-L’Opera
Sporca di Edward J. Ghost-
La canzone iniziava con lentezza. Le prime note
erano lunghe ed epiche, come in ogni ballata rock che si rispetti.
Quelle che appena scritte facevano già parte di quel nebuloso passato, fatto di
nebbie, di droga e di musica vera e al limite.
La melodia era semplice e la chitarra elettrica
era esagerata ad arte per sottolineare quanto quella canzone fosse perfetta nel suo essere teatrale ed esagerata e quanto le parole del
cantante fossero fondamentali per chiunque stesse ascoltando.
Si trovava sola al chiuso, con le finestre
sbarrate per tenere fuori il caldo e le persiane chiuse per tenere fuori la
luce. Non vedeva la luce da giorni, ormai.
Ne soffriva gli effetti.
Quando i primi raggi del sole penetravano le
fessure tra le persiane rotte, sentiva il bisogno pressante di uscire, di
soffocare all’aria aperta, di non sentire più il puzzo di alcol e di sporco in
quel buco di appartamento. Ne sentiva gli effetti anche in quel momento.
Adesso, che la luce del primo astro si fletteva per scendere e nascondere la
sua faccia superba all’umanità.
Fisica del cazzo, pensò.
Chiuse gli occhi per un attimo, mentre il cd si
preparava a sparare al massimo volume la canzone successiva.
Vide il rosso. Rosso, rosso come il sangue e la
violenza, rosso come l’amore, i sorrisi, rosso come i vecchi libri, rosso come
il suono della decadenza. Come una morte prematura e come una giovane vita
spezzata. Rosso di follia e di atteggiamenti fin troppo teatrali. Rosso, rosso
acceso, e rosso pieno.
Come il sangue, come il vino, come un bacio.
Aveva gli occhi vuoti e poteva vedere solo macchie
e pozzanghere di rosso, con le sue pupille dilatate dalla droga e con il suo
ghigno idiota e grottesco, da animale. Il rosso gli pompava sangue, adrenalina
e umiliazione nelle vene, e gli sussurrava oscenità nelle orecchie come le
labbra carnose di una donna lasciva e potente. Con gli occhi di una gatta e un
filo rosso attorno al collo. E quelle maledette labbra, carnose e belle come le la lussuria in persona. E il peccato che sussurravano
vogliose e basse quelle parole vuote e inutili. La bellezza in sé di un fiore
impazzito e di una rosa piegata dal vento, come il sospiro di quel tempo vuoto
e inimitabile che lo faceva soffrire.
Quell’ultima frase non gli piaceva; non aveva
nessun senso compiuto ed era solo per quello che colpiva il lettore. Le
migliori frasi non avevano senso, pensò, erano belle e potenti come un assolo
di chitarra solo perché chi le ascoltava non le capiva, non poteva capirle, e
cercava il significato nascosto di quelle frasi per ore e giorni interi, senza
riuscire a trovarlo, per il semplice fatto che non c’era. Non c’era nessun
significato nascosto, nessun anagramma da risolvere, nessun gioco malvagio con
le parole, non c’era niente. Solo delle parole folgoranti e misteriose, e
vuote.
Poi, smise di vedere e si lasciò scivolare
indietro in quella tela bianca e polverosa di noia e sogni interrotti, nei suoi
suoni lancinanti e soffici e vuoti come meravigliose sinfonie, dedicate non a
una donna ma alla merda.
Il più interessante prodotto umano, pensò, con un
sorriso appena meno ebete del suo solito ghigno grottesco. La merda, si disse,
la merda, la prima cosa che ti fa schifo da piccolo e
l’ultima cosa che produci prima di tirare le cuoia.
Ebbe la strana sensazione di essere arrivato a
scoprire qualcosa di simile ad una filosofia tutta sua, il cui principale
concetto ruotava intorno alla merda. Si immaginò mentre
parlava con voce potente davanti ad un uditorio affascinato e rapito, si
immaginò l’essere che chiamava “io”, vestito di tutto punto, in giacca,
cravatta e rispettabilità.
“Gentili studenti, esimi colleghi” biascicò alla
tela bianca davanti a sé con un leggero inchino “Sono onorato di prendere parte
come esperto e ospite d’onore a questa conferenza sull’elemento più semplice e
malleabile, eppure fondamentale della vita umana da quando se ne ha nozione: la
merda.”
Pausa. Applausi. Gloria. Riconoscenza.
Tela bianca da riempire.
Da riempire come il silenzio davanti ad un
bicchiere di vino pregiato con una donna che sembrava perfetta, fino a un momento prima. Un solo secondo e l’incantesimo si spezza
e tu ti ritrovi lì come un cretino a sentirti soffocare nel silenzio alla
disperata ricerca di qualcosa da dire e sai già che con lei, come con tutte le
altre, non potrai mai aprirti.
La canzone finì, trascinandosi dietro anche i suoi
pensieri di donne, sonno, parole, vino e bisogni.
Ne iniziò un’altra.
Martellante, veloce, folle, confusa e chiara e
liberatoria come il vento d’estate, come la birra ghiacciata e come un sorriso
perso per sempre. Come una morte accidentale sul giornale di una domenica
d’agosto.
Pazza e trascinante, con chitarra e batteria
scontate e perdute come parole al vento.
Folle ma vera, pensò, mentre iniziava a muovere la
testa su è giù seguendo il ritmo al doppio della velocità. Si avvicinò alla
tela bianca e lacera in un punto. Era quello il suo lavoro, riempire tele del
cazzo.
E per riuscirci poteva fare solo una cosa.
Affittare un appartamentino in centro, vuoto e
malandato, sbattere fuori la luce del sole, recuperare alcol e siringhe e
mettersi al lavoro.
Il primo impulso era stato il rosso, ma il rosso
aveva già colorato troppe tele. Il verde aveva brutti suoni, l’arancione era
patetico quasi quanto il giallo e l’unica cosa a cui
riusciva a pensare era la merda.
Ma la merda non significava un cazzo per lui, solo
per tutte quelle persone che avevano assistito alla sua conferenza immaginaria,
era davvero fondamentale, la merda.
Lui, poteva farne a meno.
Non era la merda, la chiave.
E allora qual era la chiave? Il motivo per cui i ricchi compravano le sue tele? Per cui lui le
riempiva di cose che nell’insieme erano niente e che prese una per una erano
tutto? Perché il vuoto era così scivoloso e il sonno attaccava sempre le
palpebre degli amanti? Perché?
Qual era la fottuta chiave?
“Il piscio, forse.” Disse una voce che non
riconobbe come sua.
Doveva essere stata la bimba a parlare, quella
bimba con gli occhi brillanti di malizia e intelligenza e quell’aria vagamente
familiare che gli faceva sanguinare il cuore.
“Non mi riconosci?” chiese la voce, la sua voce
sconosciuta al suo orecchio, mischiata a quella familiare della bambina.
Zitto, stronzo. Zitto.
La bimba sorrise e si alzò dall’angolo in cui si
era seduta.
“Come non mi riconosci? Sono Charlie.”
Charlie?
“Giocavamo insieme da bambini, no? Ti ho fatto
vedere la patatina, una volta. Ero la tua ragazza e tu il mio migliore amico.
Ti ricordi, ora?”
Cazzo se ricordava. Charlie. Charlie? Ma non era
morta dieci anni prima?
“Dì un po’, Charlie... Ma
non sei morta dieci anni fa?”
La bambina, Charlie, lo guardò con aria
leggermente annoiata. “Sì, certo. Sei stato tu a scoprirmi nel pozzo, no?”
“Vicino alla stalla di tuo zio, no?”
“Già” commentò Charlie con l’aria annoiata di
prima. Silenzio.
Uno, due, tre. Cambiò
canzone. Una canzone morta che non gli significava nulla e che non lo ispirava.
Anche Charlie guardò lo stereo con aria di sufficienza, ma non disse nulla. Si
dondolava avanti e indietro, con le mani intrecciate dietro la schiena. Uno, due, tre. Anche quella canzone finì.
Ne iniziò un’altra.
“Ti va di sapere com’è la morte?”
Restò sorpreso dall’aria naturale e leggermente
cospiratrice con cui gli aveva posto quella domanda.
La stessa aria che aveva, quando, tanti anni
prima, gli aveva chiesto “Vuoi vedere la patatina?”.
E lui, come allora, non seppe resistere alla
domanda di Charlie.
“Perché no?” rispose, alzandosi in piedi.
Qualche settimana più tardi...
“Cinquantamila e uno, Cinquantamila
e due, Cinquantamila e tre! Lord Chaney si aggiudica L’Opera Sporca dell’artista Edward James Ghost.”
James guardò Lord Chaney stringere la mano al
direttore dell’asta, tutto pomposo e soddisfatto, come se avesse appena
guadagnato un bene inestimabile. Lord Chaney dovette sentirsi addosso il suo sguardo, perché si girò verso di lui e rimase
a bocca aperta, pieno di ammirazione. L’aveva riconosciuto. James gli fece un
cenno di approvazione e falsa gratitudine, e se ne andò.
Cosa avrebbe dovuto dire a uno così ricco e così
coglione da comprare una tela coperta di piscio, vino e sangue?