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Autore: La Figlia Della Luna    05/07/2014    1 recensioni
Prima classificata al contest: "Cinema" (2012)
Indetto da: Tokio Hotel Die Besten Fan Fiction

Considerai quell’esperienza, come un cortometraggio breve e intenso d’emozioni. Un lavoro cinematografico dal titolo: Elevator. Bill non l'avrebbe mai visto come candidato agli oscar ma probabilmente, avrebbe vinto per il realismo col quale lo vivemmo. Prima che un pubblico avesse avuto occasione di considerarci attori, su un palcoscenico chiamato vita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Tom Kaulitz
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamo Tom Trümper. Ho ventidue anni e lavoro come commesso ascensorista, in un albergo di lusso ad Hollywood, Los Angeles. Come sono finito a fare questo lavoro? Beh, per necessità, devo pur mantenermi per vivere in California.

Partii dalla fredda Germania, per trasferirvi il mese scorso. Avevo un sogno: lavorare nel cinema. Mi sarebbe piaciuto collaborare con gli attori sia dietro che davanti le macchine da presa. Ciò che contava di più per me, era quello di avere contatti con loro, vederli in azione durante le riprese e perché no, diventare anche un assistente fidato di un regista famoso. Feci domanda in diversi studi e a chi di competenza per entrare nel giro, anche come compositore di musica cinematografica. In merito a questa disciplina, l’ultima volta che mi presentai ad un provino, affermarono che di un chitarrista e un pianista autodidatta non ci avrebbero fatto nulla, e che sarei stato perfetto per un talent show e non per un lavoro da professionista. Quella fu l’offesa più meschina che avessi mai ricevuto. Inoltre, fare il musicista non m’interessava particolarmente salvo che non fosse legato al mondo cinematografico, recitarne la parte magari e lasciare il segno nella storia del grande schermo. Non era una cosa facile, ma non mi persi d’animo. Cominciai a trovarmi dei lavoretti part time per sostentarmi, con la speranza di cogliere l’occasione giusta che poteva fare al caso mio.

Comunque, eccomi qui: all’interno di un ascensore, con una divisa da damerino, guanti di stoffa e un cappellino al servizio dei clienti dell'albergo, a pochi passi dal Kodak Theatre. Per tutta la settimana precedente all’evento per la consegna dei premi oscar, ero eccitato all’idea di poter incrociare i volti dei divi di Hollywood che vi partecipavano. In un certo senso, il mio sogno si era realizzato anche se in un ambiente diverso. Avevo la possibilità di fare il tragitto in ascensore con diverse persone famose, che pernottavano in albergo apposta, per la gran serata. Non potevo lamentarmi anzi, ero fortunatissimo di assistere - anche se per pochi secondi -, ai loro atteggiamenti fuori dal set e dalle telecamere. Con mia grande sorpresa, mi accorsi che non tutti gli attori erano quello che credevo che fossero. Vi confesso che, qualcuno in particolare mi aveva deluso sul modo di porsi così altezzoso e arrogante, che volevo con piacere cancellarlo, alzando le mani sulla persona in questione. La mia etica professionale però, m’impediva categoricamente di avere questo tipo di confidenze con i clienti. Il mio dovere consisteva solo nell’accompagnarli al piano richiesto, augurare una buona giornata e sorridere cordialmente al loro passaggio. Fare conversazione era un optional.

Quando fui assunto la prima volta, feci l’errore madornale, di spiccicare qualche parola con un cliente del quinto piano: un ragazzo all’incirca della mia età, che mi guardò in un modo così truce, da zittirmi all’istante. Ero pronto a scommettere che avesse avuto la luna storta o qualcosa di simile, ma quando ritentai il giorno successivo, fece finta di non ascoltarmi in attesa che l’ascensore lo riportasse al piano terra. Non capivo chi era e che lavoro facesse per permettersi di assumere un tale comportamento. A causa di quel tizio, non riuscivo più ad intraprendere una conversazione decente con gli altri e di conseguenza, mi annoiavo per ore a stare in un abitacolo di lusso. Odiai quello sconosciuto senza alcun motivo, a parte la sua scostumatezza.

La speranza di non rivedere quell’individuo, svanì presto. Il giorno in cui si svolsero i premi oscar al Kodak Theatre, lo ritrovai alle porte dell’ascensore che trafficava con il suo cellulare touch-screen, ultimo modello. Alle sue spalle, c’era un gran fermento di gente che entrava e usciva dall’albergo. Per non parlare dei continui flash di macchine fotografiche. Numerosi giornalisti con microfoni alla mano premevano all’entrata dell’edificio, con l’intento di strappare qualche dichiarazione al volo. A parte questo a cui ero fin troppo abituato, mi sorprese il look del ragazzo che distrattamente, senza calcolare che gli avessi tenuto le porte aperte oltre il limite della sopportazione, entrò in ascensore fissandomi dietro i suoi occhiali da sole:
« Decimo piano, per favore ». Mi ordinò atono, posando il telefono in una borsa nera e capiente, difficile da definirsi una pochet. Si guardò allo specchio dell’abitacolo, dopo essersi passato appena due dita fra i capelli biondi e laccati alla perfezione e poi, sfilò da dietro una tasca dei suoi pantaloni di un colore sfumato, l’Empire Magazine arrotolato su se stesso. Sorrisi di sottecchi vedendolo sfogliare la mia rivista preferita. Capii subito che il ragazzo altezzoso e arrogante, dalla giacca di pelle e l’anello vintage al medio sinistro, fosse un patito del cinema tanto quanto il sottoscritto.

Sulla copertina della rivista, si reclamizzavano le nomination con l’immagine dell’oscar che si stagliava per l’intera impaginazione, tutta in bella mostra. Restai a fissarla per qualche secondo, finché non dovetti sbrigarmi a premere il pulsante per il decimo piano. Le porte si chiusero e nell’abitacolo eravamo solo io e lui, che non toglieva lo sguardo dalle pagine dove probabilmente, a giudicare dall’espressione assorta che assunse, stava leggendo un articolo interessante.

Con l’ascensore in salita, controllai quale piano stavamo attraversando sul lato destro della pulsantiera e improvvisamente si fece buio:
« Cosa succede?! » Chiese il biondo agitato.
« Non lo so, temo ci sia un blackout » Risposi con calma, non riuscendo a vedere il suo volto.
Qualcosa cadde sul pavimento dell’abitacolo.
« Ma lei ci lavora qui dentro, come non lo sa?! » La sua voce fece un acuto.
« Non si preoccupi, guardi, la luce di emergenza si è accesa ». Lo rassicurai, indicandogliela. Era una luce fredda al neon che lampeggiò appena. Pensando al da farsi, la corrente si ripristinò ma l’ascensore non si mosse automaticamente come avrebbe dovuto. Dentro di me cominciai ad agitarmi; cercai di non incrociare lo sguardo del ragazzo alle mie spalle che, dal nervosismo, per poco non ridusse a brandelli l'Empire Magazine che aveva fra le mani. La stessa che prima, veniva trattata come se fosse un gioiello.

L’adrenalina cominciò a scorrere nelle mie vene, quando premetti a lungo il pulsante del campanello dall’allarme, ma nessuno sembrava sentirlo:
« Dannazione! » Esclamai spazientito, sfilandomi i guanti e il cappello con rabbia. Il tutto andò a finire sul pavimento dell’abitacolo, con irruenza. L’altro mi guardò spaventato per via della mia reazione, e non solo. L’idea di rimanere bloccati in ascensore non piaceva a nessuno dei due:
« Cosa facciamo? ». Mi chiese il biondino flebilmente, quasi sul punto di piangere.
« Dobbiamo bussare forte alle porte dell’ascensore… ». Dissi, senza troppi giri di parole per calmare l’ospite: « ...c’è un tal trambusto fuori, che nessuno si è accorto che siamo bloccati ».
« Le dò una mano, se è l’unico modo per uscire da qui! » Esclamò l’altro, abbandonando tutto quello che aveva con sé in un angolo. Si tolse la giacca di pelle e si rimboccò le maniche della maglia che aveva sotto di essa. Io guardai stupito il modo in cui si diede da fare. Lo imitai, sfilandomi la parte superiore della divisa, rimasi in camicia e sbottonai soltanto i polsini per avere le braccia libere per agire:
« Aiuto! » Gridai all’unisono con il ragazzo che martellava forte e a pugni stretti sulle porte d’acciaio dell’ascensore:
« Qualcuno ci sente?! Siamo qui! ». Gridai ancora, avvicinando l’orecchio alla fessura centrale.
« Allora, niente? »
« Niente, il vocio è concitato e probabilmente, il rumore che provochiamo è ovattato, per avvertirlo dall’esterno ». Spiegai nervosamente. Inspirai profondamente per mantenere la calma e mi avventai sulla pulsantiera per premere qualunque tasto, sopra il quale, le mie dita avrebbero potuto esercitare pressione. Il biondo aveva l’aria di aver visto un fantasma. Immaginai di essere protagonista di un film horror, Devil. La trama non la ricordo nei dettagli, ma ciò che mi rimase impresso quando lo vidi, fu il ruolo di Jenny O’Hara di una vecchia signora ovvero, il diavolo che risucchiava le anime dei protagonisti bloccati all’interno di un abitacolo. Inoltre, depistava le indagini facendo sì, che il responsabile delle morti avvenute, fosse una delle vittime sopravvissute.

L’espressione terrorizzata del ragazzo, mi mise ansia a tal punto, da farmi credere che ci fosse un diavolo nei paraggi, pronto a risucchiarci l’anima e trascinarci all’inferno. Stavo dando decisamente i numeri, quando sentii un ronzio provenire dall’interfono:
« Ci hanno sentito! ». Esclamai sollevato.
« C’è qualcuno lì dentro, Tom? ». Riconobbi subito la voce che mi stava chiamando dall’altra parte:
« Georg, grazie a Dio! Comunque sì, una sola persona » Risposi all’interfono col fiato corto.
« Come si chiama? C’e’ uno spostato che chiede di un certo Bill Kaulitz, dice di non averlo trovato nella suite del decimo piano. E’ con te per caso? ».

Impossibile. Cosa mi stava chiedendo quella testa bacata del mio collega? Il ragazzo con cui dividevo l’abitacolo, non poteva essere il famoso doppiatore tedesco dei film d’animazione, ammirato anche all’estero per aver prestato la voce a Freddie Highmore in Arthur e il popolo dei Minimei. Un capolavoro, che apprezzai tantissimo dal primo momento in cui uscì al cinema. Fu strasmesso non solo in Germania ma anche in Italia, Stati uniti e ovviamente in Francia in versione originale. Trovavo la voce di Arthur così perfetta per quel personaggio, che suscitò in me qualcosa di inspiegabile. Volli conoscere almeno di vista, a chi mai appartenesse quel suono vocale, che considerai dolce e paradossalmente ammaliatore per le mie orecchie, dopo aver ascoltato la battuta: Guten Nacht Prinzessin.

Se quella semplice frase, sortì nel mio animo tali sensazioni, non osai pensare come sentimentalmente avrebbero preso forma se fossi stato una donna. Bastò quel poco, e in un certo senso, m’innamorai della persona che c’era dietro quel minimeo. Provai per un periodo un’ammirazione viscerale verso Bill Kaulitz, facendo ricerche approfondite sulla sua vita privata e quella lavorativa. Non c’era molto da scoprire in quanto, non era ben noto come doppiatore. Si era cimentato in tantissimi sceneggiati di minore importanza, fino a quello di Luc Besson che lo aveva reso celebre in Germania, proprio per la sua voce particolare.

Ebbi la folle idea di seguirlo alla première del sequel: Arthur e la vendetta di Maltazard. Rimasi estasiato dalla sua presenza, così misteriosa e affascinante. Nulla che avesse a che fare con la bellezza della sua voce … quella era molto di più. Conquistai la prima fila che proseguiva lungo il red carpet, appositamente per vedere il doppiatore da vicino. Avevo il batticuore, al solo pensiero che si sarebbe potuto avvicinare e firmarmi un autografo. Quando accadde, trascorsi i tre secondi più lunghi della mia vita. Uno spazio temporale ristretto per le ragazzine urlanti al mio fianco, che scattavano fotografie a destra e a manca ma per me, fu la conferma che ciò che provavo per lui non era solo ammirazione tanto meno fanatismo, ma amore. Me ne resi conto allora, e nell’occasione in cui, ricevetti la brutta notizia che Bill Kaulitz non avrebbe rinnovato l’esperienza di doppiaggio, per il terzo appuntamento cinematografico della saga Arthur e la guerra dei mondi.
La cosa peggiore fu, che la persona per la quale avevo perso completamente la testa, era sparita letteralmente dalla circolazione. Non avevo più una notizia di rilievo, una citazione o un progetto che coinvolgeva più avanti il doppiatore tedesco. Mi addolorai alla consapevolezza che, non avrei avuto più il piacere di ascoltare la sua splendida voce, di non poter rivedere il sorriso che mi rivolse quando firmò l’autografo, con le sue mani curate che stringevano sicure la penna e infine, la sua figura longilinea e perfetta, che si allontanava in mezzo alla folla.

« Si è incantato per caso? » Mi chiese all’improvviso il biondo, dandosi una pacca sulla fronte. Quello era un segno che Georg aveva ragione: « Gli dica che sono io, si sbrigasse a tirarci fuori di qui prima che il mio manager abbia un attacco di bile! ». Esclamò.
A quel punto, mi crollò il mondo addosso. Come avevo fatto a non accorgermi che era proprio Bill Kaulitz? La sua immagine era cambiata radicalmente, tanto da disorientarmi. Non sapevo più se ero felice di averlo visto dopo tantissimo tempo, oppure se ero deluso da me stesso, incapace di far chiarezza sui i miei sentimenti nei suoi confronti. Ero fermamente convinto che non fossero volti ad un’attrazione fisica soltanto, e che avrei potuto capire chi fosse da quel qualcosa di particolare e inconfondibile come la sua voce, anche se avesse avuto una busta di carta in testa. Ma non fu così. Mi maledii mentalmente di averlo odiato alla prima occasione, avendolo visto con occhi diversi, da quelli adoranti e innamorati che avevo al red carpet un paio d’anni fa, solo per lui.

Guardai il ragazzo come se avessi avuto una visione mistica. I miei occhi stralunati cercavano nei suoi rabbiosi e fulminanti, un elemento familiare a ciò che mi ero ideato e immaginato sul suo aspetto, sulla persona, che in quel momento, non rispecchiava le mie aspettative. Udendo ancora una volta la sua voce, mi risvegliai dal torpore dei miei confusi pensieri:
« Ehi Tom, sei ancora lì? ». Georg continuava a chiamarmi, col timore che la comunicazione dall’interfono si fosse improvvisamente interrotta:
« Cosa gli dico? ».
« Il signor Kaulitz è qui con me ». Risposi infine, cercando di prendere in mano la situazione:
« Ma cosa è accaduto? »
« Non lo so, un collega é sceso a controllare la cabina elettrica centrale. Cercate di mantenere la calma e prima che possa avvenire un calo di tensione, qualcuno mi dica se riesce a vedere la luce dalla fessura ».
« No, è buio pesto ». Rispose Bill, seguendo l’istruzione di Georg ancor prima che io potessi metterla in pratica. Poi si voltò verso di me puntandomi un dito contro:
« Tom, possiamo darci del tu, non è vero? ».
« S-sì » Risposi impacciato. Non conoscevo il senso della sua domanda in quel frangente. Distesi il mio braccio destro per stringergli la mano. Lui l’afferrò dichiarando il suo nome e tenne ben salda la presa:
« Bene, ti chiedo scusa per aver perso le staffe prima ». Fece un respiro e distese le labbra in un sorriso. Nonostante fosse nervoso e preoccupato, riconobbi il doppiatore che ammiravo:
« E’ comprensibile ». Imbarazzato, portai la mano libera dietro la nuca.
« Ragazzi? ». Il mio momento idilliaco delle presentazioni s’interruppe a causa di Georg che si preoccupò della nostra situazione: « Mi sembra di arguire che siate bloccati tra un piano e l’altro, vi tirerò fuori il prima possibile. Elettricità permettendo ».
Strabuzzai gli occhi:
« Che vuoi dire, amico?! »
« Voglio dire, abbiate pazienza e preservate ossigeno senza agitarvi o quant’altro. Ho appena chiamato i rinforzi per farvi uscire dall’abitacolo. Tom? »
« Sì, Georg? » . Cominciai a sentire caldo. Così, sbottonai il colletto della camicia per respirare meglio. Bill invece, scivolò lentamente con la schiena sulla superficie d’acciaio dell’ascensore e si sedette a gambe incrociate sul pavimento, visibilmente provato. Alla fine, il mio collega dall’interfono volle sapere a quale piano eravamo diretti io e Bill, prima del blackout . Ci consigliò di parlare fra noi in modo che i soccorsi, facendo il loro dovere, avrebbero avuto la certezza che fossimo ancora lucidi, almeno finché non ci avrebbero liberato dall’esterno.

Vidi Bill toccarsi le tempie ad occhi chiusi. Fui rapito dalla bellezza del suo nuovo profilo; con la barba lo trovavo molto attraente:
« Come ti senti, Bill? » Gli chiesi accovacciato davanti a lui. Questi alzò lo sguardo verso di me e si mise a ridere a crepapelle. Mi meravigliai alla sua reazione spropositata:
« Oh Tom, tranquillo. Sto benissimo! »
« Questo lo vedo … » . Esordii non molto convinto, sistemandomi per bene al suo fianco.
« Non mi fraintendere … » Cominciò l’altro, cercando di darsi un contegno: « … immagino la faccia del mio manager venuto a conoscenza di questa mia piccola disavventura. Quando si adira è un comico nato ». Lui riprese a ridere di gusto e capii cosa voleva dirmi di così divertente.
Poi, ero particolarmente preso dalla sua immagine allegra che non m’importava quanto poteva essere buffo il suo manager, ma piuttosto la spontaneità che si era creata subito fra noi. Facevamo parte di una situazione dove, tutto sarebbe potuto accadere, tranne che avere tale stato d’animo. Ciò mi diede sollievo, ma non abbastanza. Ero preoccupato all’idea che Bill, stesse mascherando la sua agitazione in quel modo.

Con la prospettiva che avremmo dovuto aspettare del tempo in ascensore, cercammo di distrarci, sfogliando l’Empire Magazine. Con Bill scoprii di avere gli stessi gusti in fatto di film e attori:
« Chi vincerà l’oscar quest’anno, secondo te? ». Gli chiesi, indicando la lista dei candidati sulla rivista.
« Io spero che vinca Jennifer Yuh con Kung fu Panda 2 come miglior film d’animazione ».
« Lo sapevo che avresti citato questo lavoro cinematografico, visto i tuoi precedenti ».
Bill alzò un sopracciglio incuriosito dalla mia affermazione:
« Trovi scontato che, un doppiatore che opera nel settore abbia tale preferenza? ». Domandò lui piccato: « Sono curioso di qual è la tua Tom, avanti ». Il biondo, mi protese la rivista ed incrociò le braccia, nell’attesa che io soddisfacessi la sua richiesta. Io deglutii teso e diedi di nuovo un’occhiata alla lista delle nomination:
« Questo! » Esclamai puntando il dito su una delle candidature.
« Quale? Fammi vedere… ». Bill si avvicinò pericolosamente al mio viso per controllare cosa avessi indicato, quando la mia vista si oscurò un’ennesima volta:
« Ahi, che male! »
« Tom perdonami, ma che diavolo succede? ».
« La corrente è andata via di nuovo ». Dissi rassegnato, massaggiandomi la fronte. La luce al neon non si attivò, lasciando me e Bill completamente al buio. Sentii il respiro del biondo accarezzarmi una guancia e rabbrividii a quel contatto. Cercai di scorgere nell’oscurità la sagoma del suo viso. Nonostante non avessi chiaro cosa stesse facendo al mio fianco, Bill, continuava a respirarmi addosso sempre sullo stesso punto:
« Va tutto bene? ». Mi chiese sottovoce.
« Ora sì … ». Mentii. Tenere così vicino una persona che fino ad allora consideravo irraggiungibile, mi faceva sentire strano, agitato. Preservare l’ossigeno in ascensore in quel momento, si rivelò un’impresa molto ardua:
« Quando ripristineranno tutto? ». Domandai nel vuoto.
« Spero non adesso … ». Credevo di aver immaginato il modo in cui mi aveva risposto Bill.
« Come? ». Il suo respiro si fece ancora più vicino, da attirarmi come una calamita, verso la sua bocca. Una mano si posò leggera sulla mia guancia sinistra e mi guidò, affinché sfiorassi le sue labbra. Baciarle fu inevitabile: morbide e delicate, si posarono sulle mie serrate e corpose, sorprese di accogliere quel soffice tocco.

Non pensavo che Bill fosse così intraprendente. Colsi l’occasione per approfondire il bacio, che da diverso tempo sognavo di dargli. Il buio fu complice nel coprire il nostro imbarazzo. Così, guidati dall’istinto, ci avvicinammo di più per non interrompere quello che avevamo iniziato. Le mie mani circondarono il viso di Bill, con la tentazione di sentire sotto i polpastrelli, la sua barba incolta sfregarsi dolcemente sotto di loro. Provai una sensazione vibrante, quando le sue dita accarezzarono il mio collo scoperto. Mi lasciai trasportare dal sapore che la sua lingua confondeva con la mia, danzando entrambi con la punta, tra un palato e l’altro e smarrendoci ad ogni centimetro che avremmo toccato.

Perdemmo la cognizione del tempo, infervorati dal piacere e dal suono dei nostri ansimi contesi tra un bacio e l’altro. Bill ed io dimenticammo di essere bloccati in un ascensore. C’eravamo costruiti una libertà tutta nostra, che non aveva nulla a che vedere con quella che ci avrebbe portato fuori dall’abitacolo. L’aria che respiravamo, si diramava al suo interno mentre rincorrevamo con le nostre bocche, quella che ci avrebbe aiutato a resistere in un ambiente ostile, che per noi diventò un paradiso inaspettato. Non mi sembrava vero quello che stavo vivendo. Ne presi coscienza solo quando, la luce tornò ad illuminare i nostri visi accaldati. Bill mi fissò senza dirmi nulla, con la punta del naso di fronte al mio. Notai che era accovacciato fra le mie gambe ed io poggiato con le spalle sulla parete d’acciaio, mentre le mie mani avvertivano il tepore delle sue guance posate ancora sul volto.

« Credo sia meglio che ci alziamo ». Dissi, grattandomi il capo.
« Sì, scusa ». Bill si scostò per farmi spazio. Cercai di rimettermi in piedi, ma il tentativo fu vano quando, avvertii degli strani rumori dall’esterno che mi costrinsero a restare seduto sul pavimento:
« Cos’è questo cigolio inquietante? ».
« Non lo so, ma non mi piace! ». Esclamò Bill allarmato.
« Ragazzi, mi sentite? ». Dall’interfono, la voce di Georg irruppe nell’abitacolo con un fischio assordante: « Tenetevi pronti, stiamo per aprire le porte. Fra poco uno dei soccorritori calerà l’attrezzatura per farvi varcare dal piano più vicino all’uscita. D’accordo? ».

Finalmente una buona notizia.

Pochi minuti sarebbero passati ed io, insieme a Bill avrei detto addio a quella gabbia d’acciaio. Cosa successe dopo? Le nostre strade si divisero in fretta quanto fu fugace quel contatto fisico. Volutosi per necessità del momento o per attrazione inconsapevole da parte sua, questo, mi fu ignoto. Io sapevo però cosa volevo da lui e che potesse a modo suo ricambiarmi, non lo pensavo davvero. Sarebbe rimasto solo un sogno impossibile, avveratosi in maniera inconsueta e paradossale.  

Considerai quell’esperienza, come un cortometraggio breve e intenso d’emozioni. Un lavoro cinematografico dal titolo: Elevator. Bill non l'avrebbe mai visto come candidato agli oscar ma probabilmente, avrebbe vinto per il realismo col quale lo vivemmo. Prima che un pubblico avesse avuto occasione di considerarci attori, su un palcoscenico chiamato vita.

 
   
 
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