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Autore: Wake Me Up Inside    05/07/2014    1 recensioni
Alla stazione. Un ragazzo con l'ombrello, eternamente immobile. Una ragazza con le valigie, eternamente in movimento.
Le loro strade si intreccianp, s'incontrano e siscontrano, si calpestano, davanti al getto ininterrotto di folla che fluisce via dai treni alla banchina e dalla banchina ai treni.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA STAZIONE
  Nel mondo in corsa, tutti gli uomini erano viaggiatori. Viaggiatori verso il futuro o verso il passato, viaggiatori che andavano, viaggiatori che tornavano, viaggiatori che correvano o che si lasciavano trasportare. Obbiettivi in movimento.
  E poi c’era lui. Immobile.
  Alla stazione di una città senza nome, che era insieme tutte le stazioni e nessuna, in una fredda sera di novembre una corrente di viaggiatori fluiva a ondate sulla banchina, urtandosi l’un l’altro con le valigie, smarrendo ricordi sotto i piedi della gente.
  Erano solitari insiemi che s’intrecciavano come per sbaglio, confusamente; tutti premuti insieme, eppure lontani anni luce.
  Sullo sfondo, treni arrivavano, poi ripartivano: cambiavano i volti, gli attimi stipati nelle valigie.
  E davanti a quei treni, su una vecchia panchina rotta, c’era un ragazzo sotto la pioggia. Seduto con la schiena dritta, il braccio piegato a tenere l’ombrello, il respiro scuoteva il suo petto in maniera impercettibile: si sarebbe detto una statua.
  Lui osservava i treni; e a volte si risolveva a prenderne uno, a volte si alzava, ma fatti due o tre passi o raggiunte le porte tornava a sedersi sulla panchina con il suo ombrello, e aspettava. I viaggiatori erano troppo occupati per notarlo, e se di tanto in tanto qualcuno lo vedeva, si chiedeva solo cosa mai facesse quella figura stramba.
  Ma mentre fissava la gente senza vederla, una viaggiatrice colpiva ogni volta la sua attenzione.
  L’aveva vista innumerevoli volte nella folla, eppure, fra quei volti tesi e quei vestiti scuri, lei era una nota stonata. Con i suoi piccoli passi nervosi e il libro sotto il braccio passava continuamente per quella stazione, portando ogni volta una valigia diversa; andava e tornava, ci ripensava, prendeva un treno e dopo un paio di stazioni scendeva. Una volta ne aveva preso uno, le era piaciuto tanto che si era rifiutata di scendere alla fine della corsa, e quando l’avevano scaraventata giù si era infranta.
  Ma poi si era rialzata, aveva raccolto gli attimi sparsi a terra, li aveva cacciati alla rinfusa nella valigia e aveva ripreso la sua folle maratona.
  Il ragazzo con l’ombrello, dunque, aveva notato la viaggiatrice; e lei del resto, pur correndo giorno e notte, si era accorta di lui al primo sguardo. Aveva pensato che fosse folle; ma lei lo era tre volte tanto.
  Fra una corsa e l’altra si era seduta anche lei sulla panchina, gli aveva raccontato una storia, due, tre; nonostante fosse sempre sera e sempre novembre, nonostante piovesse sempre, l’aveva convinto a chiudere l’ombrello.
  Sotto quelle gocce spietate eppure dolci, il ragazzo con l’ombrello era riuscito a far fermare per un attimo la viaggiatrice. L’aveva fatta ridere, forse per la prima volta.
  E lei l’aveva preso per mano, erano saliti insieme su un treno, uno a caso.
  Era stato un viaggio bellissimo, forse uno dei migliori della vita di entrambi; ma poi il treno aveva rallentato, e infine si era fermato. Erano scesi in silenzio, incrinati, grigi, e lui si era seduto di nuovo sulla panchina con il suo ombrello, lei aveva ripreso le sue corse frenetiche e folli.
  Aveva preso qualche treno sbagliato, qualcuno giusto, spesso era stata costretta a scendere: e in tutto ciò lui restava lì a fissare la folla, cercando di non vederla.
  Ma lei era lì.
  Pian piano le orbite di quelle corse folli si erano avvicinate sempre più alla panchina, la viaggiatrice si era di nuovo seduta, e dopo una, due, tre volte, finalmente era rimasta per un po’.
  Il ragazzo con l’ombrello aveva iniziato a prendere anche lui qualche treno, sempre diverso da quelli di lei: ma ogni tanto s’incontravano di sfuggita alla stazione, si sedevano su quella panchina.
  Lui non apriva più l’ombrello; lasciavano che la pioggia infinita di quell’eterno novembre scivolasse loro negli occhi e fra le labbra, fino agli angoli più nascosti di loro stessi. Con la voce sottile e vera come una lama, la viaggiatrice raccontava le sue storie.
  E quelle gocce e quelle parole erano risate ma anche lacrime, erano sole, erano sangue, erano sogni ammaccati e imperfetti che non s’incastravano mai completamente, e anche se il ragazzo ora senza ombrello e la viaggiatrice si avvicinavano casualmente a velocità supersonica e poi sparivano e ricomparivano a intermittenza, anche se erano un errore e si sarebbero volentieri uccisi, sapevano in realtà che non avrebbero mai smesso di sfuggirsi e rincorrersi, di scontrarsi e di fare l’impossibile per salvarsi.
  Così come sapevano che per loro sarebbe stata sempre sera, sempre pioggia, e sempre novembre
.




A quanto pare sono ufficialmente tornata, allora.
Mi rendo conto della stranezza di questo racconto, e so che per me ha perfettamente senso, ma probabilmente per chiunque altro non ne ha affatto. Ma mi piaceva troppo per non pubblicarlo, sentivo semplicemente che dovevo farlo.
Quindi, eccomi qui.
Cos'altro...ah, si, c'è un rferimento alla canzone dei Guns 'n' Roses, "November Rain", perchè...beh, perchè qui doveva esserci.
Penso sia tutto.
Buonanotte!
Wake Me Up Inside
  
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