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Autore: Haruma    09/07/2014    3 recensioni
Katniss aveva avuto un incubo. Lo capì da come respirava, dalla paura che stava svanendo lentamente dai suoi occhi lasciando spazio ad una piccola percentuale di stupore.
Vuoto. Era quello che regnava nelle sue iridi più di qualunque altro sentimento e lo spaventava molto, eppure non poteva smettere di osservarla.
"Perché sei così... spenta? Hai deciso di lasciarti morire, Katniss?"
[Bisogna affrontare le proprie paure. Solo così si può andare avanti. || Peeta ritorna al Distretto 12 || Leggermente angst]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Sae la zozza
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tra pezzetti di pane galleggianti'
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Piccola premessa: Alcune ripetizioni sono volute, specialmente quelle dei primi righi. Ci sono anche dei piccoli riferimenti alla mia precedente one shot «Credo che sia arrivato il momento di andartene da qui, Mellark», percui è consigliabile leggerla. Se non volete, siete liberi di non farlo. Non rovinerebbe comunque niente :)



«Non voglio diventare come uno di loro»

Era nel bosco del Distretto 12. Lo aveva promesso a se stesso; la prima cosa che avrebbe fatto, sarebbe stata solo ed esclusivamente per Katniss.
Stava sradicando degli arbusti che non avevano colore, non ben definiti. Ma sapeva cosa fossero. Primule.


Perché le primule? Non erano di certo il suo fiore preferito! No.  
Ma le primule erano importanti. Davvero molto.
Rappresentavano qualcuno, o meglio, erano qualcuno. Perché Prim era così, delicata e semplice.
Si asciugò la fronte con il dorso della mano malgrado non facesse caldo.
Forse era una stupidaggine, eppure non poteva smettere di fermarsi. 
"Non potrai mai riportarle sua sorella. Mai" continuava a ripetersi ma puntualmente scuoteva la testa per scacciare via quel così brutto pensiero; orribile quanto estremamente e crudelmente vero. Valeva la pena tentare, valeva la pena fare qualcosa anche se era così poco, tanto insulso come piantare primule attorno casa di Katniss. 
Quando alzò lo sguardo, intravide tra i rami degli alberi alti la luce flebile dell'alba. 
Socchiuse le palpebre dopo che un lieve raggio del sole appena accennato trovò i suoi occhi cristallini. 
Continuò con lo strappare gli arbusti dal terreno. Alcune zolle di terra rimanevano solidamente attaccate alle proprie radici. 
Stare in quella posizione, rannicchiato in un angolino, gli rendeva un po' difficile muoversi liberamente. La gamba buona si era quasi addormentata e sentiva un fastidioso formicolio al piede. 
Il non avere un arto non lo agevolava affatto, ma non si era mai lamentato. 
Intorno a lui il bosco taceva. Tutto era troppo tranquillo per i suoi gusti. Riusciva ad ascoltare soltanto il canto delle allodole e di alcune ghiandaie appollaiate da qualche parte in alto. 
Quelle piante tanto imponenti gli ricordavano maledettamente i suoi primi Hunger Games mentre -in lontananza- la fitta nebbia che si estendeva per una buona parte del territorio, lo fece proiettare nei suoi secondi giochi. 
In poco tempo si ritrovò ad inciampare in un grande masso ricoperto interamente da muschio che sporgeva dal terreno. 
Barcollò cercando di mantenersi in equilibrio sulla protesi ma scivolò di schiena e andò a sbattere con la testa al suolo. Gli sembrò di aver perso la capacità di respirare, i suoi polmoni si erano completamente svuotati. 
Quello che vide dopo furono tante ombre scure che lo attorniavano, lo deridevano maligne e lo dilaniavano brutalmente con spade e frecce, lance e coltelli. Aghi inseguitori lo pungevano dappertutto. 
Poi una siringa con un liquido giallo fosforescente gli trapassava il collo e lo stantuffo si abbassava lentamente provocandogli un male lancinante. 
Era fermo, inerme. Non poteva fare alcun movimento: era legato con delle cinghie ad un lettino di metallo e la stanza in cui si trovava era buia e puzzava di disinfettante e muffa. 
Si appoggiò al tronco del grande albero al suo fianco e infilzò con tutta la sua forza le unghie nella corteccia inarcando la schiena dolente. 
Stava avendo un episodio; uno di quelli insoliti e strani ma tutt'altro che lievi. 
Urlò a squarciagola non preoccupandosi di spezzare la calma che regnava in quel luogo. 
Nella sua testa tutto gridava, tutto si tingeva di rosso.  
Di solito non si comportava in quel modo. Negli ultimi tempi, si limitava a dimenarsi, a stringersi la testa tra le mani e, successivamente, a cercare un appiglio, qualcosa che lo facesse ritornare al mondo reale. 
Ma il dolore sembrava talmente concreto che non riusciva a trattenersi e serrare le labbra.
Aprì gli occhi di scatto tentando disperatamente di trovare un qualcosa che gli ricordasse che quelle immagini non erano altro che frutto del veleno degli aghi inseguitori, sfortunatamente ancora in circolo nel suo corpo. 
«Io non voglio...» strinse forte i denti accasciandosi con lentezza estrema al suolo. «Non voglio» sussurrò facendo pressione sull'albero.
Stava ansimando quando si ritrovò ad osservare sconvolto la corteccia scura del tronco ad un palmo dal suo naso. Era tutto finito.
Ci era riuscito di nuovo.
Sospirò sedendosi e portandosi le mani al volto sudato restando in quella posizione per svariato tempo.
Ci era davvero riuscito di nuovo... ma quanto era durato quell'incubo?
Per un po' rimase lì, a fissarsi attorno cercando di imprimere nella mente quel posto e mugugnando qualche frase sconnessa.
Nonostante il bosco non facesse per lui, doveva ammettere che in vita sua non aveva mai ammirato la bellezza della natura da così vicino. O almeno sì, lo aveva fatto, ma il più volte era stato disturbato da tributi o da creature geneticamente modificate che tentavano di mandarlo all'altro mondo.
Quella mattina d'inizio primavera però, nessuno gli dava la caccia. Nessuno voleva ucciderlo.

Quando decise di rialzarsi, cercò di levare un po' della terra sparsa sui pantaloni e di rimettersi a lavoro. Era da tanto che non aveva un episodio e aveva paura di cosa sarebbe potuto succedere.  
E se avesse ricominciato a comportarsi come una furia omicida? E se avesse fatto del male a qualcuno? 
"Non devi vivere con questa paura. Non potresti mai andare avanti, non potresti mai essere felice se pensi a queste cose", gli ritornarono subito alla mente le parole del dottor Aurelius. 
Quella frase era una delle cose che più lo risollevavano dalle tenebre. Una medicina efficace. 
Non poteva arrendersi in quel modo e così presto. Non doveva assolutamente. Dopotutto era il primo giorno, dopo mesi interi di terapia, che passava nel Distretto 12.
Convenne che cinque arbusti andassero più che bene.
Una volta arrivato al filo spinato, fece cadere le primule nella carriola che aveva lasciato in quel posto così da non portarsela nei boschi.
Attraversò il Prato ricordandosi chi -tra le persone che conosceva- potesse trovarsi nella grande fossa che avevano scavato e respirò profondamente quando si trovò di fronte al Villaggio dei Vincitori.
Casa sua era buia, ogni finestra sigillata, il vialetto tutt'altro che curato...
Poté benissimo immaginare i centimetri di polvere depositati dappertutto e il silenzio tombale che lo avrebbe aspettato facendogli compagnia per il resto dei suoi giorni.
Non voleva entrarci per nulla al mondo.
Sapeva che una volta attraversata quella soglia, avrebbe dovuto combattere ancora una volta i suoi demoni.
Solo.  
Ma poi pensò ad una treccia bruna e a degli occhi grigi; la ragazza che aveva dovuto combattere come Ghiandaia Imitatrice una guerra che non voleva assolutamente, colei che aveva visto morire la propria sorella, la persona che amava di più al mondo.
Non stava affrontando anche lei tutto da sola?
Così si avviò verso la finestra del piano terra della casa di Katniss, dove avrebbe piantato i fiori.
Cominciò a zappare il terriccio con un attrezzo; il sole era diventato molto più caldo delle ore prima.
Minuti dopo, si asciugò la fronte e alzò le maniche della maglia scoprendo alcune delle cicatrici da ustioni.
Una in particolare, molto profonda, gli rigava il dorso della mano e attraversava tutto il braccio. Di solito si perdeva ad osservare con cura il percorso della pelle rialzata e cucita ai lati, molte volte voleva quasi cancellare quel solco con lo sguardo per dimenticarsene - ma lo conosceva benissimo, era impresso nella mente - e c'erano anche momenti in cui lo guardava quando si trovava nello studio del dottor Aurelius e doveva riflettere attentamente su una risposta da dare.
Sentì un rumore ovattato provenire dal piano di sopra, alzò di scatto la testa per osservare le altre finestre chiuse.
"È Katniss", quasi vide la sua immagine impaurita e spaventata sobbalzare nel letto.
Forse aveva fatto davvero un brutto sogno...
Per un attimo, pensò di correre da lei, di salvarla dagli incubi, ma come poteva lui, un pazzo, un ibrido di Capitol anche solo pensare di starle accanto, di aiutarla, se poche ore prima aveva avuto un episodio e non era in grado di salvare se stesso? Magari aveva sognato proprio l'istante in cui lui aveva cercato di strozzarla...
Si inginocchiò per spostare altro terreno e si rimise di nuovo in piedi; le mani quasi si confondevano col concime e il suo fazzoletto era tutt'altro che bianco.
Avvertì qualcuno correre dalla sua parte e fermarsi di colpo. 
Quando si voltò, la vide e percepì l'aumentare dei battiti del cuore. Cominciò a ripetersi come una mantra le parole di Aurelius: "Saprai quello che dovrai fare in quel momento, quando succederà l'inevitabile. Tu sei forte, puoi superare qualunque cosa"; ma non stava avendo un flashback, non stava succedendo niente, poteva stare tranquillo. Non le avrebbe fatto nulla, non l'avrebbe messa in pericolo. 
Katniss aveva avuto un incubo. Lo capì da come respirava, dalla paura che stava svanendo lentamente dai suoi occhi lasciando spazio ad una piccola percentuale di stupore. 
Vuoto. Era quello che regnava nelle sue iridi più di qualunque altro sentimento e lo spaventava molto, eppure non poteva smettere di osservarla. 
"Perché sei così... spenta? Hai deciso di lasciarti morire, Katniss?" 
Davanti a lui, si era presentata una ragazza devastata, magra, con indosso una giacca di pelle consumata, la treccia arruffata in un groviglio di capelli, la bocca leggermente aperta, gli occhi vacui e giusto un po' gonfi. Distrutta nell'animo e nel corpo ma ugualmente bellissima. 
Anche lei lo guardava attentamente e si fissava intorno. 
«Sei tornato» gli disse. 
«Fino a ieri il dottor Aurelius non mi ha permesso di lasciare Capitol City» rispose mantenendo un tono di voce sicuro e composto. «Tra l'altro, mi ha detto di dirti che non può continuare a fare solo finta di curarti. Devi rispondere al telefono» finì di parlare ricominciando a scrutarla e notando che anche Katniss faceva lo stesso con lui. 
La vide spostarsi una ciocca di capelli dal viso e assumere un'altra espressione. «Cosa stai facendo?» 
«Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei» indicò i fiori nella carriola. «Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa» le spiegò. La sua voce si era appena incrinata sulle ultime parole. Sperava in una risposta positiva. 
Katniss posò piano lo sguardo sugli arbusti stenti. 
Al ragazzo sembrò quasi che avesse trattenuto il respiro per un minuto, poi si accorse di un suo lieve e impercettibile movimento del capo in segno di assenso e subito dopo notò la sua figura esile scappare via chiudendosi la porta alle spalle.
Riprese a zappare fino a quando non mescolò terreno e concime e dispose le primule ordinatamente.
Si ritrovò più tardi alla porta del mentore per controllare come avesse passato quei mesi e facendo in modo anche di rimandare il momento in cui avrebbe messo piede in casa propria.
Con lui ebbe un'accesa discussione. Lo zigomo violaceo e pulsante era stato testimone di quanto accaduto.
In poco tempo si era ritrovato ad incassare i pugni violenti di Haymitch. Non aveva fatto nulla per fermarlo, era immobile sul parquet sudicio e osservava aspettando che tutto finisse.
Un fallimento come lui, uno schifoso ibrido meritava quel trattamento.
Eppure l'uomo si fermò e lo guardò fisso attendendo che il ragazzo contraccambiasse il favore. Ma stupito si rese conto dei suoi occhi celesti abbattuti e consci.
«Perché non hai fatto niente per fermarmi?» gli domandò alzandosi di scatto dal pavimento e osservandolo allarmato. Quel movimento lo fece barcollare appena ma scosse la testa per scacciare tutta quella nebbia che vide intorno.
Non rispondeva... Si era messo a sedere e seguiva continuamente la cicatrice della mano con l'indice. 
«Ragazzo!» si ritrovò ad urlare il mentore come un ossesso. Il biondo sollevò piano il capo rivelando le guance solcate dalle lacrime. 
«Non voglio diventare come uno di loro» disse con un filo di voce. 
A chi si riferiva? 
Haymitch si stupì di quelle parole. Di tutta la tristezza e la consapevolezza che esse racchiudevano. 
«Scusami per quello che ho detto prima, Haymitch. Mi dispiace» lo sentì continuare. Si era rialzato e si stava asciugando gli occhi.
L'uomo lo aveva salutato con una veloce pacca sulla spalla e lo aveva congedato con i suoi modi burberi e ironici non prima di aver ottenuto una promessa.
Sorrise al pensiero del mentore che si lasciava cadere con tutta la comodità sulla sua vecchia poltrona mentre infilò la chiave di casa nella serratura.
La porta si aprì e si chiuse con un lento cigolio.
Tutto intorno a lui era come ricordava... c'era un cappotto appeso all'attaccapanni e lo specchio era ricoperto da un alone molto spesso di polvere.
Avanzò di un passo sentendo scricchiolare il legno sotto i suoi piedi. Non c'era niente per cui aver paura. Assolutamente nulla.
Doveva ripulire ogni cosa da cima a fondo, far arieggiare e fare il pane.
Anche le parole di Haymitch lo avevano scosso come quelle del dottor Aurelius.
Erano un incitamento. Continua a lottare. Vivi.
La mattina successiva era fuori sul porticato con una pagnotta ancora calda in mano. 
Intravide Sae la Zozza salutarlo. Stava andando a casa di Katniss. 
«Ti senti meglio?» gli chiese. 
«Direi di sì» le sorrise lievemente. «Portalo a casa sua» le porse il pane. 
«Vieni anche tu, su!» camminò incitandolo a seguirla. 
«Io non so se... lei...» si accigliò appena portandosi una mano ai capelli, Sae lo guardava stranita. «E se lei non vuole vedermi?» continuò ansioso avanzando in direzione della donna senza rendersene conto. 
«Oh... be'. Credo che dovresti entrare per esserne sicuro, Peeta» gli disse sorniona. 







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Ehiii! Come va?
Wow... questa è la terza one shot che pubblico e devo dire di essere davvero molto contenta di averlo fatto.
Come ormai sapete -almeno quelli che si sono imbattuti nelle mie precedenti fanfiction-, Peeta è il mio personaggio preferito e non riesco a non scrivere su di lui. Mi è tanto caro, ecco... e non posso non ipotizzare su cosa abbia potuto passare o pensare in determinati periodi della sua vita. Specialmente dopo il depistaggio.
Questa volta ho voluto affrontare il momento in cui torna al 12; non potete minimamente immaginare quanto io ci abbia messo. Sono stata settiname a ragionarci su, a scrivere piccole parti e a mandare al diavolo tutto con un "Vabbe' ma che m'interessa! Non pubblico proprio niente, punto! Che qualcuno mi uccida, maledizione!". E non so nemmeno quando mi è frullata in testa quest'idea. Forse volevo dare una specie di sequel della mia precedente storia...
Ora sono letteralmente terrorizzata.
Magari, poi, mi verrà in mente di pubblicare anche il dibattito tra Haymitch e Peeta.
Credo di dover dare delle valide spiegazioni per quanto riguarda il comportamento del mentore...

Mi auguro davvero di non essere andata nell'OOC -questa paura mi tormenterà a vita-, di non aver fatto troppi errori e spero di ricevere qualche commento. 
Alla prossima ♥

   
 
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