “Non si preoccupi, ci sono tanti cani qua in giro, non avrà alcun problema a socializzare con qualcun altro.” La donna ingoiò tutte le parole che avrebbe voluto pronunciare e rispose “Va bene.” “Allora, ci rivediamo signora Emily.” “Ci rivediamo.” Ripeté triste lei. John chiamò il suo cane con un fischio e se ne andò. La donna richiamò il suo Bear con un gesto della mano. Appena arrivò placò la sua allegria e gli disse: “Mi dispiace Bear, lo so che sei tanto felice, ma io ho fatto un gran casino.” Cominciò a scuotere la testa a destra e a sinistra lentamente e le si riempirono gli occhi di lacrime. Il cane salì di fianco a lei sulla panchina e lei lo abbracciò.

John era rimasto a guardare la scena. Si domandava cosa potesse avere quella donna, se era colpa sua o se l'aveva abbandonata in un momento di estrema depressione. La vide alzarsi e spostarsi con il suo cane. Entrò in un palazzo e dopo alcuni minuti si accese una luce al primo piano dello stesso. “Finch, potresti fare una ricerca per me?” Chiese al telefono. “Mi dica sig. Reese.” “Puoi trovarmi alcune informazioni su una certa Emily che abita al 136 di Washington St.?” “Che c'è sig. Reese, si è innamorato?” “Se così fosse potresti avere una persona in meno a cui pensare, sai se mai mi andassi a sistemare. Quindi no, mi dispiace ma qualcuno dovrà pur tenerti impegnato non credi?” “Come è gentile. Ho trovato. Si chiama Emily Pennington, non è sposata, non ha figli, sembra che non abbia nemmeno relazioni, ha un cane di nome Bear... Come sta il nostro cane, sig. Reese?” “Bene Finch, stai tranquillo, non ce l'ha rubato.” “Mh. Questo è tutto ciò che ho trovato fin'ora su di lei.” “Continua a cercare.” Concluse John e chiuse la chiamata.

Passò una giornata senza che Emily smettesse anche un solo secondo di pensare a John: l'aveva realmente visto, gli aveva davvero parlato. La notte non riuscì a dormire. Il giorno dopo cominciò a tranquillizzarsi, si recò sul luogo di lavoro e, dopo aver parlato col direttore, diede le dimissioni. Quindi andò da un'amica e le lasciò il cane. Durante la notte non aveva solo pensato a John, ma aveva anche tranquillizzato Bear così che per entrambi fu leggermente più semplice l'allontanamento. Tutte le sue azioni erano controllate dall'imperturbabile Finch, il quale riuscì anche ad entrare nel computer di Emily. “Sig. Reese.” “Dimmi Finch.” “Conviene che lei venga qua un attimo.” “Ora non posso Finch, sono sotto copertura.” “Ha ragione, in tal caso, venga la sera, deve assolutamente vedere una cosa.” “Cosa? Bear ha cominciato a fare i suoi bisogni in bagno?” “No, ci sto ancora lavorando e lei non ha il diritto di predersene gioco. Riguarda Emily Pennington.” Ci fu un attimo di silenzio dopo il quale Reese rispose velocemente “Ci vediamo stasera.”

La sera John entrò nell'appartamento e trovò Harold che sorrideva giocando con Bear. “Che succede Finch? Hai ricevuto una bella notizia?” “No, mi sto solo divertendo col nostro cane.” “Cosa dovevi farmi vedere?” Chiese serio John. “Si sieda alla mia postazione e guardi il video che è aperto.” Sentendo che stava per fare delle domande lo anticipò: “Lo guardi e basta.”

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Concluso il video John rimase a fissare lo schermo. “Si sta domandando come abbia fatto a trovarci? Me lo sono domandato anch'io, soprattutto chiedendomi come abbia fatto a scoprire della mia esistenza e della presenza di una macchina che capisca chi è in pericolo di vita, ma non ho trovato risposte. Bisognerebbe chiederglielo, non crede? Magari queste informazioni girano in luoghi comuni senza che noi lo sappiamo.” Finch non ricevette alcuna risposta. “Sig. Reese? Mi sente?” “Resta qua a casa, torno.” John si alzò e uscì dall'appartamento sempre immerso nei suoi pensieri e sempre serio.

Emily era andata a trovare Bear: era l'unica compagnia che aveva avuto in quegli ultimi anni e ne sentiva la mancanza in modo esagerato. Si poteva dire lo stesso del cane, dato che, appena arrivata, le saltò addosso e riacquisì la sua allegria. Si era fermata a cena là e aveva mangiato insieme a Bear, senza tener troppo conto dell'amica. L'aveva informata di un imminente viaggio, non certo della verità, come invece aveva fatto col suo Labrador. Terminato il pasto decise di andarsene, altrimenti le sarebbe riuscito sempre più difficile allontanarsi dai suoi unici amici. Tornò a casa decisamente triste.
Aprì la porta di casa sua, accese la luce e si diresse in salotto. Aveva appena lanciato la borsa sulla poltrona quando sentì un sussulto. Si girò di scatto e scoppiò in un pianto improvviso. John si alzò dalla poltrona e andò verso di lei chiedendole: “Perché stai piangendo?” Dopo alcuni respiri affannati lei riuscì a rispondergli: “Perché mi ha spaventato terribilmente, pensavo fosse un ladro o qualcosa del genere.” Dopo un intervallo pieno di altri affannosi respiri continuò: “E poi perché sono tanto felice che tu sia qui.” “E allora smettila di piangere, tranquilla. Io sono qui, non sono un ladro, un assassino, uno stupratore o quant'altro: calmati.” Emily si sedette sul divano e lui al suo fianco. Era riuscita a interrompere le lacrime, ma continuava a lasciare le mani sul volto, incredula di quanto stava accadendo. Dopo alcuni secondi tolse le mani dal viso, si mise bene a sedere con la schiena dritta, appoggiò le mani sulle gambe, si girò verso John e disse: “Tu sei sempre molto serio, vedo.” Sul volto di lui si disegnò un sorrisetto e cominciò a dondolare la testa a destra e a sinistra. Lei scorse il suo sorriso appena accennato e lo incoraggiò: “Amplia, amplia quel sorriso. Ingrandiscilo. Mostra i denti, non limitarti ad un angolino della bocca. Mostra quel tuo sorriso bellissimo, mostra quel tuo sorriso...” John, tornato serio, terminò la frase: “Che farebbe invidia al mondo se fosse mostrato.” Lei rimase un attimo sconcertata. Non sapeva cosa pensare e tanto meno come reagire: aveva visto il suo video, ed era ciò che lei desiderava, ma era stata tanto scettica sul fatto che non aveva minimamente pensato a come avrebbe potuto reagire in quel caso, soprattutto perché non si sarebbe mai aspettata che lui, proprio lui, si sarebbe presentato da lei. “Sì, ho visto il tuo video. In realtà l'ha visto Finch prima di me, poi l'ho guardato io. Sai, mi aveva chiamato oggi mentre stavo lavorando dicendomi che avrebbe dovuto farmi vedere assolutamente una cosa, una cosa che riguardava te, Emily Pennington. Sono stato tutto il giorno a riflettere su cosa potesse mai essere di così importante. Devo dire che non mi ci sono minimamente avvicinato. Sai come ho trovato Finch quando sono tornato all'appartamento? L'ho trovato allegro che sorrideva e si divertiva con Bear. Mi sono domandato cosa mai avesse potuto vedere che gli avesse cambiato in questo modo la giornata. Allora ho visto il video.” Abbassò la testa guardando le sue mani che si stringevano via via più forte. Non sapeva cosa dire: non voleva deluderla. Degluttì e aggiunse: “Ho anche visto della tua malattia. Ci deve essere una cura.” “No, non c'è.” “Non ti arrendere.” Emily sospirò. “Ti sei domandato il perché io abbia così poche persone a cui mi affidi? Così pochi amici?” Esitò un attimo e disse: “Io sono di natura una persona molto socievole. Difatti avevo molti amici e familiari con cui organizzavo feste, pranzi, cene, aperitivi. Ero inserita in molti gruppi di persone, sia numerosi sia meno. Poi ho scoperto della malattia. Ho passato gli ultimi sei anni a cercare una cura, girando per città e ospedali, medici e chirurghi. Inizialmente non molto era cambiato, poi molti, troppi, hanno deciso che non riuscivano a continuare ad avere un rapporto con una persona praticamente sempre assente e così distante. Così la cerchia cominciò a spopolarsi. Terminati i sei anni di ricerca, dopo che tutti i dottori consultati mi avevano detto che non c'era nulla da fare, che nemmeno l'operazione avrebbe potuto funzionare poiché per la mia costituzione avrei sicuramente risentito di danni addirittura più gravi e permanenti, ho deciso di arrendermi all'evidenza. Il destino vuole che muoia adesso? Che nulla gli impedisca di compiere il suo volere.” Dopo altri attimi di silenzio aggiunse: “E no, non mi sono mai innamorata eccetto che di un uomo che non riesce a vivere la propria vita mentre aiuta gli altri a continuare a vivere la propria.” Entrambi accennarono un sorriso amaro. John cominciò a sfregarsi le mani più violentemente, quasi a voler reprimere le emozioni che gli sorgevano da dentro. “Quella donna. Quella che ho amato. Hai ragione, l'ho persa. Ma non perché io l'abbia voluto...” Emily, alzandosi, si accucciò di fronte a lui e vedendo il suo stato di tensione che lasciava intravedere una profonda tristezza, lo interruppe: “Non lo voglio sapere, John. Non importa. Non ho mai dubitato del fatto che tu l'abbia davvero amata e magari la ami tutt'ora. Ma non ne parlare solo per dar corda alla mia inutile curiosità.” Lui la guardò sempre col solito volto serio. “E sorridi, mio Dio, sorridi!” Lo incitò lei sorridendo. “Guardami: chissà quanto ancora mi rimane da vivere, ho la certezza di non riuscire mai ad amare chi amo eppure sorrido, sorrido e vivo.” Vedendo spuntare il solito angolino sulle labbra aggiunse: “Io non ho vissuto per sei anni e mi sono risvegliata adesso. Capisco che sia tardi, ma nulla vieta di vivere. Ricordati che non sei morto finché non smetti di respirare.” Vedendolo preoccupato gli accarezzò il viso. “Tu sei una donna di cui ci si innamorerebbe così facilmente. Proprio me dovevi scegliere? Le donne riescono ad avere e a concludere storie d'amore impossibili perché hanno tempo.” “Lo so,” rispose lei sorridendo compatendosi “Infatti, almeno una volta al giorno, me lo dico che sono un genio.” Finalmente sorrise anche lui. “Io vorrei non deluderti, vorrei poterti dare tutto ciò che vuoi. Però capisci che un bacio lo può dare solo un innamorato. Una volta o due ho baciato pur senza sentimento, ma tu devi essere baciata da qualcuno che ti ami davvero, devi capire cosa sia realmente l'amore.” “Tu sei saggio, John Reese, ma la saggezza non ha mai portato la felicità a tre categorie di persone: gli stolti, i saggi e gli innamorati.” Lui le accarezzò il viso. Si guardarono negli occhi per alcuni secondi quando Emily chiese: “Me lo fai un sorriso? Un sorriso di quelli sinceri? Se vuoi posso incoraggiarti elencandoti tutte le tue straordinarie doti: sei alto, hai i capelli brezzolati...” John sorrise divertito e dondolò per poco la testa a destra e a sinistra, mentre lei ancora parlava. Lei si interruppe vedendo che la sua idea aveva raggiunto l'obbiettivo. “Ti amerei se potessi, Emily Pennington.” John si avvicinò velocemente a lei e la baciò. Fu un bacio breve, fuggitivo. Fu un bacio che rese estremamente felice Emily e di cui John non si preoccupò affatto: aveva detto la verità e aveva fatto ciò che sentiva giusto fare. Quando le loro labbra si allontanarono e iniziarono a guardarsi negli occhi, entrambi sorridevano: Emily di felicità, John di soddisfazione per averla resa felice. La donna continuava a guardare i suoi occhi e il suo sorriso. Aveva fame di un altro bacio. Abbassò la testa scuotendola leggermente cercando di togliersi dalla mente quell'idea egoista che le era venuta. John capì ciò a cui stava pensando. Le sollevò delicatamente il mento con due dita della mano, la guardò negli occhi e le disse: “Fallo.” Lei mise le mani dietro alla sua nuca, si avvicinò a lui e lo baciò. Un secondo bacio, un bacio lungo, un bacio che rese felice anche John, questa volta. Un bacio che durò minuti, che a loro parvero anni, anni di felicità.

   
 
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