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Autore: yelle    25/08/2008    2 recensioni
Dedicata alla mia amica Benedetta, che era presente alla stesura di questa fanfiction (come lei ben sa =P).

Oneshot drammatica per Brennan e Booth. E' un momento in cui entrambi sono costretti a fare i conti con sè stessi ed i propri sentimenti.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Seeley Booth, Temperance Brennan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La calca che prese la direzione della porta e il chiasso che ne conseguì furono per Booth elemento di distrazione

Al mondo non v’è alcunché di prestabilito o già deciso, di già scritto o di certo. Non c’è essere umano che possa permettersi il lusso di credere fermamente in qualcosa senza rischiare, senza poi rimanere deluso almeno una volta in vita sua. Non esiste cosa o pensiero che, con la propria certezza dettata dalla sola esistenza, possa aiutare uno solo fra uomini e donne durante il fragile e complesso processo della crescita. Si è da soli a combattere le proprie battaglie di tutti i giorni, senza qualcuno su cui poter contare. Privati di qualcuno su cui poter contare veramente.

 

Era lei, antropologa forense di fama mondiale, che portava sulle proprie spalle inconsapevoli il peso di quell’amara verità, e nemmeno riusciva pienamente a rendersi conto di quanto ciò potesse riuscire a pesare ed essere d’intralcio.

Ed era Booth che, osservandola con gli occhi dell’affetto che provava nei suoi riguardi, riusciva a vederlo in quegli occhi color del mare, in quello sguardo talvolta triste e rivolto al vuoto. Riusciva a notare in lei una solitudine forzata dall’abitudine, tanto intrisa nelle quotidiane gesta da essere ormai diventata un fattore irrinunciabile. Seppure i suoi sorrisi e la sua disponibilità l’aprissero agli altri – per quanto consentito dal suo stesso carattere – la sua intera persona restava comunque un buon mistero per gran parte delle persone che la conoscevano. La ferita in lei mai rimarginata aveva creato nella sua anima un vuoto, fra lei e le persone che ogni giorno la circondavano, che solo in pochi avevano avuto il coraggio di affrontare. Coloro che si erano trovati privi di questo coraggio, Booth poteva dirlo per certo, non potevano neanche realizzare quanto straordinaria fosse la donna che si nascondeva dietro a tanta rigidità. Il suo essere troppo seria e compassata nascondeva ben più di una semplice debolezza da donna insicura. Il suo personale mondo fatto di ossa e film non visti, di padri in carcere e citazioni inafferrabili era ben più interessante e stuzzicante di quanto non potesse apparire agli occhi di un estraneo. E lui voleva circondarsi di quel mondo.

 

 

Temperance Brennan stava contemplando un pezzo di carta seduta alla sua scrivania in una posa solo apparentemente rilassata. Lo tratteneva con le punte delle dita tremanti, come avesse avuto il timore di rimanere scottata nella pelle e nel cuore se l’avesse tenuto in mano troppo a lungo. Era una fotografia di tempi ormai andati, vecchia e consunta quanto la macchina fotografica che doveva averla scattata. Ciò che quell’immagine rimandava nella mente della donna poteva saperlo con esattezza solo lei, ma il cuore rifletteva parte delle sensazioni nelle lacrime che nel mentre le rigavano silenziosamente le guance, così che Booth, spettatore consapevole, potesse farsene un’idea. Stava fermo sulla porta, taciturno, e la fissava nel timore di risultare inopportuno ed estraneo a quel chiaro momento intimistico, di risultare presenza sgradita se fosse rimasto a guardarla per un minuto di troppo, ma al contempo incapace di distogliere lo sguardo dallo spettacolo che gli veniva offerto. Incapace di andarsene. In quell’istante sentiva di non possedere abbastanza forza d’animo. Dopotutto, era Bones, era la sua partner, e lui era certo che, entrando in quella stanza, avrebbe saputo trovare un modo per asciugare quei suoi occhi lucidi.

La osservava e vedeva una donna che aveva paura. Paura di una vecchia fotografia e di rimanerne scottata, e lui era fra una di quelle poche persone che sapeva quanto quest’impressione fosse profondamente vicina alla verità. Era conscio, probabilmente meglio di chiunque altro, quanto lei si facesse scudo di quegli stessi sentimenti che la spaventavano per la forza che avevano nel ferirla nell’anima. Aveva paura di ricevere ferite ancor più profonde di quelle di cui già si era fatta carico negli anni che l’avevano vista come una bambina alle soglie dell’adolescenza.

Lei non alzò gli occhi quando sentì dei passi, gentili e discreti, segnalare l’arrivo di qualcuno sino in fronte alla sua scrivania. Sapeva già chi avrebbe visto nel momento in cui avesse deciso di alzare gli occhi. Li tenne bassi.

“Cosa vuoi, Booth?”

“Pensavo ti interessasse sapere le novità che ho appena trovato riguardo lo scheletro del paracadutista.” Sul suo volto si disegnò un sorrisetto compiaciuto mentre gettava sulla scrivania un fascicolo ancora privo di formale etichetta a fronte. Gli occhi azzurri ed estremamente intensi di lei si alzarono per andare a posarsi sul volto di lui.

“Cos’hai trovato?”

“Non così in fretta. Ti va un caffè?”

“Non ora, grazie.”

“Avanti, Bones, non vorrai star lì a rimuginare su quella vecchia foto ancora per molto, voglio sperare. Puoi tornare a fissarla con quell’aria malinconica più tardi, ché tanto non si muoverà di un centimetro.

“No, Booth, non mi va. Vai pure da solo. Mi aggiornerai quando sarai di ritorno.”

“Come preferisci, ma sai benissimo cosa ti perdi. Raggiungimi, se cambi idea. Ti aspetterò per un po’.”

“Sai bene che non mi muoverò di qui.”

Lui non rispose, limitandosi ad avviarsi alla porta. Si fermò un istante, come a volersi trattenere un attimo di più nella speranza di riuscire a trovare un modo per convincerla a seguirlo, per non starsene rintanata nel proprio ufficio a nascondersi all’impietoso sguardo del mondo. Invano. Fu, però, lei stessa a donargli il pretesto per non compiere quel passo in più verso l’uscita. Sentì il suono di parole inafferrabili vagare per la stanza senza che riuscisse a capirne il senso o il significato. Si voltò verso di lei e rimase spiazzato dagli occhi che vide. L’azzurro cristallino aveva lasciato il posto ad un grigio tetro, senza vita e privo di qualsiasi traccia di speranza. Infossati e blandi, erano qualcosa che non aveva mai visto su quel volto che così tante volte aveva osservato, e che ormai conosceva bene. Le tracce di lacrime di poco prima erano completamente svanite, ma al loro posto era subentrata un’espressione di estrema gravità e sfiducia nei confronti della realtà che ogni giorno osservavano e vivevano. Qualcosa di nuovo e per nulla gradevole.

Le chiese gentilmente di ripetere ciò che aveva appena detto.

“Puoi dire di aver conosciuto il vero amore in vita tua, Booth?” gli chiese, fissandolo apparentemente incerta, poi abbassando lo sguardo a fissare nuovamente ciò che teneva in mano.

Seppur preso alla sprovvista e perplesso dalla domanda, lui provò sinceramente a risponderle.

“Ho conosciuto l’amore. Diverse forme di esso, in verità. Ho conosciuto quel sentimento che ti rende a qualsiasi età un ragazzino alle prime armi e preda degli ormoni. Ho conosciuto l’amore adulto e responsabile, quello vittima  e prigioniero di doveri e costrizioni che ti impediscono di viverlo come dovresti. Ma se parli dell’amore che ti fa perdere il controllo... di quello che ti assorbe ogni energia lasciandoti senza fiato, quell’amore che ti si insinua nelle vene e diventa una parte indispensabile di te, un qualcosa senza cui non riesci più a vivere, né respirare... allora no. Credo di poter dire con relativa certezza di averne vissuto altro che un surrogato.

Lei non proferì verbo alle sue parole, né sembro intenzionata a farlo. Lui allora tornò sui suoi passi e andò ad appoggiarsi alla scrivania di lei, nel tentativo di avvicinarla, di stabilire un contatto.

“Ehi, Bones, cosa c’è? Cosa stai cercando di fare?”

Solo allora la vide alzare lo sguardo e, ancora apparentemente muta, porgergli il pezzo di carta che aveva tenuto stretto in mano sino all’istante immediatamente precedente. Booth vide in quel gesto, e nei suoi occhi, una malinconica tristezza a cui capì, al momento, di non avere completo accesso. Osservò con meticolosità i lineamenti della donna e il velo di amarezza che ne velava lo sguardo, prima di spostare la propria attenzione alla fotografia.

Ritraeva l’immagine di una famiglia felice, come poteva ricordare lui stesso di aver avuto nella propria infanzia. Un padre e una madre tenevano in braccio la propria bambina, due raggianti e sinceri sorrisi ad illuminare entrambi i volti. Ma era la bambina a catturare la luce e l’attenzione di chi s’introduceva furtivamente in quell’attimo passato. Era una bella bimba di circa due anni, i riccioli corti e scomposti ad incorniciarne il viso, un’espressione di gioia, pura serenità ed adorazione interamente rivolto alla madre, che le stava di fronte. Era il ritratto di ciò che Bones aveva avuto in quei primi anni della sua vita, un ritratto estremamente intimo e privato, e guardandolo Booth si sentì più che mai a disagio, come se fosse stato sorpreso a guardare quella stessa scena dal buco della serratura, come un voyeur.

Con il suo sguardo color neve sporca, lei gli rispose infine con un’altra domanda.

“E l’amore materno, Booth? Quello che ti nutre e ti cresce quando sei figlio, ancor prima di uomo? Quello puoi dire con assoluta certezza di averlo ricevuto?

Solo allora lui iniziò a vedere e a capire dove lei volesse andare a parare con quella conversazione. Comprese che tentava semplicemente di farsi del male da sola, e decise di provare ad impedirglielo assecondandola.

Si sedette in una delle due poltrone in fronte alla scrivania.

“Lo sai, Bones... io e te siamo fortunati. Possiamo entrambi dire di essere stati amati, di non essere stati messi al mondo per stupidi impulsi dettati da emozioni come l’invidia o la gelosia.

“Non hai risposto alla mia domanda.”

“Sì che l’ho fatto. Sono stato amato da mia madre esattamente per ciò che sono, senz’altri meriti o glorie. Ero, sono e rimango suo figlio, e a persone di buon cuore tanto basta. E se ti fermassi un momento a pensarci, se ci pensassi veramente, accantonando per un momento soltanto il tuo rancore e la giustificata amarezza, ti accorgeresti che nonostante tutto anche tu sei stata una figlia amata, amata davvero. E sai perché ne sono tanto certo?”

Lei scosse la testa, un’espressione da bambina impaurita dipinta sul viso, innocente esattamente com’era la donna che vi si nascondeva dietro.

“Lo so perché sei tu, Bones, perché sei esattamente come sei. Una donna semplice, incapace di qualsiasi atto di cattiveria gratuita, capace di donare amore esattamente come noi tutti, seppure a suo personale modo. È vero, sei una donna estremamente chiusa, se qualcuno ti si avvicina troppo lo respingi come fosse una minaccia, e non perdi mai occasione di mantenere le distanze. Ma non è questo che può fare di te una persona cattiva. Hai comunque anima, passione per ciò che fai. Ti interessi seriamente del benessere delle persone che ti circondano. E non hai mai permesso alla tua amarezza di crescere ed accecarti, né alla rabbia di affogarti nei rimpianti rendendoti debole. Sei una donna forte, forse più di quanto tu stessa creda, nonostante ciò che hai dovuto vivere ancora bambina. Tutto questo dice molto su come sei cresciuta. Hai conosciuto l’amore di tua madre e tuo padre, e non è ciò che hai passato negli anni successivi a cancellare ciò che hai ricevuto da loro. Non essere ingiusta con i tuoi. Sei stata amata, e lo sei ancora oggi.”

La guardò in silenzio per una troppo breve manciata di secondi, preda di pensieri che non sarebbe stato lui stesso in grado di districare e tradurre al proprio cervello, poi si dileguò, o tentò di farlo, nel modo più silenzioso possibile. Venne fermato ancora una volta dalla voce di lei che, all’improvviso, tornò a farsi sentire con il tono di sempre.

Aspetta, Booth. Credo che alla fine verrò a prenderlo, quel caffè.

Gli occhi grigi tradivano la tempesta che ancora infuriava dentro di lei, ma il volto pallido, nella sua perfezione, sembrava aver momentaneamente ritrovato parte della dignità che era solita mostrare al mondo. La sua unica arma di difesa da lei conosciuta. Ne fu rincuorato e un poco compiaciuto, nella convinzione di meritarsi il mite sorriso che era in quel momento comparso sul viso della sua partner.

Quando lei si avvicinò e gli si accostò, lui non riuscì a impedirsi di volerla toccare ed essergli vicino più di quanto già non fosse. Poggiò il proprio braccio sulla sua spalla, un mite tentativo di camuffare da semplice gesto amichevole tra uomini quel suo desiderio.

 

Era ormai un’immancabile verità nella sua quotidianità che quel bisogno che sentiva di esserle il più vicino possibile, vicino come nessun altro lo era stato con lei fino a quel giorno, fosse un sentimento ormai saldo e radicato nella sua anima, crescente con il passare dei giorni e degli istanti rubati e vissuti insieme.

E non si trattava più, come invece aveva creduto che fosse, di una semplice affezione fra partner, fra colleghi di lavoro. Aveva già provato quelle emozioni, in passato, ed ogni volta si trattava di donne che avevano preso in prestito il suo cuore per poi riconsegnarglielo spezzato e mal ridotto.

Quando desideri passare ogni tuo minuto disponibile con una persona ed una soltanto.

Quando manca al tuo cuore,  al tuo spirito e al tuo sangue, fino a prosciugarti di ogni altra linfa vitale.

Quando vorresti vivere ogni tuo respiro di ogni tuo giorno circondandoti di lei, del suo profumo, del suo vivere.

Quelle erano emozioni più forti, a cui lui in quel momento non sapeva dare risposta, né sapeva come affrontare. E se fosse stato davvero ciò che sembrava? In quel caso avrebbe avuto paura di seguire la ragione, ben sapendo che solo essa sarebbe stata in grado di dargli una risposta razionale degna di venir presa in considerazione. Ma sapeva anche che non avrebbe mai potuto, né sarebbe riuscito a farlo evitando le improponibili conseguenze, dare sfogo a quelle basilari e umane sensazioni che si trovava a provare. Darsi quindi una spiegazione diversa, che non implicasse lo stesso esito e le medesime conclusioni, era per ora la cosa migliore che potesse ritrovarsi a fare.

 

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Booth stava dimostrando, come sapeva, che una tazza di caffè bollente poteva riuscire ad aggiustare molte cose ed ad asciugare molte lacrime. Anche quella volta ebbe la conferma di avere maledettamente ragione: gradualmente vide le guance di Bones accendersi e colorarsi di un non poco vago rossore dovuto al calore. Le donava, e mentre la fissava sempre più incantato si scoprì a desiderare che quel momento durasse a lungo, che in quel locale ci fossero solamente loro e che quello sguardo color uragano si tingesse di nuovo del color del cielo limpido. Quanto poco valore dava, in quel momento, a ciò che di materiale li circondava. Avrebbe rinunciato a tutto pur di regalare ad entrambi un giorno intero, ed altri ancora, esattamente identici a quegli ultimi minuti.

 

Eppure la realtà ogni minuto perfetto che ti regala se lo riprende, bussando alla tua porta in modo improvviso, brusco e violento. E quel giorno non fece eccezione. Entrambi immersi nella nota malinconica di quella serata, non prestarono attenzione all’universo circostante, troppo impegnati a ricucire le proprie vecchie ferite o a dare corda a pensieri dettati dal cuore. Fu così, per disattenzione ed egoismo, che Booth si vide scomparire Bones da davanti i suoi occhi. Dov’era prima seduta, lo sguardo rivolto verso la notte da cui la vetrina del locale la separava, assorta a mescolare distrattamente il secondo caffè che aveva ordinato, ora la sedia era vuota, e lei fuori dal suo campo visivo. Seguendo i versi di dolore e sgomento che arrivavano al suo udito, l’uomo si chinò e trovò la collega stesa a terra. Bones sembrava in pieno stato di choc, e il motivo gli fu presto chiaro: non c’era modo di evitare di accorgersi che la gamba sinistra di lei aveva iniziato a perdere sangue a profusione, e Booth lo fece con malcelato terrore.

Non volle rendersi conto del frastuono e della confusione che all’improvviso presero vita all’interno del locale. Esattamente come pochi minuti prima, ma questa volta per ragioni ben diverse, si isolò con vista e udito da tutto ciò che li circondava. Non importava nulla di ciò che non la riguardasse. Guardandola attentamente vide che la donna decisa e fiera di sempre era riaffiorata, esattamente quando entrambi ne avevano più bisogno. Complessivamente sembrava in buone condizioni fisiche, a parte la gamba. Si ficcò allora una mano in tasca, e ne tirò fuori il fazzoletto con cui provvide a tamponare la ferita, apparentemente solo superficiale. Non c’era segno di quale che potesse esserne la causa. Gli occhi spalancati e vigili e il corpo teso in una posizione pronta allo scatto lo rassicurarono sulle condizioni generalmente buone di lei e sull’orrore apparentemente e fortunatamente solo sfiorato. Per null’altro motivo permise all’ambiente circostante di distrarlo e di distogliere la propria attenzione da lei.

La calca che prese la direzione della porta e il chiasso che conseguì a ciò che aveva portato alla ferita alla gamba e di cui nessuno dei due aveva ancora compreso l’origine furono per Booth elemento di distrazione. Portò la mano sulla fondina, senza però prendere la pistola. Scatenare un caos ancora maggiore di quello che già non fosse presente nel locale era l’ultima cosa che voleva. In più Bones era ancora a terra, e lui sapeva quanto la gente potesse diventare egoista e mortalmente pericolosa nel cercare di salvarsi la pelle.

Si acquattò dietro ad un divanetto poco lontano e cercò di fare mente locale. Non riusciva ancora a capire cosa avesse provocato quel chiasso, e quale ne fosse la causa scatenante. Poi udì un suono che lo raggelò sul posto. Lo conosceva sin troppo bene per sperare di sbagliarne l’origine. Qualcuno, di cui non aveva ancora accertato sesso né taglia, aveva appena sparato un colpo di pistola all’interno del locale. Pregando perché nessuno fosse stato colpito, Booth si azzardò a guardare, e quello che vide non gli piacque per nulla.

Erano in due, uno più grosso dell’altro. Entrambi celavano la propria identità, e questo era un buon segno. Come dato di fatto, era meglio che niente. Uno sembrava estremamente nervoso, Booth lo vedeva tremare a qualche metro di distanza. L’altro, al contrario, sembrava un esperto dell’ambiente. Si mostrava estremamente sicuro, e si muoveva come conoscesse già da tempo il luogo. Un’accoppiata davvero strana e mal assortita. Decidendo che ruolo ricoprire in quella determinata situazione, si rese conto di avere l’obbligo di proteggere quelle decine di persone ancora presenti, e ora bloccate lì dentro, esattamente come lui e Bones. Così cercò di attirare l’attenzione dei due sparando un colpo di pistola verso l’alto, a casaccio. Non fu una buona idea: non era difficile per quei due, ora, immaginare quale fosse la sua identità e la sua posizione all’interno del locale. Le conseguenze furono immediate: il più nervoso fra i due malviventi gli sparò addosso una raffica di colpi, mancandolo con ognuno di essi. Era davvero un novellino, pensò Booth, non era di lui che doveva preoccuparsi. Mentre quello sparava all’impazzata, infatti, l’altro si occupò di svuotare la cassa, e solo allora fece uso della sua arma, a sangue freddo e senza sbagliare. Colpì infatti un ostaggio, il più vicino, alla gamba, e incurante delle urla lo trascinò con sé fino all’ingresso. Mentre lui si assicurava l’uscita e il complice più inquieto lo seguiva dappresso, Booth prese l’occasione di quell’attimo di distrazione per disarmare quello che sembrava essere poco più di un ragazzo, il più fragile. Prendendolo alle spalle strinse il suo collo nella presa del suo braccio, stringendo fino a farlo svenire. Messo ko il primo non restava altro da fare che pensare al secondo e liberare l’ostaggio rimasto, ma mentre tentava di raggiungere l’ingresso la sua attenzione fu attirata da un gruppetto di persone chine poco lontano. Non si sarebbe fermato a guardare se non avesse saputo con certezza che era in quel punto preciso che aveva lasciato Bones solo pochi minuti prima. Nonostante la paura e il terrore primordiale che presero ad attanagliargli il cuore, nonostante sapesse che lasciare minuti di vantaggio al rapinatore poteva costargli caro, nonostante mancasse ancora un ostaggio da liberare e sapesse che la polizia, sempre che qualcuno avesse avuto abbastanza presenza di spirito da chiamarla in quel caos di violenta sorpresa, non aveva ancora avuto il tempo di arrivare sul posto, non gli importò che di constatare con i propri occhi le condizioni di lei. Ma d’altronde non poteva esserle successo nulla. Il primo rapinatore non aveva sparato che alla gamba dell’ostaggio che si era poi portato dietro, mentre l’altro, quello che lui aveva steso, aveva sparato tutti i propri proiettili contro di lui, nella vana speranza di liberarsene. La rapina era stata troppo veloce e precisa perché potesse essergli sfuggito qualcosa, e quando l’aveva lasciata stava addirittura meglio di come l’avesse vista quella stessa mattina. Eppure mentre si avvicinava si scoprì a provare un vago senso di inquietudine, come se il suo cervello avesse registrato qualcosa di effettivamente errato senza comunicarglielo. Quando raggiunse il piccolo gruppo di persone e si chinò sulla persona stesa a terra, si sorprese comunque di scoprire che fosse proprio la sua partner.

“Bones!” esclamò a viva voce scuotendola con forza. Inutilmente. Gli occhi chiusi di lei non si aprirono, e non un suono di risposta uscì dalle sue labbra chiuse.

“Dannazione…” Booth non poté fare a meno di imprecare. Mentre voltava la sua partner sulla schiena scoprì che la causa di tutto quel trambusto era la ferita alla gamba. Era molto più pericolosa di quanto non gli fosse sembrata una dozzina di minuti prima: la ferita era diventata uno squarcio che andava circa dal ginocchio alla coscia, impreciso e irregolare nella sua spietata concretezza. La carne ai bordi era slabbrata e sporca. Probabilmente si stava infettando velocemente. Dopotutto non sembrava particolarmente grave, ma l’incoscienza di lei trasformò la sua inquietudine in puro panico.

“Bones, avanti…. non farmi scherzi, svegliati.” La schiaffeggiò gentilmente, ma con decisione, la prese per le spalle e la scosse, le sollevò le palpebre per constatare la reazione delle pupille…. ma nulla. Nessun segno di vita arrivava a lui da quel corpo profanato. Solo la carne rispondeva a ciò che l’aveva lacerata con violenza, continuando imperterrita a privare la sua proprietaria di prezioso sangue. Prese allora a schiaffeggiarla con più forza, la paura di ciò che vedeva accadere sotto ai suoi occhi ormai più forte di ogni remora.  “Non pensarci neanche un istante, non credere che te lo lasci fare! Forza, Bones, non lasciarmi, resta con me...”

Come se fosse riuscita a sentirlo attraverso quella marea oscura che la stava travolgendo, lei d’un tratto spalancò gli occhi grigio argento e cercò di respirare, ma il tentativo isterico le impedì di trovare la calma necessaria, quella calma e quell’aria di cui il suo corpo aveva bisogno.

“Bones!” la chiamò Booth, sollevato di vederla cosciente. “Respira, Bones! Fai respiri profondi, non farti prendere dal panico.

Lei gli rispose obbedendogli. Era ancora scossa e tremante, ma per lo meno il suo corpo riusciva a rispondere al bisogno primario di aria.

Costretto dalle circostanze per l’assoluta necessità che sentiva di portare Brennan via di lì, le sollevò delicatamente gambe e spalle e la prese in braccio, diretto all’uscita. Ma si era già completamente dimenticato che mancava ancora un rapinatore da fermare. Lo ricordò quando se lo trovò davanti all’uscita. Entrambi con le mani impegnate, uno dall’ostaggio, l’altro dalla propria partner, rimasero a fissarsi con stupore per una frazione di secondo, poi il rapinatore, colto alla sprovvista, si mise a urlargli contro di non muoversi. Booth dal canto suo, ben lungi dall’idea di compiere un qualsiasi atto stupidamente eroico, lo avvisò delle sue intenzioni. Non gli avrebbe arrecato alcun danno. Non con lei, non quando aveva un così estremo bisogno di andare in ospedale, di accertarsi delle sue condizioni, di starle vicino. Avrebbe lasciato andare il mondo intero per avere solamente il tempo di ascoltare un dottore dirgli che andava tutto bene, che non aveva nulla di cui preoccuparsi. Si vide però costretto lui stesso a dare a qualcun altro quella stessa rassicurazione che avrebbe pagato per sentirsi dire.

“Non preoccuparti, non ho la minima intenzione di farti del male. Voglio solo portare in ospedale questa donna, non ti chiedo altro che di farmi passare. Ti prego.”

Forse implorare non era molto da agente dell’FBI, ma a chi importava? Non certo a lui, in quel momento.

“Cosa sei, uno sbirro?” chiese lui con voce roca, forse per via di un vizio irrinunciabile, forse per via del camuffamento. “Alza i tacchi e torna dentro, finché sono qui non si muove e non passa nessuno!”

In quel preciso istante, sotto gli occhi dei due uomini e dell’ostaggio implorante, si fermarono in malo modo sul marciapiede tre volanti della polizia, che si andavano ad aggiungere ai due solitari agenti di quartiere che già bloccavano il rapinatore sul marciapiede. Qualcuno alla fine li aveva avvertiti. In tutta risposta il malvivente puntò loro addosso l’arma e sparò tre colpi. Uno colpì una delle gomme, gli altri due andarono a vuoto. Vedendo gli sbirri scendere dalle macchine e puntargli addosso le loro armi, prese paura e decise di puntare tutto su Booth.

“Non avvicinatevi o gli sparo dritto in fronte!”

Vista la poca distanza che li separava, e non dubitando minimamente che fosse un uomo di parola, Booth sentì un rivolo di sudore freddo scendergli giù per la schiena, ma non aveva tempo di badarci. Approfittando del fatto che l’altro era impegnato a tener d’occhio le quattro coppie di poliziotti, Booth lo aggirò con cautela, ma non fu abbastanza svelto ed avveduto: il rapinatore si accorse della sua mossa e, non avendo la minima intenzione di lasciare andare quella che avrebbe potuto rivelarsi la sua carta per uscire vivo e libero da quel casino, gli intimò duramente di fermarsi. Sparò l’ennesimo colpo di pistola, forse il suo ultimo, mancando inspiegabilmente il bersaglio. Ma Booth non fece a tempo a ringraziare la sua buona stella che dovette bruscamente rendersi conto di trovarsi nel bel mezzo di un fuoco incrociato: ogni poliziotto stava scaricando la propria arma sul ladro, e lui poteva dire di trovarsi sulla loro linea di tiro. Immediatamente dopo l’amara realizzazione, quasi a dargli ragione, avvertì un dolore lancinante alla spalla, come se qualcuno gli stesse sfregando addosso un attizzatoio rovente quanto l’inferno. Imprecando cercò di trovare un riparo per sé ed il suo prezioso carico, ma non riuscì ad evitare un altro colpo di rimbalzo, che lo beccò nel ginocchio. Poggiò a terra la collega, ansimante e sofferente, e in quel momento si dimenticò delle pallottole e del dolore: Bones stava sussurrando qualcosa che lui non riusciva a comprendere. Un pallore spettrale sino a quel momento assente era comparso sul suo volto. Il sudore le imperlava la fronte. Gli occhi lucidi non di lacrime segnalavano che qualcosa non andava. Lei socchiuse gli occhi. Quando parlò, la sua voce era poco più di un debole sussurro. “Fa…. male… Booth, fa dannatamente male. Ti prego, fai… qualcosa... Spegnilo…”

“Cosa? Bones! Cosa devo spegnere?” disperato nel tentare di capire cosa lei stesse cercando di dirgli, prese a scrutarne il corpo in cerca di risposte. La ferita alla gamba sembrava migliorare. Aveva smesso di sanguinare, e il sangue già iniziava a seccare. Nel risalirne le curve con lo sguardo, inorridì per la seconda volta in pochi minuti: un’altra ferita, stavolta sul petto in un punto dannatamente troppo fragile e pericoloso, si era aperta per colpa di uno di quei proiettili appena sparati. Fresca e terribile, sputava sangue in un rivoletto docile, ma fluido ed inarrestabile. Incurante delle proprie stesse lesioni, si strappò un lembo della propria camicia da usare come tampone, e lo premette sulla ferita. Poi ne usò un a striscia per stringere e tenere unito il tutto. Quando poi si alzò per chiedere aiutò si accorse di non avere più energie: le ferite, l’adrenalina fluita improvvisamente via dal suo corpo e gli shock ricevuti gli procurarono un afflusso di sangue al cervello eccessivo per le sue condizioni Fu spettatore inerme di fronte al capovolgimento del mondo intero davanti ai suoi occhi, e non riuscì a muoversi nemmeno quando percepì il terreno mancargli sotto i piedi e il marciapiedi cadergli pericolosamente e troppo velocemente addosso. Il tempo di cadere carponi e il buio e un senso di vuoto lo avvolsero come una coperta.

 

 

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Eri la mia sola casa

Occhi d’argento

Desidero vederti risplendere

E sentiremo questo peso

Scivolarci via nel tempo.

 

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Odiava aprire gli occhi e non riconoscere l’ambiente circostante. Lo faceva sentire ogni volta fuori posto. Non era mai un buon segno, quello di svegliarsi in un letto che non fosse il suo. E anche quella volta non faceva eccezione: guardandosi intorno si rese conto con fastidio di essere in una tipica stanza d’ospedale. Lo circondavano pareti e lenzuola di un asettico colore bianco; le tendine invece erano di pessima qualità e di una tonalità di verde sporco che non aveva ancora avuto la fortuna di vedere in vita sua.

Tentò di ricordare cosa ci facesse in quel posto, ma il suo cervello, probabilmente e momentaneamente fuori uso, non lo aiutò per nulla. Fece un rapido riassunto delle proprie condizioni e si scoprì a chiedersi cosa ci facesse a letto: aveva una semplice ferita di striscio alla spalla e una benda al ginocchio. Nulla che necessitasse un ricovero, dal suo punto di vista. Si alzò dal letto, fece qualche passo per la stanza e constatò che le gambe lo reggevano, seppur doloranti. Era messo piuttosto bene, e ciò aumentava il suo sconcerto. Quando sentì aprirsi la porta si voltò giusto in tempo per vedere Bones eretta sull’ingresso, che lo guardava con il suo classico e abituale cipiglio fiero e severo. Lo adorava. Tranne quando veniva usato contro di lui.

Ma fu quella visione di lei ritta sulla soglia a smuovere qualcosa nei suoi ricordi. E fu con orrore ed improvvisa consapevolezza che vide l’immagine sgretolarsi, gli avvenimenti della giornata passargli davanti agli occhi e il mondo capovolgersi. Di nuovo.

Si svegliò bruscamente, gridando. Ora ricordava. Tutto, con cristallina chiarezza. E non avrebbe voluto.

Si guardò intorno e si accorse che era tutto identico a come l’aveva sognato: pareti e lenzuola bianche, pessime tende alle finestre, la ferita di striscio alla spalla e la medicazione al ginocchio. Si alzò bruscamente, si vestì come meglio potè con ciò che trovò sulla sedia accanto al letto e corse fuori, per quanto le gambe tremanti gli permisero. Trovare Bones era la sua unica priorità, in quel momento. Cercò di non far caso alle infermiere che cercavano di placcarlo per rispedirlo a letto, né ai dottori che gli stavano dietro per cercare di convincerlo a tornare indietro. Camminava, o meglio correva, per i corridoi senza curarsi di loro, né dei pazienti o dei civili in attesa di essere ricevuti, né dei dolori che gli trafiggevano corpo e gambe. Non era messo tanto bene quanto aveva creduto in quel primo momento.

Poi li vide. Erano tutti lì, assiepati in una sala d’attesa grande quanto il bagno del Jeffersonian. Zach, Hodgins, Cam e Angela. Le ultime portavano sulle guance tracce di lacrime ormai asciutte. Avevano pianto.

Fu Angela stessa ad accorgersi di lui e a corrergli incontro. “Booth!”

All’esclamazione della donna, anche gli altri si accorsero di lui.

“Seeley! Cosa diavolo ci fai qui?”

“Quello che ci fate anche voi, Cam. Come sta?”

“I dottori ci avevano detto che il sedativo avrebbe fatto effetto ancora per un’ora. Non dovresti essere in piedi. Anzi, non dovresti neanche essere sveglio. Altrimenti saremmo da te, ora.”

“Non importa. Come sta lei?”

“Sul serio, Booth” esclamò Angela “non dovresti fare sforzi. Perché non...

“Non importa, ho detto!” la interruppe lui in malo modo. “Smettetela, ok? Ditemi come sta lei.”

“Sta bene, Booth” gli rispose con gentilezza Angela. “Puoi smetterla di preoccuparti. Ora sta riposando, ed è quello che dovresti fare anche tu. Torna a letto.”

Booth tentennò un istante. Davvero stava bene? Non aveva bisogno di lui, di qualcuno che si prendesse cura di lei? All’idea che potesse essere veramente così sentì il suo corpo appesantirsi, comunicandogli in qualche modo di quanto in realtà avesse ancora bisogno di riposare.

“Booth...” Hodgins parlò per la prima volta, e il tono usato mise l’altro sull’attenti. “per il rispetto che provo nei tuoi confronti, sarò sincero.” Il gelo calò su quelle parole. Alle sue orecchie suonavano sibilline, ma l’uomo sapeva che, qualunque fosse stato il loro significato, non era alcunché di auspicabile. “Brennan non sta bene. Non quanto te. È incosciente ormai da diverse ore, e ha perso molto sangue.

Un singulto soffocato deviò la sua attenzione da Hodgins ad Angela. Capiva, ora, di non aver ancora guardato uno di loro con attenzione e scrupolosità. Ad un attento esame gli risultava ora chiaro che l’espressione relativamente tranquilla di poco prima era solo una penosa maschera che si erano sforzati di indossare per il suo bene.

Tornò a fissare intensamente Hodgins.

“Non te l’abbiamo detto perché non puoi fare alcunché per lei, per aiutarla. Sei più utile se vai a riposarti e a recuperare le energie. Lei non si muoverà di qui.”

“Dimmi la verità, Hodgins. Cosa c’è ch dovrei sapere?” La voce di Booth era un blocco di ghiaccio, ben deciso a non far trapelare alcuna emozione. “Mi state nascondendo qualcosa, ve lo leggo negli occhi... ma non so cosa.”

A quelle parole l’altro si lasciò sfuggire uno sguardo di sottecchi con Angela. Fu Cam a rispondergli.

“Booth... promettimi che se te lo diremo dopo te ne tornerai nella tua stanza...”

Lui la guardò con occhi di fuoco, ben deciso a non concedere più alcunché. “Parla, Camille. Cosa c’è, ancora?”

“La verità è che non c’è la certezza che riesca ad uscire da questo ospedale. E’ in coma, Booth. Da quando l’hai portata qui. Non sanno se si risveglierà, ma più rimarrà incosciente, più alto sarà il rischio che non apra più gli occhi.

Stavolta il silenzio che li circondò era carico di così diverse emozioni da parlare per tutti loro.

Terrore.

Angoscia.

Ansia.

Orrore.

Puro panico.

Rassegnazione.

Booth si lasciò stancamente cadere su una sedia, prendendosi il volto fra le mani.

 

Il dolore uccide nei modi meno prevedibili. Ti coglie alla sprovvista, strappandoti ogni lembo di dignità e lucidità che ancora ti appartiene, privandotene e lasciandoti null’altro che un guscio vuoto a proteggere la tua anima.

Era esattamente ciò che scoprì di avere nel punto esatto in cui abitualmente il suo cuore batteva e pulsava: uno squarcio brutale e feroce. Bruciava come fuoco, togliendogli ossigeno. Dolore, frustrazione e sgomento sgorgarono dalla sua anima come sangue fresco da una ferita.

No.

No, no, no-no-no. Non stava accadendo. Non lasciarti travolgere da questo terrore selvaggio.

Riuscire ad impedire al suo spirito di abbandonarsi a quella marea nera ed informe era come ammettere di non avere fede. Si lasciò andare a quell’angoscia che impedisce al cervello umano di pensare razionalmente.

L’ignoto così oscuro. Nulla di meno confortante per la sua anima persa.

Una scia di sangue davanti agli occhi gli gridava in silenzio di seguirla sul fragile confine fra paura e incubo. E lui sentiva di non avere altra scelta, se non quella di obbedire.

 

 

--- ---

 

 

Due settimane dopo non era cambiato nulla.

La routine aveva ripreso il normale corso, nella loro vita. L’unica cosa che pesava nella sua diversità era il fatto che per poter vedere Bones erano tutti costretti a turni di una durata massima di mezz’ora ogni 4 ore per ognuno. E nessuno poteva sperare in un dialogo a doppio senso.

Mancava a tutti, questo era certo. Mancava la sua competenza e la sua bravura come antropologa. Mancava ad Angela come la migliore amica che effettivamente era; mancava a Zach come mentore.

Ma chi girava per il Jeffersonian come se gli fosse stato strappato un braccio era Booth. E nessuno era arrivato a chiedersi perché, lo sapevano tutti. Era lui la persona che soffriva di più intimamente, ed era anche colui che lo dava meno a vedere.

Ciò che però si sforzava tanto di nascondere a sé stesso, come a proteggersi da un dolore che era impossibile riuscire ad evitare, glielo si leggeva negli occhi, freddi e duri come non lo erano mai stati. Nemmeno quando vedeva arrivare Parker per la visita giornaliera (concessione straordinaria di Rebecca) si poteva notare un sostanziale miglioramento. Gli era davvero stata strappata l’anima, e non sarebbe più tornato come prima sino al momento in cui non l’avesse riavuta indietro.

 

Camminava per quelle stanze e lungo quei corridoi come se non avesse mai visto quel luogo, anziché averlo precedentemente frequentato per mesi, per anni.

I suoi occhi si perdevano nella nebbia oscura che lo nascondeva alla folla. Attraversato da dolore e dalla pioggia, inebriato da quel senso di mortale solitudine, era un semplice fantoccio che compiva i gesti di un estraneo. Non poteva dire di vivere, ma solo di sopravvivere.

Un burattino era più vivo di lui, una qualche parte razionale del suo cervello ben lo sapeva. Ma non gliene importava.

Tentare di sopravvivere a tutto quel male, a quel dolore, a tutta quell’angoscia era l’esperienza più dura che gli fosse mai capitata in vita sua. Mai aveva provato un tale vuoto dentro , tale da poter dire di non avere alcunché a reggerlo in piedi. Eppure camminava.

Vagava come un sopravvissuto ad una strage in zona di guerra. Era conscio dei movimenti che il suo corpo compiva, ma qualcosa in lui era come bloccato. Non ricordava come fosse la vita prima che accadesse tutto questo, sapeva solo che qualcosa era andato storto e che doveva sperare che tutto tornasse com’era prima. Ma iniziava a dimenticare come la sua vita fosse, prima.

 

 

--- ---

 

I was open to pain and crossed by the rain

And I walked on a crooked crutch

And came out with my soul untouched.

I hid in the clouded wrath of the crowd

But when they said “sit down” I stood up

Growin’ up.

I took month-long vacation in the stratosphere

And you know it’s really hard to hold your breathe

I swear, I lost everything I ever loved or feared,

I was the cosmic kid in full costume dress.

Well, my feet they finally took root in the earth

But I got me a nice little place in the stars

And I swear I found the key to the Universe

In the engine of an old parked car.

I hid in the mother breast of the crowd

But when they said “pulled down” I pulled up.

Growin’ up.

 

--- ---

 

 

Tutto ciò che cercava, che necessitava era un posto dove riposare. Dove posare il capo, dimenticare i pensieri e trovare riposo alla propria anima stanca.

Ma non riusciva a trovarlo, quel luogo. Ovunque andasse, ovunque si sdraiasse in cerca di conforto non trovava altro che nuovo dolore. E allora, davvero, non gli restava che rassegnarsi, tentare di abbandonarsi a quell’ansia, a quel riflusso di ricordi ed emozioni, e rinunciare alla pace che ormai non sarebbe più riuscito a trovare, se non con lei accanto.

 

Angela ormai sapeva dove andarlo a cercare.

Se non lo trovava a vagabondare senza meta per i corridoi, l’avrebbe sicuramente trovato nell’ufficio di Bones. Era ormai diventato, quel luogo, una seconda casa, un reliquiario in cui si circondava di lei più che poteva. Per non lasciarla andare, per impedire a sé stesso di dimenticare la sua vita con lei. Era il suo antidoto a quella parte di Bones vuota ed inanimata che si rifiutava di andare a trovare in ospedale. Il suo modo di starle accanto. E Angela lo comprendeva, in qualche modo. Il problema era che lui stesso non si perdonava di quel comportamento. Incapace di correggersi, si castigava per quel suo starle lontano, per quel rifiuto che si frapponeva tra lui e la sua partner. Non viveva, e non solo per il dolore che gl’impediva di respirare, ma anche per la punizione che si stava infliggendo da solo. Sino a che lei non fosse tornata a vivere, neanche lui sarebbe esistito.

 

Angela aprì la porta dell’ufficio e, ancora una volta, lo trovò seduto sul divanetto, inerme, un guscio vuoto in attesa di qualcosa. Esattamente come tutti gli altri, sapeva esattamente che cosa.

“Hey...” lo chiamò con voce atona lei, ormai incapace di sforzarsi a tenere una linea ottimista. Era stremata e non più in grado di trovare la forza necessaria a fingere.

Lui non ricambiò, e lei allora andò a sederglisi esattamente di fronte, prendendogli il viso fra le mani ed impedendogli qualsiasi mossa. Ora era costretto a guardarla.

“Booth, noi stiamo andando a trovarla.” Non aveva bisogno di specificare chi o che cosa. “Vieni con noi, per una volta.”

No, le risposero i suoi occhi.

Lei lasciò cadere le braccia, non ancora sconfitta.

“Tesoro, lo so che stai male. Noi tutti siamo messi per niente bene. Tiriamo avanti a fatica, esattamente come te, e siamo tutti in attesa del momento di ricevere la chiamata. Ma andiamo avanti, viviamo. Non è isolandoti da tutto che risolverai questa cosa. Non c’è soluzione. Non per un essere umano come te e me, senza alcuna cognizione medica. Bones è in buone mani, lo sai anche tu. Ma vieni a trovarla. Lo so che ti manca, e sono certa che tu manchi a lei.

“Come faccio a mancarle, se neanche mi può vedere?” proruppe allora lui, alzandosi, incapace di stare fermo, ed urlandole addosso la propria frustrazione.

“Non ti può vedere, ma nulla ti dice che non ti possa sentire.”

“E’ in coma, Angela. Certo che non mi può sentire. Non mi vede, non mi sente e non mi può parlare. Non può fare assolutamente nulla. Non riesce neanche a respirare autonomamente!

“Booth, i medici continuano a dirlo. Parlarle, toccarla... farle sentire che ci siamo, che le siamo vicini... le può essere d’aiuto, può alimentare la speranza che un giorno riapra gli occhi.

“Cazzate!”

“Non è vero, e lo sai benissimo. Smettila di svicolare e di tentare continuamente di trovare scuse per assecondare il tuo comportamento. Non puoi evitarla per sempre. Devi andarla a trovare. Sai benissimo che lei lo farebbe.”

Quell’ultima carta usata da Angela lo spiazzò.

Ne era cosciente, lo sapeva benissimo. Quante volte, parlando tra sé e sé, si era detto la stessa cosa. A parti invertite, lei sarebbe andata a trovarlo ogni giorno, esattamente come tutti gli altri. E si sentiva uno stronzo per questo. Cos’aveva fatto, lei, per meritare un trattamento talmente diverso?

“Booth...

Angela arrivò a distoglierlo da quei pensieri, garbatamente, cercando di non essere altro che gentile.

“Booth, non importa ciò che è stato. Vieni, e vedrai che ti sentirai meglio.”

Lui la guardò, lasciando trapelare per un solo istante il turbinio di disperazione che covava dentro di lui. Angela sapeva che dovevano salvarlo prima che fosse troppo tardi, prima che si lasciasse andare e diventasse qualcosa di cui poi si sarebbero pentiti.

“Avanti...” lo esortò ancora. “Non ti ammazzerà, e ciò che non ti uccide ti rende più forte. Ti sentirai meglio, dopo. Te lo assicuro.”

“Come?” le chiese lui con una nota ironica ed amara nella voce.

“E’ successo anche a noi, a noi tutti. Come credi che siamo stati, in questi giorni?” Per un attimo abbandonò la calma di cui si aveva cercato di ammantarsi. “Tu te ne sei rimasto qui, rinchiuso nel tuo dolore e senza che ti curassi di noi altri, ma anche noi siamo stati male quanto te. Bones è anche nostra amica. Non sei solo tu, qui, che ha perso qualcosa. Non sei l’unico che da due settimane cammina sul filo di un rasoio. Quindi smettila, per favore, smettila di comportarti come se invece fosse così!” Le ultime parole le aveva gridate.

Solo in quel momento Booth la guardò, la guardò veramente, per la prima volta. Vide una donna fragile che teneva duro. Per sé e per coloro che le stavano intorno. Vedeva un’anima distrutta, esattamente come la sua. Solo allora si rese veramente conto di quanto egoista e meschino era riuscito ad essere. E volutamente cieco. Per non pesarsi anche del dolore degli altri, aveva lasciato che fosse Angela a farsene carico.

Non avrebbe dovuto, lo sapeva.

Ma nonostante tutto, nonostante la ragione gli gridasse contro la sua stessa mediocrità, non riuscì ad odiarsi. Non aveva ancora abbastanza vigore da provare un qualche sentimento diverso dal dolore e dall’apatia che gli si avvicendavano nell’animo.

Decise comunque di accontentarla. Quel giorno stesso.

Sul viso di Angela si accese un mite sorriso che le riscaldò sguardo e anima. Dopo tanti giorni, era finalmente riuscita a raggiungere uno dei suoi obbiettivi.

 

--- ---

 

Quando quel pomeriggio andò a trovarla, teneva stretto fra le mani un pezzo di carta stropicciato e consunto. Appena entrato, lo poggiò sulla testata del letto e si sedette, nervoso, tormentandosi le mani.

Non sapeva come comportarsi.

Gli altri erano rimasti fuori, probabilmente erano già tornati addirittura al lavoro. L’ordine di Angela di lasciarlo solo era stato prontamente eseguito da tutti.

Eppure avrebbe voluto che almeno lei rimanesse. Lei, l’unica persona, dentro al Jeffersonian, ad aver conservato puro ed intatto il proprio senso di umanità. L’unica che sarebbe stata in grado di dirgli cosa lui avrebbe dovuto dire ad una Bones immobile, distesa in un letto d’ospedale da due settimane. Ora invece era lì, completamente solo e spiazzato da una situazione a lui sconosciuta.

Aveva l’orribile tentazione di dirle addio, conscio che quella avrebbe potuto essere la fine. Per lei.

Lei, che li aveva abbandonati da due lunghe settimane. Lei che li aveva lasciati soli.

Loro invece avrebbero dovuto fare i conti con la sua assenza per tutta la vita, pagando il prezzo più alto.

Quant’era ingiusto. Dov’era il loro peccato, per guadagnarci qualcosa del genere?

Davvero lui meritava di perderla a quel modo, senza neanche averle detto addio?

Davvero lei, meravigliosa donna, meritava di morire così giovane? Dopo tutto quello che già aveva passato. Non era stato forse abbastanza? Per quali colpe stava pagando?

Non sapeva le risposte a quelle e a mille altre domande che lo tormentavano da ore, da giorni, ma era ormai un dato di fatto il suo cuore solo. Abbandonato, e senza via d’uscita. Qualunque fosse stata la sorte della donna sdraiata in fronte a lui, qualunque fosse stato il suo destino, se già scritto o meno, la vita comunque andava avanti, ignara, o indifferente. Distaccata da qualunque sarebbe stato il futuro di quei due adulti presenti in quella stanza, legati indissolubilmente da ferite forse irreversibili.

E ora affrontava il mondo da solo, rendendosi conto solo in quel frangente di quanto in realtà ogni giorno si fosse appoggiato a lei per le minime cose. Le mancava, e non avrebbe fatto nulla per nascondere questa verità. Ma se davvero lei l’avesse abbandonato, lui avrebbe dovuto ripartire da zero, il suo cuore ferito avrebbe dovuto trovare un altro modo di vivere. Un’altra via che non comprendesse la presenza di lei, il suo appoggio. Ed era ciò che lo feriva maggiormente.

Fino a quel giorno aveva creduto che tutto ciò che il suo corpo necessitava per vivere fossero l’aria che respirava e la vista di suo figlio. Ogni volta che lo vedeva il suo cuore scoppiava di gioia, ed era pronto a giurare che in quegli attimi sarebbe morto felice, come padre. Ma non si era mai reso veramente conto che parte di quella felicità era riservata a lei. Rendersene conto così tardi era un’amara realtà, da digerire.

D’improvviso, seccato ed infastidito, si alzò, prese il suo giaccone e si avvicinò alla porta. Si fermò un istante, la mano sulla maniglia. Che senso aveva, tutto ciò? Lei sarebbe morta sola, senza l’affetto né l’addio delle persone a lei care, senza sapere quanto loro l’avessero tenuta in considerazione, quanto l’avessero amata. Sarebbe morta. Null’altro contava. Aveva importanza solo il fatto che da quel momento in poi loro avrebbero vissuto una vita a metà. Avrebbero fatto i conti con la mancanza che avrebbe avuto di lei, per il resto della loro vita. Che senso aveva rimuginarci ancora di più, di fronte a lei? Non poteva sentirli, e non avrebbe risposto. Stizzito, aprì la porta e se ne andò. Dentro la stanza rimasero solamente la donna in coma e la foto di una famiglia ormai distrutta, il cui ultimo membro avrebbe presto trovato la propria fine. Booth ne era certo.

 

--- ---

 

Il suo cellulare squillava, ma lui non se ne accorse fino al momento in cui gli occupanti del tavolo a fianco glielo fecero notare. Quando rispose, fu la voce di Angela a parlargli.

“Booth, devi venire immediatamente in ospedale! Ci sono novità.”

“Che tipo di novità?” chiese lui, mentre si affrettava ad uscire dal locale dove si era fermato a pranzare.

“Tu vieni e basta.”

“Non è così che mi aiuti, Ang. Sono notizie buone o cattive?” le domandò mentre con frenesia cercava le chiavi del SUV nel cappotto ed apriva l’automobile.

“Non posso dirti niente. Tu pensa a muovere il culo e vieni qui. Più in fretta che puoi.”

Booth non fece in tempo ad aprire la bocca per rispondere che sentì nell’orecchio il suono della comunicazione interrotta. A volte odiava Angela di cuore.

 

Spingeva il pedale dell’acceleratore a tavoletta, nella speranza di arrivare in ospedale prima che succedesse qualcosa di irreversibile.

Anche se in cuor suo sapeva che Angela l’aveva chiamato perché Bones stava morendo, anche se ormai stava tentando già da giorni di farsene una ragione e di abituarsi all’idea, ciò non cambiava il fatto che avrebbe voluto essere presente. Perché era lei, era Bones. Ed era sua.

Ma la fretta è sempre cattiva consigliera. Chi va piano va sano e lontano. Fu l’unica, sciocca cosa che gli venne in mente quando captò il semaforo rosso che lui stesso aveva ignorato e quando vide, con la coda dell’occhio, il camion all’incrocio partire e venirgli incontro, senza che l’autista si fosse reso conto dello sbaglio di Booth. L’ultima cosa che vide nel momento immediatamente precedente a quello in cui il camion gli fracassasse il SUV contro il muro di cinta sulla destra, fu il volto sereno di Bones. Poi, il buio soltanto.

 

--- ---

 

Angela guardava Hodgins con occhi terrorizzati. Non era pronta a quello. Non era ancora pronta a vivere un momento così buio, uno di quei momenti che ti privano di ogni linfa di speranza che il tuo corpo può racchiudere. Non era pronta, e basta.

Hodgins l’abbracciò, incapace di darle conforto, ma cercando di starle vicino e cercando di trasmetterle con la sola presenza le sue certezze. C’era ancora speranza, c’era ancora vita.

 

--- ---

 

Booth si svegliò ancora una volta urlando dal sogno che stava facendo.

Sta diventando un’abitudine scomoda, pensò mentre si alzava dal letto, infilava le pantofole e si dirigeva in cucina, in cerca di un po’ di cibo come distrazione.

Sognare la propria morte non era esattamente di buon auspicio, ma ciò che realmente gli aveva guastato il sonno era la morte di Bones. Ancora adesso, mentre pensava alle sensazioni sgradevoli che gli erano rimaste addosso, si rese conto che un brivido continuava a corrergli giù per la spina dorsale, innervosendolo. Aveva addosso un cattivo presagio, e non per sé. D’un tratto capì: era quello il giorno in cui Angela l’avrebbe chiamato per avvertirlo, quello il giorno in cui la sua vita sarebbe cambiata per sempre, quello il giorno in cui sarebbe rimasto solo.

Guardò l’ora: era già mattina. D’un tratto decise che non avrebbe permesso ad Angela di accorrere per prima, di rubargli ciò che era suo. Andò a vestirsi e si preparò ad andare a trovare Bones, per la seconda ed ultima volta.

 

 

Quando arrivò, in sala d’aspetto trovò già Hodgins, apparentemente solo. Dallo sguardo che portava dipinto sul volto non riuscì a carpire alcuna informazione utile.

“Booth!” esclamò lui sorpreso. “Che ci fai qui?”

“Nulla. Non posso venire a vedere Bones?”

“Certo che sì, ma mi stupisce comunque vederti. Sappiamo tutti quanto sei stato restio a venire qui.”

“Non è vero” replicò stizzito lui, ma dovette zittirsi a seguito dell’occhiata ironica del collega.

Rimasero in silenzio sino all’arrivo di Angela, che si scoprì essere stata semplicemente in bagno. Non era riuscita a batterla, pensò Booth. Un senso di infantile prepotenza traboccò un istante dal suo sguardo, ma nessuno sembrò accorgersene.

“Booth! Che c-“

“Sono venuto a trovare Bones, dannazione! Perché cavolo vi sembra così strano?”

“Ehi, amico, calmati” proruppe Hodgins. “Qui siamo tutti tesi e nervosi, ma non è una buona scusa per prendersela con gli altri. Quindi vedi di piantarla!”

Io, piantarla? Dannazione, non sono io che...

“Booth, smettila!” gli urlò addosso Hodgins “Lo sappiamo quanto stai male, m-”

“Oh, no, non cominciare! Non ci provare! Voi non avete la minima id-”

“Oh, no, bello! Cosa pensi, che siamo ciechi? Tutti, nessuno escluso, in quell’ufficio abbiamo capito che ti sei innamorato di Bones, quindi non provare a mettere insieme questa manfrina idiota! Non è questo che ti deve dare il diritto di comportarti così con noi altri! Anche noi stiamo male, non hai mica l’esclusiva sulla situazione!

Hodgins andò avanti a dargli addosso, stufo del diritto che Booth sembrava portarsi dietro di prendersela con chiunque si trovasse davanti, ma l’altro ormai si era disconnesso dal litigio.

Non credeva di aver capito bene.

Non poteva davvero aver sentito ciò che credeva di aver sentito.

Come poteva Hodgins pensare una cosa simile? Lui non era innamorato di Bones.

Dannazione... era Bones! La sua partner, la sua compagna di lavoro... non provava altro per lei che sincero ed immenso affetto... affetto tra colleghi!

Eppure...

Eppure qualcosa sino a quel momento stonava. Inconsciamente, alle parole di Hodgins, nel suo cervello qualcosa si era mosso, si era aggiustato. D’improvviso gli sembrò che qualcosa che non si era mai reso conto andasse storto, ora aveva preso una direzione che non era altro che giusta. Come poteva...?

Sentì Hodgins zittirsi. Lo guardò e vide che l’altro ricambiava lo sguardo. Con astio, vero, ma c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo.

Compassione? Perché si era reso conto troppo tardi di qualcosa di così grande?

No. O non solo.

Improvvisamente stanco, sfinito e sfibrato nel proprio essere, si lasciò cadere pesantemente a terra, e lì rimase, immobile.

Come poteva essere stato così stupido? Come poteva essersi innamorato di Bones, della sua collega?

Come aveva fatto a essere così cieco e presuntuoso?

Se solo fosse riuscito ad accorgersene prima!

Hodgins aveva ragione. Anzi, Angela aveva ragione. Sicuramente la pulce nell’orecchio gliel’aveva messa lei. Lei aveva capito tutto ancor prima che lui si rendesse conto che qualcosa, nei suoi sentimenti, stava cambiando.

Il rispetto e l’affetto che provava per Brennan erano diventati qualcosa di più, di più importante.

E lui era arrivato a comprenderlo troppo tardi, e solo grazie all’aiuto, alla spinta di qualcun altro.

La spinta di Hodgins, Dio santo! Doveva essere stato ben cieco!

 

Ma era vero.

Dannazione, era vero!

Ora tutto filava. Ora capiva che quei sentimenti che provava quando lei era nei paraggi... quella voglia sempre che aveva di toccarla, di consolarla... erano naturali conseguenze di un sentimento che poteva definirsi anticamera di qualcosa di più grande come l’amore.

Come aveva potuto far finta di nulla? Com’era riuscito a mettere tutto a tacere, ciò che affiorava occasionalmente, e poi riuscire a dormire come se nulla fosse?

Come poteva, ora, farglielo sapere? Ora che era troppo tardi...

Dio. Perché la vita doveva essere così dannatamente imparziale?

 

E fu in quel frangente che, con la mente, si isolò completamente dal luogo, dimentico del motivo per cui lì era corso, appena pochi minuti prima che già gli sembravano ore.

Angela e Hodgins rimasero a fissarlo, basiti, rendendosi – forse solo parzialmente – conto del fatto che Booth fosse lì con loro solo con il corpo, ma non con la mente.

Unico segno del fatto che non fosse svenuto era un’unica lacrima che, furtiva e silenziosa, trovò la propria strada lungo la guancia sinistra dell’uomo, per poi andare a cadere e morire sul pavimento sporco. Solitaria e muta, era il grido disperato di un uomo senza fiducia e perso nelle proprie illusioni.

 

Divagò nelle propri infrante speranze per un tempo che non seppe definire. Si risvegliò bruscamente da quella trance senza ricordare nemmeno dove si trovasse e cosa ci facesse su un pavimento polveroso e poco curato com’era quello.

Poi se ne accorse. Avvertì l’abbraccio di una persona che sul momento credette sconosciuta, il calore che essa gli rimandava. Un contatto umano, pelle a pelle, che lo scosse nel profondo come nessuna parola sarebbe riuscita a fare. E senza aver bisogno di vederne il volto capì che l’unico essere umano dotata di tale senso del bisogno, fra tutti loro, poteva essere solo Angela. Ma nemmeno gli importava. Accolse come un bambino quel gratuito affetto, circondò di rimando le spalle della donna, appoggiò la propria fronte sulla sua spalla e si lasciò cullare, come ormai da molti anni aveva dimenticato di aver fatto in tempi lontani. Sfogò il proprio dolore con un pianto liberatorio che lo scosse dentro. Ciò non servì ad alleviare la sua pena, ma già ne era conscio. Era uno di quei pianti che non serve all’essere umano per alleggerire il proprio peso di rimorsi, ma semplicemente come unico atto di difesa conosciuto per un tale carico di sofferenza ed angoscia. E pianse fino a svuotare il proprio cuore, fino ad esaurire le proprie energie e la propria voglia di combattere, di piangere, di alzarsi e camminare.

E in tutta la sua sofferenza non si accorse che Angela per tutto il tempo gli aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio. Parole di conforto talmente forti che lo sconquassarono, e la spinse via, non volendo sentire quel Giuda dargli speranze inutilmente. Non voleva soffrire più di quanto già non facesse. Non voleva avere vita. È così difficile vivere, vivere veramente.

La guardò con astio, e solo allora si accorse del sorriso radioso che le era comparso sul volto. Allora, e solo allora focalizzò la propria attenzione alle parole che continuava imperterrita a sussurrare. Parole di inutile speranza, come aveva ampiamente immaginato. Cattive e crudeli.

“E’ salva, Booth, ce l’hanno fatta! È fuori pericolo, l’hanno salvata.”

“Smettila!” le urlò lui, angosciato. “Smettila, Angela, ti prego. Lo sai che ti voglio bene, sei una fra le persone migliori che abbia mai avuto la fortuna di conoscere... ma ti prego, abbi pietà e smettila!

Lei non perse il sorriso, lo aiutò ad alzarsi e lo abbracciò nuovamente. Stavolta lui si accorse della differenza. Non era un abbraccio di conforto, come aveva creduto fosse il primo. Era un contatto umano con cui tentava di trasmettergli speranza, quella gioia che lei stessa stava provando e con cui sembrava volesse contagiare il mondo intero.

Continuando ad aggrapparsi a quell’ancora di salvezza che Angela inconsciamente gli stava donando, Booth alzò lo sguardo e vide un medico fargli un cenno di assenso con il capo, lo stesso sorriso raggiante dipinto sul suo volto.

Allora era vero? Poteva davvero sperare... credere...?

Agente Booth, le confermo che è così. La sua collega è uscita dal coma circa un paio d'ore fa, e si è appena svegliata. Può venire a farle visita, se vuole, purchè sia una cosa breve. Il tono era affabile, cortese.

Booth si guardò intorno, ancora stranito e sorpreso dall'improvviso stravolgersi degli eventi. Non era preparato.

Guardò Angela, una muta domanda impressa nei suoi occhi.

No, Booth, è giusto che sia tu ad andare per primo. Vai, ma non uscire prima di averle detto tutto. Sennò ti ammazzo con le mie stesse mani! lo ammonì scherzosamente, mentre lacrime di immensa gioia le colavano lungo le guance, inascoltate. Ma per quelle aveva Hodgins, già pronto al suo fianco, in paziente attesa che Booth finalmente gli lasciasse campo libero. Lo accontentò subito, fremente di constatare con i propri occhi la veridicità di quanto gli era appena stato detto.

Seguì il dottore con il camice bianco sin dentro la stanza. Il suono della porta che si chiudeva gli indicò che era rimasto solo. Con lei.

Fissò il suo sguardo esattamente negli occhi di lei, che era sveglia e lo guardava di rimando.

Il volto pallido sembrava scavato nel marmo, bianco liscio e perfetto com'era. Portava i segni della malattia a cui era appena sfuggita, ma a lui non era mai apparsa tanto bella.

Come aveva fatto, si chiedeva... come aveva potuto non accorgersi della gioia che straripava dal suo stesso cuore, ora che la vedeva, che la guardava e scorgeva la stessa meravigliosa donna che aveva lottato, che non aveva mollato e che aveva finito per vincere... al contrario di lui, che stava per abbandonare e rovinare tutto. Ma era ciò che li aveva sempre diversificati, no? Lei era sempre stata migliore di lui.

“Booth! Come stai?

“Io? Come sto io?! Quasi si mise a ridere. “Come stai tu! Sei tu che te ne sei rimatsa in coma per due settimane! Come ti senti? le chiese gentilmente, mentre andava a sedersi direttamente affianco a lei, sul suo stesso letto.

Da così vicino riuscì a vedere gli occhi di lei, tornati del color del cielo limpido. Ne fu felice come non pensava avrebbe mai potuto essere. Gli scoppiava il cuore dalla felicità. Sarebbe potuto morire, ma sarebbe morto da uomo felice. E innamorato.

“Come stanno gli altri?

“Stanno tutti bene, Bones, non preoccuparti. Non sono loro ad essere rimasti in coma per due settimane...

“Già, due settimane... non ricordo neanche come sia finita qui. Cos'è successo di preciso?

“Non è questo il momento. Ti racconterò tutto quando sarai fuori di qui, e quando questi ultimi giorni non saranno, nelle nostre menti, altro che un brutto ricordo. Ok? Piuttosto... c'è una cosa che devo dirti e che ha una certa urgenza...

Lei sbadigliò.

“... ma dopotutto può aspettare fino a domani. Devi essere a pezzi.

“No, Booth, non sono così stanca. Dimmela adesso.

“No, hai bisogno di riposo. Tu e Angela aspetterete.

“Angela?

“Non preoccuparti, Bones le disse gentilmente, come parlasse ad una bambina, mentre si chinava a posarle un bacio sulla fronte, delicato come lo sbatter d'ali di una farfalla. pensa solo a fare la brava ragazza e dormire. Te ne parlerò domani.

“Anticipami almeno qualcosa...

“No. Ora è il momento di riposare. Con due dita seguì il profilo dello zigomo di lei. Era rapito come mai prima d'allora dalla bellezza di quel volto e di quello sguardo. Non resistette, e posò sulle guance altri due baci, altrettanto leggeri e gentili. “Il resto a domani.





Fine.

   
 
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