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Autore: Francine    04/07/2014    4 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Οι νεότεροι αδελφοί

 


tutti qui i miei pezzi  a ingannare la sorte 
per cantare più a lungo e più forte
 

 
 

È quando la polvere si posa che Aiolia sgrana gli occhi. Mai avrebbe immaginato di sentire un simile ordine. Ma poi ricorda che questa è una notte pazzesca, dove il sotto ed il sopra hanno ben pensato di rovesciarsi. Per divertimento. Per ammazzare il tempo e la noia. Per ammazzare loro.
Athena ha una spiccata predilezione al perdono. Alla benevolenza. Alla pietà. E Aiolia sa che se Saga è morto non è stato perché lui, o un altro dei suoi compagni, gli ha messo le mani addosso, no; è stato perché Saga s’è ucciso. Con le sue stesse mani. Perché non poteva sopportare il perdono terribile di Athena. Per ubrys è morto Saga. Perché era un uomo.
E se c’è una cosa che il Leone ha imparato, in questa vita, è che l’amore e la misericordia divina travalicano la concezione umana e i suoi limiti. Sorpassandoli. Colmandoli. Contraddicendoli.
Dove Aiolia – ma anche Milo, perché Mu sfugge alla sua comprensione più del solito, stanotte – vede che non c’è più spazio per l’amore, la misericordia e la comprensione, perché è stato versato del sangue – il sangue di Shaka – Athena, invece, sa – vede – che c’è ancora speranza. C’è sempre speranza.
I comandamenti, le regole, i precetti morali sono questioni che riguardano gli uomini. Che gli dei han dato loro per regolamentarne l’esistenza. La convivenza tra simili. La moralità di un uomo non è quella di un dio. Che guarda alla creatura e al creato come farebbe un padre severo, o una madre comprensiva. Che è – e che deve essere – superiore alle questioni terrene. Che variano al variare dei tempi, mentre il dio, e la sua morale, sono fuori dal tempo. Essi esistono. Di per sé. Uguali, eterni ed immutabili. Nei secoli dei secoli, amen.
Così, quando la voce di Athena esplode nelle loro menti – col profumo dei fiori di campo e la lucente fierezza di un raggio di sole – Aiolia trasale. E mentre percepisce la tracotanza di Milo nell’alzare la voce per chiedere conto e ragione di ciò che Athena ha ordinato loro, lui sa già che lo faranno. Raccoglieranno quell’immondizia da terra e la porteranno ad Athena. Perché nella sua voce, oltre ai fiori di campo e alla luce del sole, c’è la premura e l’impazienza di chi ha gettato via qualcosa di molto, molto prezioso assieme all’immondizia. Qualcosa che lui non può, che lui non riesce a vedere. Perché dove Athena scorge tre vite umane – la cui fiamma s’è spenta tanto, troppo tempo fa – lui vede solo del marciume.
 
 
Il cofanetto è di ebano. Forse. Per quel che lui ne può sapere potrebbe trattarsi anche di palissandro. O di qualche altro materiale ancora.
Il cofanetto è di legno scuro, con intarsi di pregevole fattura. I rinforzi sono lamine d’oro, così come dorata è la serratura. Che sta lì per bellezza, oramai. Saga la fece saltare anni fa, scardinandola durante quella notte disgraziata, e nessuno si è mai preso la briga di farla riparare. Chissà poi perché.
Il cofanetto è bellissimo. L’interno è foderato di pregiato velluto cremisi, che non sfigurerebbe sulle spalle di un re.
Eppure, per Kanon, quel cofanetto è orribile. È la cosa più terrificante che esista. Un oggetto da seppellire nei recessi della Terra. Dentro una colonna di cemento armato. O in uno di quei luoghi inaccessibili e nascosti che neppure compaiono sulle carte geografiche. In fondo al mare. Ché tanto Poseidone riposa nell’anfora, sotto un sigillo rigenerato col sangue di Athena.
Anzi, pensa Kanon, la cosa migliore sarebbe distruggerlo.
Perché certe cose tornano sempre a galla. Con la marea. Quando uno meno se l’aspetta. E non è scheletro, questo, che possa cadere nelle mani sbagliate. Che non sono quelle del nemico, no. Fosse così, sarebbe tutto più facile. S’inscriverebbe nell’ordine naturale delle cose. Avrebbe un senso. Ma così, un’arma così potente alla mercé delle mani di un’innocente fanciulla, così è quanto di più orribile Kanon abbia mai affrontato.
Vorrebbe tanto che suo fratello l’avesse distrutto. Non tanto il cofanetto. Quanto il suo contenuto. Ma no. No. È pronto a scommettere che per Saga quell’arma rappresentasse una specie di polizza. Un’assicurazione sulla vita. Da usare qualora la Freccia d’Oro avesse mancato il bersaglio. Altrimenti non l’avrebbe conservato al di sotto del trono del Sacerdote – del trono della dea. Da dove Athena stessa gli ha chiesto di prelevarlo. E da dove lui, con mani tremanti, l’ha estratto.
 
 
 
Aiolia ha sentito male.
Aiolia deve aver sentito male. Percepisce lo sgomento e la perplessità dei suoi compagni e dei nemici, rigidi come statue di sale e gesso. E quindi, no, non ha capito male. A meno che non abbiano capito male in sei.
Alle spalle di Athena, Kanon non si scompone; nelle mani un cofanetto – quel cofanetto – e un’espressione indecifrabile sul volto. Quella del guerriero – del soldato – che ha ricevuto un ordine e che lo porterà a termine. Nonostante tutto.
Aiolia ha capito benissimo.
E se una parte consistente della sua anima è troppo occupata a stupirsi e a dirsi che no, non è possibile, che deve esserci qualcosa d’altro, nella richiesta di Athena, che; una parte, una piccola parte di Aiolia crolla. Va giù. Si disfà. Come macerie rumorose che precipitano giù da una scarpata sassosa. Per nove giorni e nove notti. Siamo in Grecia, giusto? E quella è Athena, giusto?
Athena che ha appena chiesto a Saga di squarciarle la gola.
E la parte di Aiolia che sta rovinando su se stessa, vorrebbe urlare. E chiederle se non sia impazzita. Se l’orrore – e la paura – non l’abbiano fatta uscire di senno. Se non abbia pensato per un istante, uno solo, ad Aiolos. Che per lei… per lei!
 
Mio. Fratello. Si. È. Fatto. Ammazzare. Perché. Quel. Bastardo. Non. Infilasse. Quel. Pugnale. Nella. Tua. Gola!
 
Aiolia è un fiume in piena. Un mare smarginato e furioso, che minaccia – che promette – di portarsi dietro il litorale con una mareggiata più rabbiosa delle altre.
 
Mi senti, Athena?!
 
Aiolia sta per scattare. Che ci vuole? Tre passi. Solo tre passi. E poi le fauci del Leone azzanneranno, squarteranno, dilanieranno Saga. E chiunque si frapporrà tra loro due. Mu compreso. Dopo tutto, con Saga ha un conto ancora aperto. Un conto che gronda sangue innocente. Il sangue di Aiolos. Che è colato su quella lama, quando ha fermato il polso dei Gemelli. Ed è giusto, adesso, che Aiolia prenda su di sé la responsabilità di avanzare. Di strappare dalle mani di Saga – lorde del sangue di tanti, troppi innocenti – quel pugnale. Spezzarlo in due, tre, quattro, miliardi di parti. Di frammenti. Di atomi. Cosicché non nuoccia più a nessuno.
Perché quella di Saga è una posa. Perché sta piangendo, adesso, come il coccodrillo che ha appena mangiato i propri piccoli. E prenderà quel pugnale dalle mani bianche di Athena. Lo farà. Oh, se lo farà. Non ha appena ucciso Shaka senza troppi complimenti, senza troppi rimorsi? Athena pensa forse che si fermerà, adesso? Che non le punterà quell’arma alla gola?
No, non lo farà. Sarebbe assurdo fermarsi adesso, ora che è a tanto così dal suo obbiettivo. Un battito di ciglia, o poco più.
No, non si fermerà. Così come non s’è fermato lui quando ha lanciato il Lightning Plasma contro Athena.
       
 
Il Sommo Sion ha preso le redini della situazione. Col cipiglio di chi ha visto la morte tante, troppe volte.
Il Sommo Sion non s’è scomposto quando l’ha visto. Forse il Sommo Sion ha sempre saputo che Saga avesse un fratello minore. Un gemello. Identico a lui in tutto, tranne che nel cuore. Perché stupirsi? Il Fato ama baloccarsi con le vite umane, seguendo un senso dell’ironia crudele e beffardo.
In un angolo della mente, Kanon si chiede se anche in passato vi fossero due candidati per l’armatura del Gemelli. Non se ne stupirebbe. Per l’ironia malata del Caso, certo. Ma anche perché manovrare galassie e dimensioni non è semplice. È doloroso. Qualcosa che mette a dura prova la mente, certo; ma anche il fisico. E gli esseri umani sanno essere d’acciaio e di vetro, allo stesso tempo. Com’era Saga, da vivo. E può servire una riserva. Un piano B. Perché non si sa mai. Perché uno potrebbe impazzire. O consumarsi da sé, come una fiamma nell’aria.
Questo Kanon non lo ha sempre pensato. Anzi. Da bambino – da ragazzo –guardava alla corazza di Gemini come ad un premio. La corona d’alloro del vincitore. La tenia del Santo. Qualcosa di solo suo. Qualcosa da strappare a Saga – al perfetto Saga – e da tenere stratta tra le dita. Tutta per sé. Per non essere più l’eterno secondo. L’eterna ombra del fratello prodigioso. Per essere Viktoras, una volta tanto. E non il fratello di.
Ma adesso Kanon ha lasciato dietro di sé quei fardelli. Quei macigni. Che gli rendevano pesante l’anima e il passo.
Adesso non più Viktoras, il gemello invidioso.
Adesso è Kanon. Santo di Athena.
Adesso è leggero. Quasi danza mentre si muove. Anche se il sentiero per cui si sta inoltrando è irto di spine come un roseto ed intricato come un ginepraio. Perché adesso Kanon ha trovato il suo posto nel mondo. Proiettando la propria, di ombra. Ed è così che seguirà gli altri, alla ricerca di Athena. Vestendo l’Armatura dei Gemelli. Risvegliando l’Arayashiki.
 
 
Non importa dove tu sia diretto o quanta strada tu debba fare per giungere a destinazione. Quello che conta è il viaggio. Ciò che impari strada facendo. Quello che lasci. Quello che prendi. L’impronta che testimoni che sì, tu sei esistito. Che ricordi a chi ti ha conosciuto chi eri. E lo tramandi alle nuove generazioni.
Aiolos ne era convintissimo. Con una determinazione che strappava un sorriso a Galan. Un sorriso che Aiolia, all’epoca, non capiva. Non comprendeva. Perché pensava che Galan ridesse di suo fratello e delle sue convinzioni, ed in effetti era così; ma Aiolia, all’epoca, ancora non conosceva le mille sfaccettature dell’amicizia, quel sentimento così simile alla fratellanza che ti fa scegliere quella sola, singola persona come confidente, come compagno di viaggio lungo quel sentiero che si chiama vita. Che è pieno di curve, dossi e panorami mozzafiato. Serate al chiaro di luna e vallate sferzate dal vento. Ruscelli tranquilli e gole innevate. E freddo e fame e rabbia e amore e gelosia e complicità e felicità. Come un sussurro nel vento. Un attimo fugace. Un battito sfarfallante delle ciglia.
È compito del fratello maggiore tracciare la strada per il fratello minore. Essere un esempio, una guida, un faro. Una bussola morale. Da vivi. Ma soprattutto da morti. Ed è con una punta di rimpianto e di rimorso che Aiolia stringe la mano di suo fratello. Una stretta virile. Da uomo a uomo. Da compagno a compagno.
E quel: «Sono orgoglioso di te» che Aiolos pronuncia con gli occhi scintillanti, il Cosmo che brucia sincero, sono una gioia ed un dolore, per il giovane Leone. Che non sente di meritare la sua criniera.
«Aiolos…», riesce solo a dire. E in quel nome, nel nome di suo fratello maggiore, Aiolia riversa se stesso. Tutto il suo amore. Tutto l’affetto che lo ha spinto, pressato e stremato in questi anni. Per riabilitare il nome del Sagittario. Per lavare via un’onta di sangue. Per se stesso, forse. Per far splendere l’impronta di quel fratello così amato e perduto in un attimo. Nella polvere e nel sangue. Per tramandarlo ai posteri. A coloro che verranno. Come questi ragazzini di Bronzo. Che porteranno avanti la battaglia. Sulle loro giovani spalle. Come dei fratelli minori. Cui tocca mostrare la via. La strada. La luce nelle tenebre. Perché devono portare l’armatura sacra ad Athena. Perché Athena li sta aspettando.
 
 
Rhadamanthys della Viverna è un soggetto particolare.
Uno dei tre Giudici. Forse, il più potente guerriero al servizio di Hades.
«Saresti?», gli ha chiesto, apparendo dal nulla, come fosse un pensiero sbagliato, un incubo velenoso.
Ha riconosciuto l’Armatura dei Gemelli. Identica alla Surplice violacea che Ade ha ricreato per il traditore supremo. Il Giuda del Santuario. Ha capito che si tratta del gemello di Saga – a meno ché questi non avesse sconfitto da solo la Morte e fosse tornato a nuova vita sulle sue gambe – ma è come se avesse voluto sentire il suo nome. Conoscerlo. Se per sapere chi lo spedirà all’Inferno – anche se all’Inferno ci sono già, a voler spaccare il capello in quattro – o per aggiungerlo alla lista dei nemici sconfitti, poco importa. Rhadamanthys ha voluto saperlo. E lui non è stato così scortese da rifiutare di presentarsi.
«Kanon. Santo di Athena. Della costellazione dei Gemelli.»
«Uhm.» E basta. Niente commenti. Niente elucubrazioni. Solo il silenzio. Solo un cenno del capo, come a dirgli: «Ho capito».
E poi c’è stata la battaglia. Il rincorrersi, per le Prigioni e i Gironi. Sotto un cielo violaceo e malato, tra pile di sassi e rocce ammonticchiati lungo i sentieri brulli e morti dell’Inferno. Come se stessero giocando. Come due cuccioli di orso – o di tigre, ché forse rende di più l’idea – che si azzannano e graffiano sempre con maggior foga. Perché sanno di avere un loro pari, di fronte. Qualcuno con cui correre affiancati, testa a testa, fiato a fiato. Qualcuno con cui divertirsi, prima di spedirlo tra le braccia di Thanatos. Come suddito di Ade, e non più come suo guerriero. O suo potenziale nemico.
Fino a quando non è successo.
Fino a quando il sangue di Athena non ha iniziato a ruscellare, dentro la Giara.
Fino a quando l’anima di Saga non ha rotto per davvero i sigilli della morte. Ed ha iniziato a richiamare l’armatura. La loro armatura. Ma c’è una nota di urgenza, in quella richiesta. Come se volesse chiedere il permesso a suo fratello. Perché Saga ha bisogno di Gemini. Perché Saga vuole essere il Santo dei Gemelli. Per una volta sola. L’ultima. La più importante.
Se il momento non fosse così dannatamente serio, Kanon rifiuterebbe di cedergli l’Armatura. Come due fratelli che bisticciano per chi deve guidare il trenino e chi fare il capostazione, limitandosi a dire: «Signori, in carrozza!».
Ma adesso, sotto un cielo color melanzana, Kanon sa che deve fare un passo indietro. Che l’armatura spetta a Saga. Che l’Armatura vuole aderire alle membra del suo gemello. Perché Gemini li ha sempre riconosciuti. Entrambi. E ha sempre saputo che quello che aveva più bisogno di lei non era Kanon – Viktoras - ma Saga – Vassilios. Colui che era sgusciato per primo dal grembo materno, scavalcando il gemello pronto a nascere. Il vero fratello minore, tra i due, era Saga. Non Kanon. Kanon che acconsente alla richiesta del fratellino. Cedendogli le vestigia dorate ed indossando il cappellino infeltrito del capostazione. E se mentre consegna l’armatura dei Gemelli a Saga non pronuncia quel:«Signori, in carrozza!», che Vasilios amava tanto sentirgli pronunciare – Perché lo dici così bene, tu! Sembra quasi vero!–, è perché Rhadamanthys penserebbe che è impazzito sul serio.
«Sei impazzito?!»
Come volevasi dimostrare.
Parli del diavolo e spuntano le corna.
Corna nere. Aguzze. Pericolose. Fatte d’ombra e incubo e potenza. Devastante. Annichilente. Calda, come il vento del deserto. Nera, come il peccato quando ti abbraccia, seducente, e ti sussurra e ti promette quello che tu vuoi sentire.
Rhadamanthys ha lo sguardo stupito e attonito di chi ha appena ricevuto uno schiaffo in faccia. Senza un preavviso. Senza un motivo. Cinque dita che lasciano una scia bruciante e rossa sulla guancia. Senza un perché.
«No», replica Kanon. «Non ne ho bisogno, per sconfiggere uno come te.»
Bluffare. Distrarre l’avversario dal correre al Muro del Pianto. Questo deve fare Kanon. Questo deve fare Viktoras. Perché Saga – Vasilios – è impegnato. In una scommessa mortale. E Rhadamanthys sarebbe capace di mandare tutto a gambe all’aria. Anche a costo di rivoltare l’Inferno come un paio di calzini. Rhadamanthys della Viverna. La variabile impazzita. Quello che è meglio tenere lontano – molto lontano – dagli altri compagni. Dagli altri fratelli. È questo, quello che fanno i fratelli maggiori, giusto?, pensa Kanon – pensa Viktoras – mentre si aggrappa alle spalle di Rhadamanthys. E vola via. Con lui. Affidando Athena e l’umanità alle spalle di suo fratello. Tracciando la scia che lui seguirà, e che indicherà ai Santi di Bronzo. Per arrivare da Athena. E consegnarle l’Armatura che la dea sta aspettando.
   
 
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