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Autore: Soqquadro04    09/07/2014    2 recensioni
[Ten/Rose ♥ | Fluff - stavolta sì | 1832 parole | Missing Moment/What if? | possibile OOC]
[...] Parla tanto, parla sempre, il Dottore – mai di cose importanti, però (non che non sia importante capire come scappare da una gigantesca lucertola rabbiosa, o che dispiaccia ascoltarlo mentre racconta per ore di vecchi viaggi e dei suoi ricordi, quando è in vena di farlo e il dolore sembra un po' più lontano).
Ma le cose
veramente importanti non le dice, bisogna capirle da soli, tirarle fuori da uno sguardo, un momento – questo non è cambiato, ha l'impressione che non cambierà (come quando osserva i suoi occhi, iridi scure e l'anima annientata, e l'unica cosa che può fare dopo è abbracciarlo, stringerlo più forte del passato – perché cosa non c'è, in fondo a quegli occhi).
Incubi, tazze di the e la sensazione di essere a casa.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 10, Rose Tyler
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo, e comunque non ci guadagno niente se non un sacco di dolore e nulla di più.
Generi: Fluff, Sentimentale, Introspettivo
Avvertimenti: possibilissimo OOC, What if?/Missing moments,
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Ehiii, sono tornata!
… la verità è che ieri sera sono caduta nella spirale dei video e non ne sono più uscita. *fa male male male*

No, va bene, è andata così ma è che la mattina mi sono svegliata con una voglia di scrivere che non vi dico – in generale, quindi mi sono messa sotto e mi sono messa a saltellare da un fandom all'altro e poi questa se n'è uscita da sola.
Poi nell'ultimo periodo sono stata un po' incasinata con il parentado, quindi sono stata assente ovunque #imsorry (infatti ringrazio il blocco note del cellulare, senza il quale non avrei mai avuto il tempo di scrivere questa storia).

Perdonatemi se sarà un disastro, ho sempre paura di rovinare tutto, non sono ancora abituata a trattare del (e col) Dottore e voi sapete meglio di me che è un personaggio difficile, in tutti i sensi. Personalmente, sento di avere interpretato molto, anche perché seriamente non sarei stata in grado di gestirlo – ha così tante sfumature che delle volte mi chiedo se anche gli autori riescano a capirlo o se si limitino a lasciarlo fare (non escludo la possibilità, sinceramente – anche perché, come se non bastasse, ogni volta che pensi di esserti stabilizzata ti mollano una rigenerazione fra capo e collo e devi fare tutto da capo che, ragazzi, è sfiancante, ma sempre tanto amore). Anche se in effetti nella sua testa mi ci sono avventurata relativamente poco, giusto un modo di tastare il terreno.
Comunque, vi prego sinceramente di non fucilarmi se sarà un casino COSÌ grande – personalmente credo che non sia da strapparsi i capelli, ma non assicuro nulla.

A parte questo, sono stata sul leggero, questa volta non c'è niente di cui preoccuparsi, davvero – solo un modo per passare la serata, che ho già pianto abbastanza a riguardare i suddetti video (roba che non riuscivo a smettere, rendiamocene, mancano in maniera assurda).
Spero che nonostante tutto non vi dispiaccia, e buona lettura <3

A presto,
la vostra Soqquadro

 

P.S. Una cosa a parte che non c'entra niente: ditemi che non sono l'unica a cui capita di scrivere Ten (in questo caso particolare) o comunque Doctor, a seconda di quanto sono distratta, invece di Dottore. Non lo faccio di proposito, è che in italiano mi suona completamente estraneo – dopo mi correggo, ma sul momento non ci faccio caso, ci sono semplicemente più abituata, persino i dialoghi mi vengono in mente in inglese (non che ci siano tutti questi dialoghi). #momentirandom #bah

_______________________________________________________________________________________________________

 

When the lights go down

(or)

the important things

 

When you feel my heat,
look into my eyes:
it’s where my demons hide,
it’s where my demons hide.

Don’t get too close,
it’s dark inside:
it’s where my demons hide,
it’s where my demons hide.

When the curtain’s call,
is the last of all;
when the lights fade out,
all the sinners crawl,
so they dug your grave
and the masquerade,
will come calling out
at the mess you made.

Imagine Dragons - Demons

 

Quando le chiede per quanto tempo resterà, lei neppure risponde più – gliel'ha già data, una risposta, fra l'altro più che esauriente, e non capisce perché, a volte, senta il bisogno di ripetersi (semplicemente lo guarda, appoggiata alla ringhiera, il TARDIS che sbuffa e geme attorno a loro mentre lui si impone sui comandi e le dice di prepararsi perché stanno per partire, e quando non lo ascolta, quando non ci fa caso e viene sorpresa da quegli scossoni da cavallo imbizzarrito, Rose finisce regolarmente a gambe all'aria sul pavimento – subito dopo ci sono la sua risata e una mano tesa per aiutarla a rialzarsi, le sue chiacchiere allegre e incessanti e incomprensibili, così familiari).

Parla tanto, parla sempre, il Dottore – mai di cose importanti, però (non che non sia importante capire come scappare da una gigantesca lucertola rabbiosa, o che dispiaccia ascoltarlo mentre racconta per ore di vecchi viaggi e dei suoi ricordi, quando è in vena di farlo e il dolore sembra un po' più lontano).

Ma le cose veramente importanti non le dice, bisogna capirle da soli, tirarle fuori da uno sguardo, un momento – questo non è cambiato, ha l'impressione che non cambierà (come quando osserva i suoi occhi, iridi scure e l'anima annientata, e l'unica cosa che può fare dopo è abbracciarlo, stringerlo più forte del passato – perché cosa non c'è, in fondo a quegli occhi).

È sempre stata brava in questo – in quel gioco di indovinelli –, lo conosce abbastanza da comprendere (abbastanza da sapere degli incubi anche se non gliene parla).

 

***

 

Gallifrey brucia e lui sta scappando.

 

Sa che è un sogno – un ricordo (lo sa anche nell'aria che odora di polvere e fuoco e sembra così reale, mentre scalcia senza riuscire a svegliarsi e si sente affannare con la parte di sé che sta cercando di tornare a galla dall'incubo – ma sapere non basta a scacciarlo, non basta mai).

 

C'è l'ultimo grido della sua gente – molteplici voci che si accavallano una sull'altra nell'unica, feroce, continua accusa di un popolo che muore –, c'è il cielo in fiamme con i suoi due soli quasi spenti, il pianeta che collassa, il suono di un TARDIS che non gli appartiene.

C'è il pianto di una bambina che gli trapassa le tempie, c'è l'urgenza che lo fa tremare mentre si muove attorno alla plancia dei comandi – faticherà a pilotare con cinque posti vuoti, ma è possibile.

 

Si rammenta, giovane e impaurito, e non riesce a perdonarsi (non può farlo) – ha tentato e ha fallito, ha fatto quel che sembrava l'unica cosa da fare (e quanto di lui si chiede se ha sbagliato, infine).
La memoria è una madrina crudele – ti tiene avviluppato nella sua morsa fino alla fine, non fa sconti, mantiene le promesse (qualcuno la definirebbe fedele).

 

Dopo c'è il silenzio – un silenzio che non è assoluto (il rumore di motori in azione, il suo respiro distrutto), abbastanza denso da lasciargli addosso una bestia fremente di ricordi, il peso di quel che sta svanendo in fumo dietro di lui (tutti i millenni di una stirpe antica, tutti i racconti, le guerre, i giuramenti – è rimasta solamente la cenere, a breve neppure resterà quella; ed è rimasto quell'uomo spezzato che è).

Le palpebre serrate, prova a immaginarsi nei decenni a venire – sempre uguale, sempre diverso (sempre a scappare, a correre, tentando di lasciarsi alle spalle il fuoco).
Quando riapre gli occhi rimangono solamente lacrime silenti in fondo alla gola e una durezza nuova nello sguardo – la rabbia, semplicemente la rabbia (sepolta sotto le macerie, frammenti di un'altra vita e un altro tempo – una vita e un tempo che non saranno più).

E la definitiva rassegnazione, la solitudine, un pensiero che arriva a colpirlo con la ferocia aspra delle cicatrici che non si rimarginano – sarà solo, unico comandante di una nave sul punto di affondare, ultimo esponente di un'intera razza estinta a causa sua (eremita rinnegato con troppi anni davanti).

Così tremendamente, irrimediabilmente solo.

 

***

 

La sveglia un gemito che non è sicuramente un assestamento della nave – risuona tra le pareti, angoscioso, un ansito fragile.
La raggiunge in quella camera graziosa che aveva trovato, uno dei primi giorni, esplorando in cerca della cucina – o di qualcosa che assomigliasse anche soltanto vagamente a una cucina – con poca convinzione). Socchiude le palpebre, confusa, voltando assonnata il capo contro il cuscino prima di realizzare.

Il ritmo sonno/veglia di lui non è uguale a quello di un essere umano – non sarebbe possibile, in testa ha migliaia e migliaia di calendari che saltano di ore, giorni, mesi, anni (a volte persino secoli, a seconda del pianeta) e viaggiare nel tempo di certo non aiuta col fuso orario (dorme poco, quel che basta – e ci sono gli incubi, quelli che legge nelle sue spalle contratte, in qualche istante breve, fuggevole).

Rimane ad osservare il soffitto – si potrà poi chiamare soffitto? – per qualche minuto, indecisa – vorrebbe raggiungerlo, svegliarlo (aiutare in qualche modo – magari preparare una tazza di the, il the migliora sempre le cose, anche per un inglese adottato), eppure non è certa che lui voglia farsi vedere così, la mente subbuglio e i ricordi troppo vicini alla superficie.

Stringe le labbra, l'udito teso, affinato – quando sente un altro lamento sommesso levarsi sfiatato dal buio lascia scivolare via l'incertezza e si tira in piedi, in fretta, torcendo l'orlo della maglietta fra le dita (rischia di perdersi in un paio di svolte, attratta dalle luci ingannevoli di qualche vicolo cieco – tutti piuttosto inutili, non che il TARDIS se ne faccia un cruccio –, ma in qualche modo raggiunge la sala comandi, illuminata a giorno come di consueto, e da lì è facile arrivare alla camera del Dottore, vicino al guardaroba, una porta socchiusa seminascosta nell'ansa stretta di un corridoio).

Il suono dei suoi passi è perfettamente udibile, non sa però se abbastanza forte da svegliarlo – non è mai stata leggera, Rose, sempre un po' sgraziata, un po' fuori dal mondo (trattiene il fiato, affacciandosi dalla soglia – lo lascia andare quando lo vede lottare contro la cappa opprimente del buio, la fronte corrugata, il petto ansante nel mezzo del sogno).

Le fa male vederlo così – per una volta inerme, senza vite d'altri sulle spalle, così perso e sofferente – e al contempo le scalda il cuore sapere di averne la possibilità (così, a piedi nudi, i capelli arruffati e gli occhi cerchiati di sonno – sa di familiarità, di casa, di qualcosa di semplice e segreto; una giacca abbandonata distrattamente, qualche parola lasciata cadere senza pensare).

Esita appena, prima di entrare – lancia un'occhiata breve intorno, uno scrittoio in un angolo, un attaccapanni che pende a testa in giù sul letto per un qualche motivo, lasciando penzolare il cappotto, un globo luminoso sul comodino (si sofferma un istante, poi scuote il capo e incrina le labbra in un accenno di sorriso) –, ma è solo un secondo e poi già gli è accanto, la bocca dischiusa in un mormorio basso, rassicurante (ricorda che Jackie faceva così, quando aveva sette anni e le notti erano tormentate da mostri svaniti nel tempo – un sussurrare privo di senso, lettere scelte a caso, una finta ninnananna).
Lui non è un bambino, anche se a volte lo sembra – i suoi mostri sono reali, non vuote fantasie infantili, e allora si limita a chiamarlo, piano, costante, confortante.

«Sono Rose. Dottore... shh. Sono Rose.» accetta senza protestare la stretta disperata delle sue mani, la ricambia, si fa sentire – sono qui calmo va tutto bene –, in quella penombra devastata dal suo respiro affannoso (lo vede aprire gli occhi di scatto, riportato alla realtà dalla sua voce – lo sguardo scuro e lucido, sgranato, spaventato come non l'ha mai visto. Si sente stringere l'anima, lui che sembra così giovane, in quelle ombre artificiali, e trema appena).

Gli scosta i capelli umidi dalla fronte con tutta la delicatezza di cui è capace, lasciando che piovano carezze su quel viso stanco – raccoglie un sospiro, tiene il suo capo nella curva di una mano, asciugando una goccia imprudente, cerca con i polpastrelli quell'angolo nascosto alla base del collo (scoperto una volta per caso, un abbraccio e quel suo rilassarsi immediato), fino a che lui non si tira a sedere, come tornato in sé, incapace di fermarsi, le risponde con un sorriso sfiancato che non la convince minimamente.

Eppure gli sorride di rimando, fingendo tranquillità, lo lascia libero di ricomporsi – gliel'ha letto negli occhi che stanno per partire di nuovo, ora non può dormire, deve vestirsi anche lei – e decide che è il caso di andare a preparare quel the, esattamente come farebbe una vecchia governante inglese per risolvere i problemi. Dubita che abbiano dei biscotti, però.

 

***

 

Sta osservando sovrappensiero lo schermo degli scanner ambientali – completamente inutili, sono parcheggiati su un piccolo, comodo asteroide vagante, non ha nemmeno un nome e non c'è motivo di uscire – quando Rose gli sistema fra le mani una tazza di the bollente, senza domandare e senza preoccuparsi di quanto diavolo sia cocente (un Earl Grey una volta ha salvato il mondo, del resto, potrà ben sopportare).

Alza lo sguardo, quasi sorpreso, trovandola a portarsi alle labbra il bordo della chicchera di porcellana – la ringrazia con un cenno, imitandola.
Il liquido è incandescente, gli brucia il palato – e non sa di the.

«Sei probabilmente l'unica inglese che sbaglia i tempi di infusione, Rose – sembra acqua calda.» la canzona bonariamente, il volto che si tende in una risata breve – lei lo squadra per un attimo, quasi offesa, ma ha le labbra contratte come fa quando si sta trattenendo dal sorridere.

Un minuto più tardi si è già arresa, qualcosa negli occhi che gli dice che va bene, va bene qualunque cosa, basta che rimangano così come sono ora – ricambia quello sguardo, condividendo il segreto di quelle carezze, chiusi in una stanza con il suo passato a incombere dagli angoli. Appoggia la tazza in bilico sullo schienale del sedile, pericolosamente inclinata, non se ne cura – apre le braccia in un invito e Rose capisce, probabilmente ne ha bisogno anche lei, forse vuole solo stargli vicino (in qualsiasi caso, gliene è grato – grato davvero, con entrambi i suoi cuori e con quella parte di lui che riesce a respirare, mentre la stringe un po' più forte di quanto dovrebbe, un'ombra dipinta dietro le palpebre chiuse).
Poi il momento passa, sciolgono quell'abbraccio – così uguale ai loro e così diverso –, e lui sta già fregandosi le mani, una destinazione sulla punta della lingua, le gambe che già scattano da un punto all'altro della console dei comandi.

«Avanti, indietro, Terra, ci tuffiamo nella prima galassia che ci capita davanti?» stavolta Rose ride davvero, ilarità soffocata dietro una mano mentre una ciocca bionda le cade sugli occhi – inclina il capo di lato, la osserva.
«Ovunque.»

   
 
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