Fanfic su attori > Coppia Downey.Jr/Law
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Autore: Walking_Disaster    09/07/2014    3 recensioni
Robert Downey Jr è un newyorkese che arriva a Monpazier, nell'entroterra francese, con cravatta, Blackberry e BMW 650i. Sa che Monpazier è un paese minuscolo, con poco più di 500 abitanti, e sa di essere lì perché deve trovare nuovi sapori per l'azienda cioccolatiera per cui lavora in America. Sembra che l'attenzione del suo capo sia stata attirata da una bottega di cioccolateria caratteristica del luogo, dove due uomini portano avanti la tradizione del lavoro del cioccolataio. Sa che, intossicato com'è dalla sua vita fatta di frenesia e stress, non riuscirà a stare in quel paese per troppo tempo.
Jude, invece, è il proprietario di una cioccolateria tipica a Monpazier. Sa di portare avanti con fierezza la tradizione di sua nonna, aiutato dal proprio compagno, Ewan. Sa riconoscere tutti i tipi di cioccolata solo sentendone l'odore. E' un maître chocolatier, ma preferisce qualcosa di più tipico, di suo. E per questo possiede un piccolo negozio, tutto suo: "Le goût du péché."
Ciò che non sanno, però, è che si innamoreranno. E per complice proprio ciò che hanno in comune: il cioccolato.
Disclaimer: Questa FF non vuole dare reale rappresentazione dei caratteri e della sessualità dei personaggi citati.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Chocolat.


Capitolo 1 -

Pulito, profumato, giacca, cravatta e ventiquattr'ore. Senza bicchiere di Starbucks in mano, però.






Aria limpida, libera da smog.
Oh, che infinito culo.
Fu questa la prima cosa che notai ed il mio primo commento su quel luogo, mentre scendevo dalla mia bellissima BMW 650i rossa tirata a lucido, la mia ventiquattr'ore stretta in mano, l'auricolare all'orecchio e gli occhiali da sole ad impedirmi che la luce presente in quel paese localizzato in un ben poco chiaro "culo al mondo" mi ferisse le cornee. Davvero, il Sole francese era terribile.
Le mie scarpe in pelle lucida si posarono sul selciato a mattoncini grigi, mentre mi guardavo intorno con un sopracciglio sollevato: alberi, case, archi - Ehy, archi? Archi architettonici? Oh, esistono ancora?-, persiane – persiane? – e caratteristici portoni blu. Di legno.
Ma dove diamine ero finito? Nella patria dell'anticristo?
Parigi, dov'ero stato fino a sei ore di auto prima, era anche accettabile per un newyorkese assuefatto allo Starbucks come me; auto, vetrine, persone al cellulare, uomini con giacca e cravatta e donne su vertiginosi tacchi a spillo... in quel posto, invece, a Monpazier, un paesino di poco più di 500 abitanti in Aquitania, non c'era niente di tutto questo. Fruscii del vento, un solo uomo dal volto stropicciato dalle rughe che teneva un bastone accanto a sé, seduto su di una panchina all'ombra, e alberi. Silenzio, poi, tranne il cinguettio degli uccellini. Strano: a New York c'erano solo i piccioni. E loro facevano schifo, erano parassiti con le ali. Peggio dei topi.
Sospirai profondamente, umettandomi le labbra prima di estrarre il mio Blackberry dalla tasca per controllare se avessi ricevuto chiamate di qualche genere o messaggi che mi erano sfuggiti. Mi morì qualcosa dentro non appena mi accorsi che non c'era campo. Sentii un pezzo del mio cuore disintegrarsi distintamente mentre sollevavo in aria l'apparecchio, mi spostavo di un paio di passi, ma niente. E con quelle tacche di campo nulle non avrei avuto neanche Internet.
Isolato.
«Merda.» Imprecai a denti stretti, passandomi nervosamente una mano tra i capelli. Solo, isolato e sperduto. Neanche Heidi si era presa un'inculata così grande. Perlomeno lei aveva quella capra a farle compagnia, io neanche quella.
E come se non bastasse, in quel modo non avrei neanche potuto avvertire Susan del mio arrivo qui, né avrei potuto salutare Indio ed Exton come invece avevo promesso loro.
Ma ovviamente chi se ne fregava della vita privata di Robert! Tanto a chi sarebbe toccato andare in un luogo sperduto tra i boschi se non a me? Kilmer era stato categorico su chi mandare in Francia, probabilmente per togliermi dalle palle, tra l'altro. Che gli stavo sul cazzo era una verità universalmente conosciuta.
Per cui adesso mi trovavo a dover studiare nei minimi particolari una bottega, doverci scrivere una recensione e conoscere le tecniche di lavoro dei proprietari. Due inglesi, se non sbagliavo. Il ché era un bene, perlomeno non avrei avuto problemi per farmi comprendere in un francese smozzicato a denti stretti – quella lingua del cazzo tutta R mosce ed eleganza. Una lingua da froci, io l'avevo sempre detto. No, ehy, niente in contrario ai gay. Il mio migliore amico, Chris, lo è.
Ma tornando a noi, lì, in quella piazza surriscaldata dal sole, c'era l'ingresso dell'hotel dove avrei alloggiato per tutto il mio soggiorno a Monpezier – circa un mesetto, quindi. Un mese sperduto nel nulla dove il massimo passatempo a cui avrei potuto ambire sarebbe stato contare quanti mattoncini c'erano sotto ai miei piedi.
Mi ritrovai a sospirare pesantemente mentre già sentivo la mancanza della mia televisione e mi dirigevo a passo sostenuto verso la porta sopra alla quale l'insegna in legno recava la scritta "H
ôtel de France". Fantasiosi nel nome, niente da dire. Si erano sforzati per essere originali.
Ma che potevo pretendere da quel posto, se neanche ero sicuro che avessero l'acqua corrente calda?
Arrivato alla porta, comunque, la mano non occupata dalla valigetta si pose sulla maniglia, permettendomi a quel modo l'ingresso nell'albergo. Un campanello tintinnò, ed evidentemente era il miglior metodo che possedessero lì per avvertire dell'arrivo di un nuovo cliente.
Mi guardavo intorno mentre avanzavo nella piccola ma accogliente e colorata hall, per poi giungere al bancone e prendermi gli occhiali da sole per portarmeli sopra la testa.
Passò qualche momento prima che una signora bassa e grassoccia, con due gote rosse come peperoni ed i capelli raccolti con una pinza in maniera scompigliata, mi rivolgeva un "bonjour!" a dir poco trillante. Più del campanello.
Mh, incoraggiante.
Non potei fare nient'altro se non stirare le labbra in un appena abbozzato sorriso, prima di rispondere al saluto: «
Bonjour a vous. Je peux parler en anglais?»
Le rivolsi quella manciata di parole biascicate del più che ristretto vocabolario francese che mi ritrovavo, l'accento così pesante di cui mi accorsi perfino io stesso. Speravo solo che potessimo comunicare in qualche modo, perché le premesse non erano state delle migliori... Ed ora che ci pensavo era davvero perfetto e coerente con se stesso: un mese da passare da solo, sperduto in mezzo al nulla, senza campo al cellulare e senza poter parlare perché nessuno mi avrebbe compreso, nonostante la mia lingua madre fosse quella più parlata a livello mondiale. No, in realtà forse era il cinese mandarino quella più parlata, ma chi diamine se lo cagava il cinese mandarino? Tanto era inutile continuare a rimuginarci su: non avrei mai avuto un bel soggiorno come invece aveva tentato di farmi credere Susan. Certo, lei se ne sarebbe rimasta a Parigi un altro paio di giorni e poi sarebbe tornata in America. La faceva facile, lei!
E no, se volete saperlo, a parer mio non ero assolutamente esagerato! Ero abituato alla vita a New York: ore di punta, eterogeneità della popolazione e taxi che passavano ad ogni ora. Qui invece avevo solamente visto un vecchio ed una donna che mi sorrideva di un sorriso così tirato e teso da risultare quasi imbarazzante, per quanto lo rendeva ampio. Mi ricordava Joker, ed inoltre sospettai per un istante che fosse stata presa da una paralisi, ed in effetti sarebbe stato un problema, perché dubitavo esistessero ospedali prossimi. Poi però parlò, sollevandomi dai miei timori: «Mais oui, posso comprenderla! Stia tranquillo!»
Oh, gioia. Allora forse non ero finito proprio tra i cavernicoli!
Mi ritrovai a tirare un sospiro di sollievo a quella rassicurazione, mentre sbattevo per un istante le palpebre e poi mi sforzavo di fare un sorriso più convincente alla donna, annuendo subito dopo e riprendendo nella mia lingua, più sicuro: «Oh, perfetto. Ho prenotato una camera a nome Downey.»
Solo quando la donna tirò fuori un quaderno vidi le mie speranze sgretolarsi in maniera inesorabile, proprio davanti a me. Se fino a cinque secondi prima avevo pensato che forse – e dico
forse – non sarebbe stato così male soggiornare lì, che forse non erano poi così tanto primitivi, spaziare lo sguardo impanicato per il bancone mi aveva fatto ricredere: non c'era un computer. Come cazzo era possibile? Mancava poco e persino in Nigeria avrebbero avuto i computer, ma la donna non ne possedeva uno. E dovevo ammetterlo: quell'assenza di elementi che facevano parte della mia quotidianità mi disturbava. Insomma, come facevano? Come avrei fatto!? Dov'erano le macchinette del caffè? Dov'erano i mega schermi pubblicitari? Lì non c'era niente di tutto il progresso a cui ero abituato. Però... perlomeno avevano il telefono fisso.
Dai, Robert: forza e coraggio.



Oltre a tutte le mancanze che già avevo ampiamente notato, a quanto pareva non avevano i facchini, in quell'hotel. E stupido io che mi ero stupito, ovviamente.
E per questo fui costretto ad uscire dalla struttura, riattraversare la piazza assolata, lanciare uno sguardo al vecchietto ancora immobile sulla panchina, raggiungere l'auto, prendere il trolley e fare il percorso a ritroso aggiungendoci un paio di rampe di scale (ma che domande sono? Ascensore? Di che cazzo stai parlando?), fino a quel punto, nel quale riuscii finalmente a chiudermi la porta alle spalle con un lungo sospiro esasperato.
Ed entrai solamente per trovarmi di fronte un letto da due piazze, uno specchio da parete, una piccola televisione (Andai subito a toccarla per vedere se era vera e non di cartone. Addirittura era a schermo piatto, da che sembrava) ed un armadio. Nient'altro. Oh, il comodino accanto a letto. Un mese della mia vita speso lì dentro. Che degrado, Rob... non mi aspettavo di certo il cioccolatino sul cuscino, ma... che degrado, Signore santissimo!
Dopo un ennesimo sospiro per restare calmo ed aver finito di studiare la stanza con sguardo sconfitto, estrassi di nuovo il cellulare di tasca, in cerca di qualche segno di vita. Ma niente. Caput. Morto.
No, adesso stava diventando davvero un problema l'arretratezza di quel luogo: dovevo chiamare Susan per informarla che ero ancora vivo, che diamine! Magari lei si stava facendo la manicure, o i capelli, e non se n'era neanche accorta, ma se invece lo aveva fatto? Mi avrebbe rotto un timpano a suon di grida via cornetta. E non mi piaceva molto quell'eventualità: avevo già abbastanza disagi senza che ci si mettesse una sordità parziale.
Insomma, come avrei fatto a comunicare senza nessun mezzo tranne i piccioni viaggiatori? Dovevo chiedere alla proprietaria – Jacqueline? Sophie? Uno di quei nomi delicatini francesi, insomma – di poter fare una telefonata, perlomeno avrei tranquillizzato mia moglie. Se lei si fosse ricordata che io ero partito, ovvio.
Preferii lasciarmi cadere sul letto con uno sbuffo, gli occhi chiusi, spalmato completamente su quel materasso a braccia aperte rivolte verso il soffitto.
Dovevo fare il punto mentale della situazione: dunque, ero arrivato a Monpazier, gioia e tripudio nei nostri cuori, mi ero sistemato in albergo e, durante la strada percorsa in auto da Parigi a Monpazier, avevo inviato un messaggio a Kilmer per informarlo che ero giunto a destinazione. Lui mi aveva risposto che avrebbe voluto ricevere un'e-mail la sera stessa con le prime foto della bottega e le prime informazioni sui proprietari. In breve, una superficiale ed iniziale conoscenza di ciò a cui puntava. Ed in mancanza di una qualsivoglia possibilità di comunicare col mondo esterno, quello moderno, tanto valeva mettersi a lavoro già da subito e cercare poi il modo per mandargli quella stracazzo di e-mail. Mi riusciva a rompere i coglioni anche in un altro continente...
Feci schioccare la lingua contro al palato, e prima di darmi al lavoro, decisi di farmi una doccia veloce, così da togliermi di dosso la pesantezza del viaggio. Il bagno era un buco, neanche Thorin Scudodiquercia ci sarebbe mai entrato per intero, ma pace fatta. Tanto avevo capito che andazzo tirava.



Pulito, profumato, giacca, cravatta e ventiquattr'ore.
Non che fossi cambiato granché in quella mezz'ora che mi ero concesso per darmi una sistemata, ma perlomeno non puzzavo come uno zingaro.
In quel momento stavo tentando di comunicare con la proprietaria dell'hotel – Amélie, ecco qual era il suo nome – tramite gesti e parole smangiucchiate in una o l'altra lingua. Alla fine però ero riuscito a capire che sì, nella piazza della banca c'era un wi-fi libero a cui avrei potuto collegarmi col mio portatile (no, non fate quelle facce: non ci credevo neanch'io) e che certamente, se non avevo campo, potevo fare tutte le telefonate che desideravo col telefono dell'albergo. E fu per questo che chiamai Susan, che mi liquidò con "Mh. Mh. Ah, ok. Sì. Perfetto, Robert, a presto.". Soddisfazioni della vita di coppia, eh? Che invidia... notare il sarcasmo, tra parentesi.
Comunque, informata mia moglie, potei finalmente chiedere ad Amélie dove avrei potuto trovare la bottega che cercavo. E fortunatamente era ad un paio di strade sopra quella dell'hotel, avrei potuto andarci a piedi. Oh, che sorpresa. Un posto così vicino in una così grande metropoli!? Ma chi l'avrebbe mai detto!
Fatto era che, nonostante le mie previsioni, riuscii a non trovare la bottega. E sì, mi sentivo preso per il culo da tutta la fottuta Europa, da tutti i dannati francesi e perfino da me stesso. Ma porca puttana, avrei volentieri cominciato a buttare di sotto dal Paradiso tutti i santi. Uno per uno. Lì, in mezzo alla strada. Poi però individuai il vecchietto. Esatto, quello che avevo visto al mio arrivo in quel posto in culo ai lupi.
Mi guardava male, mentre faceva tre passi su di un mattone. Evidentemente non capiva come diamine potessi essere ovunque, nel suo paese. Il forestiero arrivato a disturbare la quiete della tranquilla vita di provincia – anche se a mio avviso quel luogo era perfino inferiore alle province, in quanto a importanza. Però cercavo quel cazzo di negozio, e mi servivano informazioni. Fu per questo che mi stampai in faccia un improbabile sorriso gentile tutto denti, mi tolsi gli occhiali e avanzai baldanzoso verso di lui, sperando di avere un'aria bendisposta. In realtà, dall'espressione che mi rivolse, dovevo sembrare più un coglione che altro. Non badai a quel dettaglio, però, e gli chiesi tutto ciò che mi serviva sapere. D'altro canto, ero sulla disperazione andante.
«Oh, bonjour monsieur! Je peux demander vous un information?» Non avevo idea se mi avesse capito. Non avevo neanche idea se fosse una frase corretta, escludendo la formula d'inizio – il "bonjour monsieur". Ero un caso disperato. Sarei morto lì e mi avrebbero ritrovato dopo anni.
Tuttavia, qualcosa di senso quasi compiuto dovevo averlo detto, perché mi annuì dopo avermi squadrato da capo a piedi, gli occhi piccoli e affilati, adombrati dalla coppola blu scuro che portava in testa, ridotti a due fessure indagatrici.
Io presi un bel respiro prima di proseguire nel mio francese stentato: «Ou est
"Le Goût du péché"?»
Esatto: persino la bottega aveva un nome del cazzo. "Il Paradiso del peccato"... ma stiamo scherzando? Inizialmente pensavo fosse un sexy shop. Oppure un modo carino per indicare una dark room di una discoteca gay. Ed invece no, era una cioccolateria caratteristica di Monpazier. Kilmer mi aveva dato chiare disposizioni: avrei dovuto anche chiedere delucidazioni sul nome.
Comunque, a discapito di quei miei pensieri un tantino terrorizzati da ciò che mi sarebbe aspettato di lì a poco, il vecchio dischiuse le sue labbra, mostrandomi le gengive in quello che evidentemente doveva essere una sorta di sorriso. Poi tese un braccio e, col dito nodoso, mi indicò un'insegna all'angolo della strada con su scritte, in corsivo, le parole che io avevo pronunciato un solo attimo prima:



Le Goût du péché


Oh, perfetto. Avevo fatto la figura del coglione anche davanti ad un vecchio.
Gli rivolsi un "merci" sbrigativo mentre gli davo le spalle e mi dirigevo a passo sicuro verso il negozio che quell'uomo mi aveva indicato.
Giunsi davanti alla bottega e mi ci piazzai di fronte, squadrandola: vetrine ampie e ben fornite, ad una prima occhiata, muri esterni candidi ed una porta la cui metà superiore era in vetro e quella inferiore in legno. Sulla lastra che permetteva di vedere l'interno, c'era un cartellino attaccato con su scritto "open". Oh, inglese, adorato inglese.
Batteva il Sole sulla facciata del negozio (in effetti avevo trovato ben pochi posti all'ombra, ora che ci pensavo), ed era... pittoresco. Come ogni altra fottuta casa barra negozio che si trovava per le strade del paesino. C'era un grande platano all'altro lato della strada, però, che di tanto in tanto, mosso dal vento, copriva e scopriva con la sua ombra i muri e le vetrine de "Le Go
ût", creando giochi di luce che facevano sì che quel luogo diventasse ancora più particolare.
In breve, era strano. E mi ricordava vagamente una casa greca. Santorini.
Al muro, accanto alla porta, c'era attaccato un mazzo di fiori viola. Mazzo che era stato messo a testa in giù, ed io piegai il capo verso destra, avvicinandomi verso quella composizione, le sopracciglia aggrottate. Sollevai la mano che non stringeva la valigetta e presi con delicatezza uno di quei fiorellini conici tra indice e pollice, avvicinando il viso al mazzetto ed annusando: riconoscevo l'odore solo vagamente.
«E' lavanda. La conosce?»
Distolsi la mia attenzione da quel fiore, il cipiglio ben marcato ancora presente per spostare poi lo sguardo verso la fonte di quella voce maschile che tradiva un sorriso, lo si percepiva bene. E così mi trovai davanti un uomo biondo, occhi azzurri, labbra piegate in una curva gentile, fermo davanti alla porta d'ingresso del negozio e braccia incrociate al petto. Accento inglese.
Oh, Dio salvi la regina ora e sempre! Ok, non ero inglese, ma avrei potuto parlare e capire!
Mi presi qualche attimo per squadrare quell'inglese (sì, adesso dovevo farlo sapere a tutti: era
inglese ed era anglofono): maglietta bianca con scollo a V, grembiule in vita, occhiali da vista e jeans. E se non ero completamente scemo, doveva essere o quel McGregor, o l'altro... Lars?
«Mia moglie usa un bagnoschiuma con questo profumo, se non sbaglio.» Risposi alla sua domanda con un sorriso di cortesia, tirandomi gli occhiali in testa e porgendogli la mano, prima di presentarmi: «Io sono Robert Downey, sono quello che dovrebbe scrivere su questa bottega, cercare i sapori e tutto il resto... lei è il proprietario?» Domandai successivamente, lanciando una veloce occhiata all'interno. Lui mi fece attendere un po' per la stretta di mano, perché prima si pulì la destra sul grembiule, evidentemente per evitare di sporcarmi – anche se non capivo: aveva le mani sporche e usava una maglietta bianca? Che cretino... - e solo allora ricambiò la mia presentazione con un ampio sorriso, annuendo frettolosamente e spingendosi gli occhiali sul naso per sistemarseli: «Uno dei due, esatto. Sono Jude Law e... be', sì: sono il cioccolataio.»







Walking_Disaster's corner:
Eccomi qui, di nuovo. Dovevo.
Questa FF è nata ieri sera a cena. Non chiedetemi perché o come: è venuta e basta. Mangiavo il pesce spada coi pomodori mentre pensavo ad un Jude cioccolataio.
Collegamenti mentali avvenuti?
"E se uno dei due fosse uno chef? O un pasticcere? > Ehy, c'è Lezioni di cioccolato, domani! > Ehy... e se fosse un cioccolataio? > Come la tizia di Chocolat, con Johnny Depp." Ed infatti il titolo della FF è ripreso dall'omonimo film con Johnny caro.
Dire che la sto già amando è dire poco. Non mi stupirei se diventasse una delle mie figlie predilette... sì, be', tutte le storie per un autore sono importanti, ma c'è sempre qualcuna che surclassa le altre, no? Ecco, questa, con tutta probabilità, sarà una delle mie pupille – anche se, ovviamente, devo vedere come si svilupperà.
Passando al capitolo:
Monpezier esiste davvero, come esiste davvero a Monpezier l'hotel de France e come è vero che ci sono poco più di 500 abitanti. Mi sono presa un po' di libertà per quanto riguarda le descrizioni degli ambienti (porte blu, case bianche)... volevo qualcosa che rimanesse impresso, che fosse caratteristico e che potesse far stranire Rob, anche se, non essendo mai stata a Monpezier, quest'ultimo potrebbe essere il paese più anonimo della Francia XD
Passiamo ai personaggi: abbiamo un Rob che, fisicamente parlando, è Tony Stark. Cinico, che affogherebbe nel caffè, impaurito da quelle che lui vede come cose indispensabili nella sua vita e che invece non ha in paese (come il wifi o internet sul telefono). Jude invece è come Rob lo ha descritto... vestito in maniera molto semplice (anche se non mancano ovviamente le maglie con scollo a V, obv <3). E per il momento sappiamo solo questo, ma il prossimo capitolo è dal pov di J, per cui capiremo qualcosa in più :)
Per i restanti pg citati, escluso il vecchietto e Amélie che sono miei miei, penso non ci sia bisogno di spiegare chi sono o chi non sono. Tranne Chris, forse, ed intendo Chris Evans (Captain America, tanto per intenderci)
Poi... i piccioni-parassiti con le ali e il puzzare come uno zingaro sono OVVIAMENTE riferimenti ad AGOS, che io amo.
Unica nota da fare: Rob ha 39 anni e Jude 37.
Ah, e il francese di Rob è smozzicato come il mio, per cui non mi stupirei se trovaste errori nelle frasi francesi! Ho studiato solo alle medie la lingua, per cui sono un po' tanto arrugginita, nonostante le varie ricerce su internet. Quindi, se qualcuno nota degli errori, non esiti a farmelo sapere <3
Sicuramente mi sto dimenticando qualcosa, ma... dettagli. Lo dirò nelle NDA del secondo capitolo.
Voglio invece ringraziare LelaAndHerLonelyShadows perché mi supporta sempre, mi aiuta in ogni progetto in cui mi imbarco e perché è diventata la compagna dei miei scleri su... *Coff*CulodiRob/LabbradiJude*Coff*
Va be' oh, non ho nient'altro da dire se non che vi regalo un cioccolatino di Jude se mi lasciate una recensione.
Ci vediamo al prossimo capitolo,
WD

Oh: probabile il rating diventerà rosso, prima o poi :3

   
 
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