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Autore: Ghevurah    11/07/2014    4 recensioni
Nel bagliore sprigionato dalle braci, indugiò sul flusso dei propri pensieri. Temeva ciò che vi avrebbe scorto, temeva di scoprirsi ancora avvinto ad un’ombra, un’ombra che non apparteneva più ad un Elda, ma a ceneri disperse nel vento. Il fuoco, però, aveva già colmato il suo orizzonte e poco ci volle perché lo trascinasse nel vortice ustionante delle sue spire, lì dove il ricordo si svela.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fëanor, Fingolfin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Enrë - Un giorno ancora'
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Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien. Nessuna violazione di copyright è qui intesa.

Note: questa storia si svolge nello stesso lasso temporale della mia precedente fan fiction All’alba ed entrambe fanno parte della serie Enrë - Un giorno ancora.

Nell’intento di rendere la lettura più scorrevole a tutti, aggiungo un breve schema dei nomi Quenya qui usati con la loro corrispondenza in Sindarin:
Fingolfin - Ñolofinwë
Fëanor - Fëanáro
Turgon - Turukáno
Idril - Itarillë
Melkor/Morgoth - Moringotto
Fingon - Findekáno, (qui viene anche usata l’abbreviazione “Finno”)
Aredhel - Irissë
Argon - Arakáno
Maedhros - Nelyafinwë, Maitimo

 
















 
Enrë - Un giorno ancora

Memoriale notturno


















C’erano ombre là, in agguato. Fremevano negli anfratti più remoti della stanza, attentando alla luce delle fiamme. Ma erano anche oscure colonizzatrici della sua mente: raggrumatesi ai margini della coscienza, assediavano i suoi pensieri quando calava la notte e tutto, attorno a lui, inneggiava al ricordo.
Il fuoco mormorava come un essere vivo, irradiando le pareti dei suoi tiepidi riflessi: arabeschi di luce fiammante ad arginare nugoli d’ombra. Nel palazzo si aprivano volte non ancora ultimate, affacciate ad un cielo trapuntato di stelle. Lui sedeva dinnanzi al camino, lo sguardo a rincorrerne i guizzi incendiari. Le sue genti si erano insediate da poco sulle sponde del Mithrim e costante e metodico era stato il loro lavoro affinché quello spicchio di mondo riuscisse almeno a riflettere la luce lontana, lontanissima, della loro terra natia. Per questo era strano accorgersi di come quel nuovo inizio, quel cantiere laborioso, avesse, in realtà, l’aspetto d’una rovina claudicante.
Poteva udire il lamento del vento, un gemito cupo che echeggiava tra le arcate diroccate e sferzava le piane, increspando la superficie del lago. Eppure se chiudeva gli occhi e si abbandonava al ricordo, quell’innocuo lamento diveniva un sibilo straziante. Non scavava intestini calcarei, non agitava prati verdeggianti ed acque temperate: strappava vite e speranze, annichilendole tra i ghiacci d’una terra impietosa.
Mai si sarebbe liberato della morsa algida dello Helcaraxë che come uno spettro l’aveva seguito in quelle terre, degna compagna della maledizione che sempre avrebbe segnato la sua esistenza. La stessa di cui erano state vittime i suoi figli, condannati a vagare fra le nebbie di terre sconosciute, fra le fiamme e le polveri di una guerra infinita.
Sotto le sue palpebre bruciava ancora il ricordo di Turukáno piegato dal dolore. Il corpo pallido di Elenwë, immobile come una statua ghiacciata, riverso tra le sue braccia; l’imperioso silenzio della distesa algida che si tendeva oltre il profilo delle sue spalle, spezzato solo dal pianto sommesso della piccola Itarillë. Mentre lui si scopriva incapace di trovare nello sguardo oscuro di quell’uomo avvinto dalla disperazione, il riflesso del bambino che era stato.
Ed era stato prendendo coscienza del proprio fallimento in quanto padre, che l'odio sperimentato sulle coste di Aman era fomentato in lui. Un sentimento puro, travolgente, in grado di dilaniare l'animo al pari di un cane rabbioso. Un odio bollente, come fiamme. Quelle fiamme che ora si avviluppavano dinnanzi ai suoi occhi, contorcendosi e crepitando nel camino. Le fiamme che sempre, anche nella pace di Tirion, avevano incendiato la sua vita. Conosceva il loro nome: era lo stesso che animava il suo odio. Lo stesso che veleggiava sulle sponde del Mithrim, fortificando quella  barriera invisibile erta fra le genti d’uno stesso popolo. Un nome che avrebbe continuato ad ardere, imperituro, sino alla fine del mondo. Il nome di un condottiero, di un Re, di un nemico. Il nome di un fratello a mezzo nel sangue.
Portò una mano al viso illuminato dal riverbero emesso dal camino, socchiuse gli occhi e lasciò il proprio sguardo inabissarsi fra le lingue fiammanti.
Quante volte, nel gelo dello Helcaraxë, aveva maledetto quel nome che il fuoco riconduceva alla sua memoria? E sarebbe stato così semplice pronunciarlo ora, al riparo, in quella notte solitaria e ventosa… Ma no, Ñolofinwë Finwion1 non si sarebbe lasciato avvincere dai biechi impulsi che esso sapeva trasmettergli. Non più. Lo aveva giurato a se stesso quando la prima luna era sorta, argentea e splendente, oltre il profilo cupo delle montagne e lui e la sua famiglia e la schiera che conducevano erano giunti in Endórë2. Non era pace quella che aveva trovato, ma un mero barlume di radiante chiarezza. I suoi figli erano salvi, feriti nell’animo e nel corpo, ma salvi. I suoi nipoti altrettanto. E per quanto ogni istante di quegli ultimi, gelidi, anni lo avesse indotto a perpetrare il proprio odio, l’arrivo nel Mithrim piegato alle schiere di Moringotto gli aveva fatto comprendere come il nemico, in fondo, potesse essere uno solo. Sotto il suo sguardo si dispiegavano le oscure trame dell’assassino di suo padre e cosa poteva essere, in confronto a queste, il tradimento di un fratello a mezzo nel sangue?
Si era fatto strada nel Dor Daedeloth soffocando nei fluidi neri e vischiosi degli orchi ogni frustrazione che il suo cuore avesse sopportato in quegli anni. Era la cosa giusta da fare, finalmente. Brandire una spada non contro un fratello, ma contro un nemico. Il Nemico. Il resto non aveva importanza. Così, quando gli schiavi di Moringotto si rintanarono sotto terra, sgattaiolando negli intestini abissali da cui provenivano, lui non aveva pensato a cosa avrebbe fatto, al suo posto, quel fratello a mezzo nel sangue che sempre l’aveva respinto. Voltò le spalle ai torrioni del Thangorodrim, concedendo al suo popolo la flebile pace a cui anelava. Coloro che l’avevano seguito nel gelo dello Helcaraxë meritavano più di un condottiero intento a calpestare le orme di un’ombra.
E per quanto nelle grida di incitamento alla battaglia e nel suono grave dei corni fosse echeggiato, oltre all’odio per Moringotto, il risentimento per un tradimento, la sua schiera si era stanziata, cheta, oltre le sponde del Mithrim; guardando alle fortificazioni al di là del lago con un disprezzo contenuto, mitigato dalla consapevolezza che il nemico, quello vero, dimorava altrove.
Da quei primi giorni le sue notti s’erano fatte infinite, osservava il buio radicare sulle acque del lago e al di là di esse, aspettando qualcosa che mai sarebbe giunto. Più di una volta aveva scorto Findekáno camminare lungo le sponde con sguardo spento, lo stesso con cui aveva sopportato le intemperie dello Helcaraxë. Avrebbe dato qualunque cosa per rivederlo animato del bagliore che sempre gli era appartenuto. Dolce e valorosissimo, Findekáno. Così come felice e innamorato della vita era un tempo Turukáno e spensierata era stata la bellissima Irissë. Ma il tradimento divorava qualunque sentimento positivo, oscurava qualunque luce, ed i suoi figli ne erano stati vittime inconsapevoli.
Pensava a questo quando l’odio tornava a fomentare il suo animo, un odio che nemmeno l’assassinio di suo padre gli aveva scaturito. C’era stato il dolore, a quel tempo, sordo e straziante a sovrastare qualunque cosa, poi erano giunti lo smarrimento dato da quel terribile giuramento, dal clangore delle spade sguainate, e la struggente nostalgia per la lontananza di Anairë, per la sua terra natia. L’odio l’aveva colto in ultimo, dopo l’ennesimo tradimento di quel quasi fratello che mai gli aveva teso la mano.
Nel bagliore sprigionato delle braci, indugiò sul flusso dei propri pensieri. Temeva ciò che vi avrebbe scorto, temeva di scoprirsi ancora avvinto ad un’ombra, un’ombra che non apparteneva più ad un Elda, ma a ceneri disperse nel vento. Il fuoco, però, aveva già colmato il suo orizzonte e poco ci volle perché lo trascinasse nel vortice ustionante delle sue spire, lì dove il ricordo si svela.


Ricordava come i profumi dei giardini scemassero all’odore acre del fumo che s’innalzava dalle fucine: bocche sbuffanti e cupe nel trionfo di colori del Valinor.
Aveva sempre trovato quel luogo deprimente, malsano nella propria oscurità. E quand’era ancora bambino credeva che avesse il poter di rabbuiare l’animo. Lo aveva  detto a suo padre, una volta. Lo aveva scongiurato di impedire a suo fratello, suo fratello a mezzo nel sangue - com’era solito ricordargli questi - di lavorarvi.
Era un tempo, quello, in cui l’ingenuità tipica dell’infanzia lo  portava a cercare una spiegazione diversa dalla propria, semplice, presenza alla perenne insofferenza che leggeva nei suoi occhi. Un tempo in cui la cantilenante aggettivazione che si sforzava di ripetere non era nulla più di una formalità. Risuonava vuota sulle labbra, scevra di significato, un ingarbugliato nodo di parole per chiamare una singola persona: suo fratello maggiore.
E forse fu proprio perché questi se ne avvide che lo invitò a seguirlo a Lórien. L’ombra del disprezzo velava le sue iridi, ma lui era troppo ingenuo e felice di quella proposta per accorgersene. Così, quando giunsero su un’altura di salici argentei, suo fratello lo condusse lungo le arcate di un cortile silenzioso, dove una donna giaceva distesa su di un’ara. I suoi tratti possedevano la bellezza propria degli Eldar, eppure erano pregni di una mesta vacuità, quasi che la sua anima avesse abbandonato il corpo per migrare lontano.
Vedendola, lui si sentì pervadere da un incommensurabile senso di tristezza e ne rimase atterrito poiché mai, nella sua breve vita, fra le bellezze del Valinor immortale, aveva conosciuto un simile sentimento. Stava per domandare spiegazioni a suo fratello, quando la voce di questi risuonò alle sue spalle fredda e altisonante come lo sciabordio del mare nei giorni di bufera.
Vedi, gli disse, lei è mia madre. La creatura che ha sacrificato il suo hröa4 per darmi alla luce. Dimenticata, forse, da colui che anche tu chiami padre quando decise di prendere in moglie Indis Vanyaron5, ma non da suo figlio: sempre serberò nel mio cuore l’amore che nutro per lei. E questo è il motivo per cui né tu né le tue sorelle sarete mai altrettanto ai miei occhi, Ñolofinwë Indision6.
A simili parole lui avvertì un brivido percorrerlo, e quando trovò la forza di alzare lo sguardo comprese il vero significato della perenne insofferenza racchiusa negli occhi del suo quasi fratello. Vide quelle fiamme che sapeva contraddistinguerlo pervase di un vigore algido, simile alla morsa ustionante dei ghiacci: un fuoco ben più logorante di quello impiegato nelle fucine. Bruciava, animato di riflessi vitrei, gettando sul mondo la luce assiderata di un rancore atavico. E lo travolse, lasciandolo arido d’amore, incapace di fare altro se non promettere a se stesso che mai, in futuro, si sarebbe fatto ferire di nuovo. Una promessa vana, dettata della medesima ingenuità che aveva dimostrato quel giorno, eppure l’unica alternativa al dolore del respingimento.


Aveva occhi di tempesta, suo fratello a mezzo nel sangue. Occhi in cui s’agitavano guizzi di neve carbonica, balenii cerulei incastonati in un viso candido, dai tratti fini e spigolosi: una maschera finemente cesellata. Si era sempre domandato come potesse apparire il suo volto rasserenato o felice o innamorato. E forse, se fosse stato più giovane, ancora in grado di dimostrare l’ingenuità che gli era appartenuta, l’avrebbe domandato a Nerdanel. Lei che sembrava essere la sola in grado di veleggiare tra i flutti di quella tempesta perenne, la sola in grado di sciogliere quelle instancabili fiamme iperboree.
Il loro fu il primo matrimonio a cui presenziò. Ricordava la commozione di loro padre, così luminoso nei suoi abiti di seta argentea, mentre il suo sguardo era un abbraccio di calore che lambiva la figura del suo primogenito. Una figura scolpita nel ghiaccio, irraggiungibile nella sua fredda perfezione; Nerdanel, al suo fianco, riusciva solamente a stemperarne il fulgore. E lui, dinnanzi a quelle fiamme algide, non era altro che un spettro di foschia su cui nessun bagliore poteva infrangersi.
Fu solamente anni, secoli dopo, quando il suo quasi fratello lo affrontò a viso aperto nel palazzo di loro padre, che poté percepire il gelido scintillio di quel fuoco interiore scontrarsi con l’impermeabilità del proprio sguardo. Era lui, ora, ad aver attizzato le fiamme, resistendo alle loro spire. Non un fantasma di fumo trapassato dal loro empito, ma una specchio in grado di riflettere qualsiasi cosa. Persino la lama che, fredda come quelle fiamme, puntava il suo petto.
Sto affrontando la tua tempesta, fratello, ergendomi tra gli incendi del tuo animo. Io, il bambino che non vedevi come nulla più di una noiosa seccatura, un fastidioso granello di polvere, una bolla d’aria nello stampaggio delle tue fucine.
E non v’era null’altro che lui in quegli occhi, in quel cuore di fiamma: dimenticate le gemme più preziose e splendenti, dimenticati i Silmarilli ed il loro stesso padre, dimenticata la triste Míriel e persino l’abile ed indomita Nerdanel.
Se non poteva avere altro avrebbe preso almeno il suo odio, questo pensò quel giorno di dissidi. Ma all’epoca non sapeva ancora cosa significasse odiare, odiare per davvero. Sentirsi consumare da un vortice di nulla che logora l’animo, riducendolo ad effimeri brandelli. Un sentimento totalizzante quanto l'amore assoluto.


Con lo sguardo perso nei volteggi dei lapilli ardenti, cercò di immaginare come sarebbe stato provare un simile sentimento per il suo quasi fratello. Eppure non vi riuscì. L’amore ha tante facce, miliardi di sfumature che si alternano e variano a seconda della persona, del momento, dei gesti, dei sorrisi, ma nessuna di questa, neppure nelle sua mente, sembrava adatta a loro.
E cosa sarebbe rimasto oltre al vuoto lasciato dall’odio, ora che aveva saputo di come quelle fiamme iperboree si fossero spente per sempre?
Inizialmente si era sentito afferrare da un rancore ancora più oscuro, ancora più terribile di quello che l’aveva divorato durante il suo pellegrinaggio tra i ghiacci dello Helcaraxë, ironica e perpetua rimembranza dell’oggetto del suo rancore. Aveva erroneamente creduto di essere ormai impermeabile a qualunque ustione che quel fuoco algido e indomabile avesse tentato di provocargli. Ma si sbagliava, poiché nulla era peggiore del saperlo ridotto in cenere.
Una consapevolezza talmente terrificante da indurlo a domandarsi se anche quella fine non fosse che un estremo atto di sfida nei suoi confronti. Poteva immaginarlo, il suo quasi fratello, sorridere sprezzante al vento del Nord: Verrai per reclamare la tua vendetta, Ñolofinwë. Ma non ci sarà più nessuno, qui, a cui potrai rivolgere il tuo rancore.
Un'ultima volta, quelle fiamme iperboree avevano arso e vinto. Un'ultima volta e per sempre.
E lui era tornato a essere uno misero spettro trapassato dal suo gelido bagliore, arido nell’animo, dolente nel corpo, solo a fronteggiare il vuoto straziante lasciato dal proprio odio.


Le braci ormai consunte scoppiettavano nell’antro del camino; lui sospirò, spezzando il silenzio in cui era immersa la stanza. Chiuse le palpebre e le riaprì per guardare i riflessi del fuoco che scivolavano sulle pareti ancora irregolari. Poi tornò a osservare le braci. Sotto lo strato riarso di legni e carboni una fiammella prese ad issarsi lentamente fra le ceneri, bruciando quel poco che restava. Piccola e fioca come i barbagli diramatisi nella stanza. Lui rimase a guardarla, sentendosi  pervadere da una punta di calore: un sottile, inspiegabile, senso di compiacimento per quella intrepida fiammella che continuava ad ardere. E il ricordo di una sera lontana, in cui le ombre si tendevano come fusi alla luce morente di Laurelin, fece capolino nella sua memoria.
Aveva poco meno di cinquant’anni, allora, e la notizia della nascita del primo nipote di Finwë colmava il cuore di tutti. Dicevano che Nerdanel Saila7 avesse dato luce alla sua opera più bella: un bambino dai capelli di fuoco e dagli occhi splendenti.
Non era ancora giunto il tempo dell’Essecarmë8, eppure lui aveva avuto modo di conoscere la scelta maturata dal suo quasi fratello. Nelyafinwë, questo sarebbe stato l'ataressë del nuovo nato; un essë che sembrava svelare il preciso intento di offenderlo, esplicitando la sua presunta inadeguatezza in quanto secondo erede di Finwë. Nonostante questo, però, in lui erano sorti sentimenti ambivalenti. Si sentiva indignato dalla scelta d'un simile nome e ancor più dalla totale indifferenza ad esso che sembrava mostrare loro padre, ma non poteva negare di essere incuriosito da quel bambino nato dalle fiamme.
Per tale ragione si era recato presso la casa che suo fratello a mezzo nel sangue divideva con Nerdanel. Quest’ultima, infatti, aveva preferito evitare di dare alla luce il loro primogenito all'interno delle nobili quanto asfissianti mura del palazzo reale di Finwë, come suo marito avrebbe voluto. E lui, sapendolo, aveva potuto mitigare il pensiero dell’offesa subita, immaginando il suo quasi fratello avvinto alla perentoria decisione della moglie.
Il cielo era ammantato d’un velo serotino, gli ultimi bagliori di Laurelin si intrecciavano a quelli argentei di Telperion, quando conobbe il suo primo nipote. Un bambino dagli occhi splendenti, animati d’una luce vivida che lo irradiava d’una bellezza perfetto connubio fra le abilità dei suoi genitori. Lo vide, così, cinto dalle braccia del suo quasi fratello e non poté che sorridergli e chiamarlo con quell'essë10 che tanto l'aveva infastidito. Allora Nerdanel si fece avanti e sussurrò: Maitimo. Puoi chiamarlo Maitimo, mio principe, poiché tale è l’essë tercenya11 che ho scelto.
Quelle parole lo rincuorarono, tanto da dargli la forza di alzare lo sguardo per sondare le reazioni del proprio fratello a mezzo nel sangue. E invece di trovare il suo viso scolpito dal fulgore che ne assiderava l'animo, lo vide disteso in un'espressione serena. I suoi occhi erano bassi, rivolti al nuovo nato, e di questi possedevano la stessa radianza. Sorrideva, lasciando che tutte le tensioni e le incomprensioni scivolassero lontane, placate da una peculiare nota d'affetto, in grado di farlo apparire ancora più giovane e luminoso.
Vuoi tenerlo? Chiese piano, senza alzare gli occhi dal bambino. Lui rimase interdetto da una simile domanda, da quel tono che risuonò morbido e vellutato alle sue orecchie.
Ti insegnerò come fare, Ñolofinwë; lo sentì aggiungere poi. E così fece davvero.


Sorrise alla tremula fiammella che ardeva le braci consunte. Aveva creduto di poter rinunciare al ricordo, ma si era sbagliato. Non vi era modo di sfuggire ad esso, così come non vi era modo di sfuggire alla maledizione che scivolava alle sue spalle in un'ombra ammorbante. Lui non possedeva un destino diverso da quello del suo fratello a mezzo nel sangue. E prova ne era il fatto che pur guardando con disprezzo alla sue scelte, aveva lasciato che i propri figli seguissero una via non dissimile da quella dei Fëanárioni. Perché mentre Nelyafinwë Maitimo, il bambino dai capelli di fiamma e dagli occhi splendenti, traditore assieme al proprio padre, giaceva preda di Moringotto, Turukáno era soggiogato dall'odio, Findekáno avvinto da una desolazione in grado di sopire qualsiasi interesse per la vita. E preda di ombre e fiamme erano, infine, tutti i Noldor fratricidi.
Questo si disse, allungando una mano per ravvivare il focolare. Il calore si irradiò lungo la sua pelle al pari d’una carezza e lui smosse le ceneri, dando più respiro alla fiammella indomita. Si retrasse, poi, scivolando tra le ombre sfuggite alla luce tiepida del camino.
Raggiunse la terrazza e scostò i pesanti tendaggi per scrutare lo specchio cheto del Mithrim e oltre di esso, dove languivano sagome di fortezze. La notte era un manto oscuro e impenetrabile: pareva impossibile che di lì a qualche ora sarebbe giunta l'alba.
Lui lasciò la terrazza e allentò la cinta della propria vestaglia. Stava per dirigersi verso il letto, quando un rumore di passi affrettati lo fece desistere. Rimanendo in ascolto, riconobbe l’incedere di Turukáno ed allora s'appropinquò all'ingresso con l'intento di invitarlo ad entrare. Ma il suo secondogenito lo precedette, spalancando la porta senza annunciarsi.
Aveva i capelli malamente raccolti, Turukáno, e la veste da camera slacciata sul petto. Nei suoi occhi lampeggiava quel sentore d’inquietudine che, nella distesa ghiacciata dello Helcaraxë, aveva presagito la morte di Elenwë.
Atar, esalò. Finno è…
Lui gli si avvicinò, sentendosi improvvisamente assordato dai battiti imbizzarriti del proprio cuore.
Finno, ripeté Turukáno con voce rotta, è partito per il Thangorodrim! È andato per Nelyafinwë, atar! Ho provato a fermarlo, ma non mi ha dato ascolto!
Lì, nella penombra assediata dalla luce di un fuoco ravvivato, le parole di Turukáno giunsero ovattate alle sue orecchie. Ad esse si confuse ben presto la voce di Irissë, che risuonò lungo il corridoio e poi più vicina, all’interno della stanza. Alla sua si sommarono altre voci, altri volti: un coro di immagini e suoni che vorticavano in spire incendiarie. E nel caos delle proprie percezioni, a lui parve di vedere quella flebile fiamma innalzarsi in una vampata, in cui balenarono i riflessi vitrei dei ghiacci. Lo disse, allora. Come una maledizione, come il rombo d’un tuono che segue le folgori, lo disse:


Fëanáro

















 

Note:
1- “Figlio di Finwë”
2 - Lett. “centro del mondo” nome Quenya della Terra di Mezzo; variante di Endor (di cui una forma arcaica era Endór).
3 - “Figli di Fëanáro”
4 - “Corpo” in opposizione a "fëa" = "spirito".
5 - “Indis dei Vanyar”
6 - “Figlio di Indis”
7 -  Lett. "sapiente" epiteto con cui veniva spesso chiamata Nerdanel.
8 -  Lett. “creando un nome”, cerimonia Eldarin in cui i padri annunciano i nomi dei figli.
9 - “Nome paterno”. In realtà non sono particolarmente convinta di questo termine che, pur correttamente costruito, manca di una citazione nel Quettaparma Quenyallo; sembrerebbe, infatti, che il semplice “essë” (vedasi sotto) fosse intrinsecamente legato alla figura paterna, per cui il suffisso “atar”  sarebbe ripetitivo.
10 - “Nome proprio”/“persona come insieme di hröa e fëa”
11 - Lett. “nome della visione interna”, nome scelto dalle madri, un sinonimo ne è il più lineare “amilessë” (semplicemente “nome materno”); ma ho creduto che il termine qui usato svelasse al meglio la profonda correlazione che, solitamente, i nomi materni hanno con la personalità del nuovo nato.

Il titolo Enrë della serie di storie di cui Memoriale notturno fa parte, è formato dal suffisso Quenya “en-” = “ancora” e dalla parola “ré” = “giorno solare”, ovverosia un ciclo di ventiquattro ore (sinonimo più arcaico ne era "sana"). Il termine inserito in uno composito, diviene “-rë” (vedasi Ringarë).

Fonti: Quettaparma Quenyallo di Helge Fauskanger


Note conclusive:

Come avrete notato nella parte dedicata alla nascita di Maedhros, non si accenna minimamente a Finarfin ed anche dinnanzi al corpo di Míriel, Fëanor nomina solo le sorelle di Fingolfin (Findis e Írimë), questo perché nella cronologia di Arda la nascita di Finarfin, ultimo dei fratelli, avviene nel 4730, ovverosia 61 anni dopo quella di Fëanor e 40 anni dopo quella di Fingolfin.  Nulla è detto circa la data di nascita o di concepimento di Maedhros, ma viene esplicitato che Fëanor si sposò quando ancora non aveva raggiunto la piena maturità (presumibilmente cinquant'anni) e pur considerando l’anno di gravidanza elfica, ho dedotto che Maedhros sia nato prima dello stesso Finarfin.

Vorrei sottolineare, inoltre, che questa storia adotta il punto di vista di Fingolfin, perciò ogni ricordo e considerazione è intriso della sua soggettiva percezione (o almeno di quella che io credo possa essere stata la sua soggettiva percezione). Personalmente, se dovessi scrivere una storia incentrata sul rapporto tra Fëanor e Fingolfin (come spero di fare un giorno), servendomi di un punto di vista più oggettivo, emergerebbe il carattere fortemente orgoglioso e passionale di entrambi (vedasi la decisione totalmente irrazionale di Fingolfin di affrontare, solo, Melkor stesso). Credo, infatti, che i due fratelli si somigliassero più di quanto avrebbero voluto ammettere. Questo non significa che non avessero tratti distintivi, ma - semplicemente -  che il loro condividere aspetti caratteriali, quali un fortissimo orgoglio, li abbia portati a scontrasi come hanno fatto…
Amo in maniera viscerale questi due personaggi (e i rispettivi figli) per cui spero, davvero, di non aver commesso errori grossolani nella resa - in questo caso - di Fingolfin.

Grazie per aver letto.
   
 
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