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Autore: Allyii    12/07/2014    5 recensioni
Nel 2012 Sherlock si butta dal tetto del St. Barts Hospital, davanti agli occhi di John.
Nel 2022 John ha una moglie, Mary, e due figli. Sherlock non è tornato da lui dopo il salto e John è impazzito di dolore, rimuovendo dalla memoria ogni ricordo riguardo Sherlock.
Si rincontreranno durante un’uggiosa giornata primaverile, per darsi l’ultimo saluto.
John si ricorderà Sherlock? O si separeranno per sempre, inconsapevoli di essersi incontrati?
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Buonsalve popolo di EFP! E, in particolare Sherlockians! Eccomi qui, dopo il mio esordio con fanfiction ‘Redbeard - L'Unico Amico di Sherlock (Forse)’, sono tornata per cimentarmi in una Angst!  Concepita una sera di particolare disperazione, due giorni prima del mio orale di Maturità, sarà una Johnlock molto Canon, ovvero di puro amore platonico, senza nulla di esplicito, solo tanti sentimenti portati allo scoperto!

Dedico questa Fanfiction alle cinque persone che hanno recensito la mia scorsa OS in questo fandom, dandomi la forza e la gioia di pubblicare ancora! Quindi un grandissimo grazie a  AkaNagashima, Khamsin, sofaa, _wallflower13 e Layla Cullen.

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Trama: Nel 2012 Sherlock si butta dal tetto del St. Barts Hospital, davanti agli occhi di John.
Nel 2022 John ha una moglie, Mary, e due figli. Sherlock non è tornato da lui dopo il salto e John è impazzito di dolore, rimuovendo dalla memoria ogni ricordo riguardo Sherlock.
Si rincontreranno durante un’uggiosa giornata primaverile, per darsi l’ultimo saluto.

 

A.A.A: Per poter leggere questa fanfiction, si deve avere una buona conoscenza della serie in quanto, volutamente, ci saranno alcune scene e dialoghi identici a pezzi di qualche episodio, in modo tale da creare parallelismi tra fanfiction e serie.

 

 

RICORDI SOPITI

 

 

     

I die

each time

you look away.

My heart,

my life,

will never be the same,

This love,

will take

my everything,

One breath,

one touch,

will be the end of me.

[Trading Yesterday – Love Song Requiem]

 

 

Mycroft guardava Sherlock con aria grave.
Il peso degli ultimi dieci anni era ben visibile sul corpo del fratello: qualche capello grigio tra le folte ciocche nere, minuscole rughe intorno agli occhi chiarissimi, sguardo stanco.

“Non capisco.” Ripeté Sherlock, inquieto, tamburellando con le dita  il tavolo che li divideva, seduto su una sontuosa poltrona.

“Invece hai capito benissimo.” Rispose Mycroft, cercando di racimolare tutta la poca pazienza che aveva in corpo. “Non fingere di essere più stupido di quello che sei.”

“Non sono stupido.” Rispose Sherlock, di scatto, in un vecchio vizio negli anni mai dimenticato.

Mycroft si sistemò meglio nella poltrona e sorrise sotto i baffi. Sapeva di averlo in pugno.

“La tua presenza non è più richiesta a Londra.” Gli spiegò, per la terza volta, posando i gomiti sul tavolo e osservando il fratello con aria di sufficienza. “Moriarty si è spostato, Sherlock, ed è tuo dovere seguirlo. L’ultima volta che non hai accettato di ‘giocare’ con lui, ha piazzato una bomba a Buckingham Palace, che abbiamo disinnescato per miracolo.”

“Non ho alcuna intenzione di andarmene.” Soffiò Sherlock, tra i denti, guardando Mycroft invelenito. “Sono dieci anni che corro dietro a quel pazzo. Avevo smontato la sua rete, ero finalmente pronto a tornare a Londra, da John, ed ecco che Moriarty spunta di nuovo, vivo e vegeto, e fa saltare tutti i miei piani.”

“Sherlock, lo so che è frustrante, ma…” provò a interromperlo Mycroft, ma Sherlock era furioso e gli parlò sopra, sbattendo violentemente le mani sul tavolo “Tu non sai nulla! Tu non sai come sia, ogni giorno, per dieci anni, osservare John da lontano, John che soffre, John che trova una moglie, che ha dei figli. John che va ogni giorno a trovare una tomba vuota. Per dieci anni. DIECI, Mycroft! E io ero pronto a tornare ben otto anni fa, e invece sono qui! Sono stufo di dover sempre stare dietro a quel pazzo!”

“Sherlock, calmati. Mi dispiace, ma troppe vite sono in ballo, e sono in mano vostra. Io non posso fare nul-”

“Tu sei lo stramaledetto Governo Britannico!” lo interruppe Sherlock, fuori di sé. “Già è abbastanza dura dover guardare John da lontano! Ora vuoi pure spedirmi dall’altra parte del mondo per seguire uno squilibrato! Fai qualcosa, Mycroft, ti prego. Non ho alcuna intenzione di andarmene!”

Mycroft lo guardò, come forse mai aveva fatto. Il dolore era ben visibile sul volto provato del fratello. Mycroft aveva saputo sin dal primo istante che John Watson avrebbe potuto tirare fuori o il lato migliore o quello peggiore di Sherlock.

Ora non sapeva, però, come classificarli.

John Watson aveva reso Sherlock Holmes più umano, aveva fatto riaffiorare vecchi sentimenti che ormai sembravano perduti, ma lo aveva anche reso così vulnerabile.

Mycroft era a conoscenza dell’amore platonico che c’era tra i due, aveva visto sul volto di Sherlock la gelosia quando John parlava con qualcuno che non fosse lui.

Aveva assistito allo sgretolamento graduale del fratello, costretto a vedere l’unica persona che veramente contava per lui piangere su una tomba vuota per mesi, prima di impazzire del tutto, prima di dimenticarsi di lui.

“Sherlock.” Disse Mycroft, col cuore piangente nel dover dire una cosa del genere per spronare il fratello. “Sherlock, devi andare. Moriarty conosce i tuoi punti deboli, lo sai che è stato alleato con Magnussen. Conosce ogni tuo punto debole, ed entrambi sappiamo cosa potrebbe fare, se tu ti rifiutassi di seguirlo in Australia…”

Mycroft non ebbe bisogno di terminare la frase. Aveva visto la comprensione balenare negli occhi chiarissimi del fratello. Compressione mista al dolore, alla perdita, al cuore spezzato. Quasi, alla morte.

“… potrebbe fare del male a John.”  Sussurrò Sherlock, fissando un punto imprecisato del pavimento, incapace di guardare Mycroft, consapevole del fatto che i suoi occhi si erano pietosamente inumiditi.

“Esatto, Sherlock, per questo devi partire.” Fece pressione Mycroft, sentendosi un verme.

Alla fine non erano stati né Moriarty né Magnussen a ferire Sherlock nel suo più grande punto debole, ma proprio lui, suo fratello.

“Per quanto tempo?” scattò Sherlock, sempre rifiutandosi di guardare Mycroft.

L’Australia era dall’altra parte del mondo, quindi Sherlock si stava preparando a ricevere una risposta del tipo ‘un paio d’anni’ ‘non più di tre anni’ e già gli sembravano un’eternità.

Ma non era pronto a sentire quelle parole.

E Mycroft non era pronto a pronunciale. Stava per dare il colpo di grazia ad un cuore già picchiato a sangue.

“Moriarty ha lasciato intendere che quella sarà la sua ultima destinazione.” Fu tutto quello che disse, posando i gomiti sul tavolo e prendendosi il volto tra le mani.

Per Sherlock fu come una doccia gelata.

Spalancò gli occhi, trattenne il respiro e lo stomaco si bloccò in una spiacevole morsa.

Strinse i pugni attorno ai braccioli della poltrona, le nocche diventarono bianche.

Rimase così per qualche secondo, poi si afflosciò: espirò, chiuse gli occhi e si abbandonò completamente allo schienale della poltrona.

Sapeva cosa voleva dire.

Non sarebbe più tornato in Inghilterra.

 

**

 

John Watson si stava preparando per andare al cimitero.

Erano dieci anni che, ogni giorno, andava a trovare una tomba nera, senza fotografia, le cui lettere dorate recitavano ‘Sherlock Holmes’, e non sapeva perché.

Ma tante cose, nella sua vita, erano senza un perché.

Perché andava a visitare quella tomba?

Perché la sua analista aveva parlato di nevrosi e di rifiuto dell’elaborazione del lutto?

Sua moglie, Mary, aveva detto che lui non aveva mai superato la prima fase dell’elaborazione del lutto, la fase della negazione. Che la sua mente, per pura difesa, aveva semplicemente rimosso i ricordi di questo Sherlock Holmes che, a quanto pare, era stato il suo migliore amico.

John Watson era stato due anni in guerra e ne era uscito solo con degli incubi e un disturbo psicosomatico alla gamba.
Si era ritenuto abbastanza fortunato: molti, dopo aver vissuto quegli orrori, erano impazziti.
Certo, non poteva sapere che quella era solo la punta dell’iceberg.

La sua mente si era semplicemente rifiutata di elaborare un lutto così grande. O il cuore, o la mente, aveva detto il suo corpo, e questi aveva scelto la mente.

Perché i suoi figli si chiamavo Shirley e William?[William è il primo nome di Sherlock, ep. 3x03]

Entrambi erano dei bellissimi nomi, certo, ma non avevano mai significato nulla per John, eppure li aveva scelti lui.

Perché adorava ascoltare il violino? Aveva sempre preferito il pianoforte. O almeno, lo credeva.

John aveva un buco nella sua vita. Un buco di quasi tre anni, risalente a dieci anni prima.

Ricordava un tetto, un salto, un grido… e poi più nulla.

“Amore, io esco!” gridò, infilandosi il cappotto. Prese  i crisantemi[I tipici fiori dei morti] dal tavolo e uscì.

L’aria era bianca, densa di nebbia, quasi opprimente. L’umidità grondante si infilava nei polmoni e li opprimeva, mozzandogli quasi il respiro.

John si strinse nel cappotto, annodandosi al collo una sciarpa blu di cashmere che possedeva da una decina d’anni e che non aveva ricordo di aver mai acquistato.

Il vento gorgogliava a sprazzi, alternandosi da brezza a quasi tempesta, e in strada non c’era nessuno.

Arrivato al cimitero, spinse il cancello, che cigolò tetramente, mentre, lento, si spalancava, e la solita sensazione di essere osservato investì John, ma ormai aveva imparato a non farci caso.

La tomba di Sherlock Holmes era in mezzo a un prato, isolata da tutte le altre. John si piegò sulle ginocchia e restò a fissare i caratteri dorati, cercando di ricordare.

Sherlock Holmes era il suo migliore amico? John difficilmente ci credeva, lui non aveva mai avuto molti amici, complici la timidezza e l’amore per il pericolo. Era sempre stato un uomo molto solo.

Anche adesso, non frequentava nessuno al di fuori di sua moglie e di Mike Stamford.

Ma allora perché andava a visitare ogni giorno quella tomba?  Dentro di sé sentiva questo bisogno, questo desiderio che non lo faceva dormire la notte, se non riusciva quotidianamente a realizzarlo, di quelli che ti fanno restare in apnea e che ti permettono di respirare veramente solo al momento della realizzazione.

E John iniziava a respirare all’entrata del cimitero, e i suoi polmoni tornavano a funzionare regolarmente quando leggeva quelle lettere che spiccavano sullo sfondo nero.

Allo stesso tempo, però, a questa sensazione di benessere si mescolava il vuoto, la perdita. La tristezza si impadroniva di lui e non lo abbandonava mai.

“Ciao, Sherlock.” Disse, con un sorriso, toccando la lapide. “Eccomi di nuovo qui, ancora senza sapere perché. Mi fa sentire bene vederti, sai? Mary non è d’accordo che venga così spesso, lo sai, e ieri abbiamo discusso ancora. Ma io non posso farci niente. Non riesco a dormire se manco a questo nostro ‘appuntamento’. Dio, mi sembra così strano essere qui, a parare di appuntamenti alla tomba di una persona che non conosco. O meglio, che conoscevo. La mia mente non collabora, ma la scorsa notte ho sognato di nuovo quel salto. Sempre lo stesso sogno, vedo un uomo che salta da un tetto. Io gli tocco il polso, ma quello è assente, e c’è così tanto sangue. Oddio, le mie notti ormai pullulano di incubi di guerra o di quest’uomo che salta. Però quando vengo qui… mi sento meglio, ecco.”

John si alzò, reggendosi alla lapide poiché la sua gamba collaborava poco, e sistemò i fiori che aveva portato al posto di quelli vecchi. Poi estrasse un panno da una delle tasche.

“Stamattina Shirley e William hanno avuto un bisticcio.” Raccontò, mentre lucidava le lettere dorate “Stavano entrambi disegnando. Quando è arrivato il momento di colorare il cielo, hanno discusso su chi dovesse usare l’azzurro. Ne avevano uno solo e tutti e due volevano usarlo nello stesso momento. Mary, alla fine, stava per spezzare in due la matita per temperarla e farne una per ciascuno, quando William ha rinunciato e ha preso il grigio. Ha disegnato dei nuvoloni pieni di pioggia e i lampi e i fulmini. Al centro del foglio c’era la tua tomba, sai? Mary non era tanto felice, quando le dissi che avevo portato i bambini a farti visita, e non fu contenta nel vedere il disegno. Will, però, mi ha sorriso e ha detto che era un regalo per te.”

John aprì il cappotto e prese un foglio plastificato da una tasca interna.

Il cielo era nero e grigio, la pioggia copiosa, le nuvole arrabbiate, ma la lapide che vi era in mezzo era fresca e pulita, come se non subisse gli effetti delle intemperie.

John lo posò delicatamente accanto alla lapide.

“È un bambino molto timido e silenzioso, ma dalla spiccata intelligenza. Ha detto che gli piace il nome Sherlock, e ora va in giro a dire a tutti che è il suo secondo nome. Shirley è più allegra e spensierata, sebbene sia più grande, e ha disegnato  il mare e il sole splendente. In questo somiglia molto a Mary, mentre temo che Will sia più come me. A lei non è piaciuto venire al cimitero, lo trova triste.”

John sorrise.

“Vorrei davvero che tu non fossi morto. Ho tante domande senza risposta, e qualcosa mi dice che tu risolveresti ogni mio dubbio. Scommetto che saremmo andati d’accordo. Anzi, secondo Mary, io e te andavamo molto d’accordo, solo che non riesco a ricordare.
La mia analista sostiene che ho rimosso i ricordi di te per difesa della mente, che era già stata provata dalla guerra e che, alla tua morte, ha ricevuto il colpo di grazia. Io però vorrei ricordare.”

John finì di lucidare le lettere e mise il panno in tasca.

La nebbia si era infittita, impedendo la visibilità a due metri di distanza. Avrebbe fatto meglio a tornare a casa il prima possibile.

“Beh, ciao allora. Ci vediamo domani.” Salutò. Diede una pacca amichevole alla lapide e si voltò.

Quasi ebbe un infarto.

Tra gli alberi, avvolto nella nebbia, c’era una figura alta e scura, che lo fissava direttamente.

A John venne in mente una storia che suo figlio, di cinque anni appena, gli aveva raccontato. Parlava di un uomo che ti si avvicina nella notte e ti porta via. Non ha volto, ma molteplici braccia. Si chiamava Slenderman.

Terminato lo spavento iniziale, e quando la sua mente convenne che l’idea dello Slenderman era davvero stupida, John, quasi inconsciamente, mosse qualche passo verso l’uomo, che rimase immobile.

“Signore? Serve aiuto? Con questa nebbia non si vede nulla.” Disse John, mentre avanzava e la figura misteriosa acquisiva una forma più definita e sempre più particolari.

L’uomo non rispose, si limitò a fissarlo e ad attendere che John lo raggiungesse.

La nebbia si era infittita ulteriormente e John, per poter vedere in viso l’uomo, dovette avvicinarsi molto. I loro corpi quasi si toccavano.

L’uomo era molto più alto di lui, osservò, ed estremamente magro. I capelli corti e ricci, nerissimi, ma con qualche venatura grigia. Non doveva essere molto più giovane di lui.

Qualcosa accadde nel cuore e nello stomaco di John quando si soffermò su due dettagli di quel volto sconosciuto.

Gli occhi e gli zigomi. Così particolari, impossibili da dimenticare e che John era sicuro di avere già visto. Era sicuro d conoscerli, di averli guardati mille volte, di averli amati.

E ora quella sensazione di familiarità si alimentava ogni secondo, mentre fissava quegli occhi così chiari, verdissimi e azzurrissimi, eterocromatici. E quegli zigomi… John pensò che si sarebbe potuto tagliare a prendere a schiaffi quel volto così affilato[Cit. Irene Alder, ep. 2x01].

Lo trovata in qualche modo… attraente.

“Emh…” disse John, incerto, vedendo che lo sconosciuto si limitava a stare li fermo, senza pronunciare una sola parola, troppo impegnato a guardarlo in un modo che fece sentire John quasi nudo.

Inspiegabilmente, John collegò a quello sguardo così carico la sensazione di essere osservato che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni.

“Mi scusi, ha bisogno? Si è forse perso?” chiese John, sentendosi incredibilmente stupido.

L’uomo non rispose. Lo fissò e basta.

John, imbarazzato, guardò un punto imprecisato della gola dell’uomo e vide che indossava una sciarpa blu di cashmere identica alla sua.

“Beh, scusi se l’ho disturbata.” Disse, vergognandosi un po’. “Io… io credo che andrò. Buon Pomeriggio.”

John si voltò e fece per andarsene.

“John.”

Bastò quell’unica parola a far arrestare la camminata e il cuore di John.

John si immobilizzò e si voltò quasi a rallentatore, mentre il calore di quella voce così bassa e baritonale lo avvolgeva.

‘Casa’ fu il primo aggettivo che gli passò per la mente, mentre il suono dell’eco del suo nome ancora gli risuonava nelle orecchie. Era possibile che una sola parola, il suo semplice nome, così comune e banale, potesse provocargli tutte quelle emozioni di cui non era padrone?

“John.” Ripeté ancora lo sconosciuto, con più enfasi di prima, come se solo dire il suo nome lo rendesse felice.

John tornò sui suoi passi e si fermò di fronte all’uomo “Lei… lei come conosce il mio nome?” gli chiese, cercando di collegare il cervello per farne uscire qualcosa di sensato.

“So molte cose di te, John Watson.” Disse quello, con l’accenno di un sorriso sul volto. “So che sei stato in guerra in Afghanistan,  che hai avuto un disturbo psicosomatico alla gamba, che ti piace il pericolo, che sei un dottore. Otto anni fa conoscesti una donna di nome Mary e ora hai due figli con lei, Shirley, di sei anni, e William, di cinque. So che il tuo disturbo alla gamba è peggiorato, ultimamente. E so anche che hai avuto un brutto lutto circa dieci anni fa, e che non lo hai mai superato del tutto. Vieni tutti i giorni qui al cimitero, a visitare sempre la stessa tomba, senza sapere il perché.”

“…Straordinario.” Disse John, strabiliato “Decisamente straordinario!”

Sherlock sorrise, nell’amaro ricordo di una conversazione lontana, avvenuta circa tredici anni prima, ma impressa nella sua mente come sulla pietra.

Una delle loro prime conversazioni.

“Non è quello che la gente dice di solito.” Rispose, come da copione. E, come da copione, John domandò “E cosa mai dice di solito la gente?”

Sherlock guardò John negli occhi. Occhi scuri, ma non neri. Blu. Lo stesso suo colore, solo infinitamente più marcato.

“Vaffanculo.” Rispose, ed entrambi risero.

E fu in quel momento che John ebbe un flashback, che riguardava un taxi, ma era così vago e pallido che non gli diede peso.

“Allora, a parte gli scherzi, chi è lei? Come fa a sapere tutte queste cose di me?” chiese John, sentendosi particolarmente vulnerabile.

L’uomo non rispose. Prese, invece, a frugare nella borsa che portava a tracolla e ne estrasse due bicchieri della Starbucks, ancora fumanti. Ne porse uno a John, che lo accettò senza pensarci.

“Ti andrebbe di fare una chiacchierata con me?” chiese l’uomo, indicando con lo sguardo una panchina proprio dietro a John.

John annuì e non seppe il perché. Aveva la sensazione di conoscere quell’uomo, ma era convinto che un volto del genere non si potesse dimenticare.

Si poteva, però, sentire quel senso di calore e di vulnerabilità, si poteva pensare a ‘casa’, ‘famiglia’, davanti ad un perfetto sconosciuto?

John non lo credeva possibile e non aveva mai provato nulla di tutto ciò con nessun altro, Mary compresa.

I due uomini si sedettero vicini, ma non troppo, sulla panchina umida, lasciando che la nebbia li avvolgesse.

Per parecchi minuti nessuno dei due parlò, ognuno assorto nei propri pensieri.

John, in particolare, si sentiva stordito. Immagini confuse di una donna vestita di rosa, di un enorme cane nero con gli occhi rossi, di lui stesso vestito di bombe accanto ad una piscina, gli stavano velocemente turbinando nel cervello, senza che lui potesse fermare tutto ciò.

Sherlock, dal canto suo, aveva talmente tante cose da dire, che non sapeva come esprimerle.

Mi dispiace, John.

Ti ho osservato ogni giorno, da lontano, per ben otto anni.

Avrei voluto dirti che ero vivo, ma Moriarty me lo ha impedito.

È stato atroce vedere come ogni giorno ti dimenticavi di me, ma ogni giorno venivi alla mia tomba.

Ancora più brutto è stato vederti sposare quella donna. Lei ti ama, ma non quanto me, John. Lei era un cecchino, è una bugiarda, non ti ha mai detto nulla.

Però è stato bellissimo vedere la gioia sul tuo viso quando sono nati i bambini.

Mi manchi, John.

Sei un padre amorevole. Ho sempre detto che avevi il lato romantico troppo sviluppato.

Dio, mi manchi da morire.

John, dimmi che ti ricordi di me. Io non ho dimenticato nulla. Tu sei la persona più importante per me.

Una volta mi hai detto che ero l’essere umano più umano che conoscessi. Lo devo a te.

Mi manchi.

E ora devo andarmene. Otto anni passati ad  osservarti da lontano, e ora Moriarty mi ha privato anche di questa piccola gioia dolorosa.

Mi manchi mi manchi mi manchi.

Passerò il resto della mia vita lontano da te. E lo farò per proteggerti, di nuovo. Perché il solo fatto di essere amico mio ti rende un’ottima esca.

Mi sono buttato da quel tetto per te e ora me ne andrò per te.

Solo per te, perché è grazie a te che io non ero più così solo, grazie a te ho compreso il significato della parola amicizia.

Mi manchi.

Mi mancherai. Per sempre.

“Allora…” disse John dopo un po’, tentando di rompere il ghiaccio. Solitamente era lui quello silenzioso della situazione, ma sentiva che con quest’uomo sarebbe toccato a lui parlare per primo “Come mai ho avuto l’onore di questa chiacchierata?” cercò di sdrammatizzare ma, quando si voltò, vide due occhi azzurrissimi fissarlo corrucciati.

“John.” Disse l’uomo, serio  “Sei felice?”

John, per un attimo, non seppe cosa rispondere. Quella non sembrava la solita domanda di cortesia, che la gente ti pone come luogo comune ma a cui nessuno interessa davvero la risposta.

Quell’uomo gliel’aveva chiesto guardandolo dritto negli occhi, e John vi aveva scorto un senso di preoccupazione, tristezza e dolore vecchi nel tempo e mai curati. Doveva avere cura della risposta che stava per dare.

Ma lui era felice?

Certo, conduceva una vita invidiabile: un lavoro di medico ben pagato, una moglie che lavorava in ambulatorio con lui, due bellissimi bambini, degli amici e un bicchiere di vino rosso a fine giornata.

Eppure John non si sentiva completo, e ciò non lo rendeva veramente felice.

Qualcosa in lui era rimasto indietro, probabilmente se lo era portato nella tomba quel Sherlock Holmes che si ostinava ad andare a trovare ogni giorno, e poteva essere sicuro di ciò perché si sentiva completo, seppur malinconico, solo quando era davanti a quella spoglia lapide.

“Si.” Rispose, infine, dopo qualche secondo di silenzio. Sarebbe stato troppo strano e imbarazzante parlare con questo sconosciuto della valanga di emozioni che lo assalivano ogni mattina e ogni volta che metteva piede al cimitero, così optò per la via più facile. “Si, non mi lamento. Come lei sa, ho una bella famiglia, un bel lavoro, una bella vita, insomma. Ho i miei alti e bassi, ma tiro avanti.”

L’uomo sorrise e bevve. Anche John prese un sorso dal suo bicchiere. Era tea, osservò, e senza zucchero.

La cosa lo sorprese non poco, siccome tutti solevano zuccherare il proprio tea e lui doveva sempre avvertire per tempo che lo beveva amaro. Sorrise, compiaciuto, e bevve ancora. Sentì la bevanda scaldarlo e scacciare un poco il senso di umido che la nebbia gli aveva lasciato addosso.

“Ne sono felice, John, davvero.” Disse l’uomo, e lo sembrava davvero, anche se John notò la nota malinconica nella sua voce.

“E lei?” chiese John “Lei è felice?” E non lo chiese solo per dovuta cortesia, iniziava a nutrire una sincera curiosità per questo misterioso uomo che non rispondeva alle sue domande, che lo invitava a chiacchierare dal nulla su una panchina e che gli chiedeva se era felice.

L’uomo bevve e fece passare alcuni minuti prima di rispondere “No. Io ho smesso di essere felice dieci anni fa, quando persi il mio migliore amico.”

Quelle parole colpirono John nel profondo. Si sentiva particolarmente empatico con lui, sapendo di aver avuto un’esperienza simile anche lui dieci anni prima, sebbene non ne conservasse il ricordo.

“Scusi l’indelicatezza ma… come è successo?” Domandò, cercando di non essere troppo invadente.

“Io e lui lavoravamo nel settore del crimine. C’era uno psicopatico che era ossessionato da me, era il mio acerrimo nemico. Ha detto che, se non fossi morto, lui avrebbe ucciso i miei amici. Non potevo essere responsabile della loro morte, specie di questa persona a me così speciale, così inscenai il mio suicidio.”

John rimase un attimo interdetto. Era convinto che cose del genere accadessero solo nei film.

“La gente normale non ha acerrimi nemici. Non esistono nella vita vera.” Affermò, non sapendo che altro dire.

L’uomo lo fissò, significativo “Ah no? Mi sembra un po’ noioso.” Rispose “Cos’hanno le persone nelle loro ‘vite vere’?”

“Amici!?” Replicò John, interdetto. “Persone che conoscono, persone che stanno simpatiche, persone che stanno antipatiche, ragazze, ragazzi-”

“Si beh, come stavo dicendo, noioso.” Lo interruppe lo sconosciuto. Sembrava agitato, ma anche in attesa di qualcosa. Quella situazione iniziava a mettere a disagio John, ma non riusciva a smettere di parlare, mentre un altro ricordo lontano minacciava di riaffiorare, prepotente come quelli di prima.

“Quindi non ha una ragazza?” chiese, e gli sembrò anche stupido da chiedere. Per un uomo della sua età sarebbe stato più appropriato dire ‘moglie’.

Dalla faccia che fece l’altro, però, capì di aver detto la cosa giusta. L’uomo, difatti, sorrise, come se le sue aspettative fossero state realizzate, e John sentiva come se stesse vivendo una sorta di déjà-vu, come se le parole che lui stesso stava pronunciando fossero già state dette in un lontano passato e lui fosse solo una marionetta che le stava ripetendo, seguendo un copione.

“Ragazza? No, non è esattamente il mio campo.” Rispose quello, come se anch’egli stesse recitando una parte precisa.

John rimase per un attimo interdetto. Lo fissò, stupito. “Oh, ho capito.” Disse “Ha un ragazzo? E comunque non ci sarebbe nulla di male.” Cercò di giustificarsi, forse troppo velocemente, perché l’altro lo guardò di sbieco.

“Lo so che non c’è niente di male.” Rispose. “Anzi, dieci anni fa avevo un rapporto molto speciale con questo mio amico. La gente spesso ci scambiava per fidanzati, sia conoscenti che non. Molti parlavano di ‘amore platonico’. Il mio amico si premurava ogni volta di correggerli, mentre a me non faceva alcuna differenza. Non mi toccava il fatto che mi credessero omosessuale, molti, anzi, mi credevano insensibile ai sentimenti umani, come se fossi senza cuore, e a un cento punto me ne ero convinto anche io.”

L’uomo fissò direttamente John, occhi negli occhi. John non si sentiva molto lucido, continuava ad avere vaghi ricordi di lui e un’altra persona ad un ristorante, con tanto di candela romantica.

“Ma non era così” continuò l’uomo. “ Io volevo che la ragione prevalesse sulle emozioni, volevo poter ragionare sempre lucidamente, potermi fidare ciecamente dei miei sensi, ma alla fine anche io sono un essere umano, ho dovuto ammetterlo. Anche io provavo paura, ansia, affetto. Prima non mi preoccupavo di correggere chi credeva in una storia tra me e il mio amico e credevo di farlo perché non mi importava del giudizio degli altri. Solo successivamente ho capito che non era così. Non lo facevo semplicemente perché io, per questo mio amico, provavo tutto ciò che le persone nomali provano per tutti gli altri. Amicizia, simpatia, preoccupazione, affetto, anche amore. La gente normale prova un sentimento diverso a seconda della persona, ma io avevo solo lui. Io provavo tutto per lui. Avrei dato la vita per lui, ed è quello che, almeno in senso figurato, ho fatto.”

John si sentiva stordito da tutte quelle rivelazioni anche se, allo stesso tempo, aveva come la sensazione di sapere già tutto quello che l’uomo gli stava raccontando.

“E poi cos’ha fatto? Dopo aver inscenato il suicidio, intendo.  È tornato da questo suo amico? E lui l’ha perdonata?” domandò curioso.

Si rese conto di aver fatto la domanda sbagliata quando vide il volto dell’uomo farsi infinitamente triste, attanagliato dal rimorso.

John si morse la lingua, maledicendo la sua sfacciataggine.

“Ascolti, mi dispiace.” Tentò di rimediare “Non è assolutamente tenuto a rispondermi. Anzi, le chiedo scusa se-”

“Non sono potuto tornare.”  Rispose l’uomo, tristemente, fissando il bicchiere che teneva fra le mani guantate. “Volevo farlo ma… ho avuto… dei problemi… e ho dovuto continuare a fingermi morto… per dieci, lunghissimi, insostenibili anni.”

John rimase molto colpito dalla quantità di dolore che quella frase aveva prodotto. Sentiva quasi di poterlo toccare, come se avesse consistenza solida, tanto era presente. E il volto dell’uomo non era certo messo meglio: improvvisamente più stanco, addolorato, segnato. Si pentì di aver tirato fuori l’argomento, ma non riusciva a fermarsi.

Sentiva il bisogno di sapere di più, agognava ogni singola informazione che l’uomo potesse dargli. Non sapeva nemmeno perché, era un bisogno e basta. E andava soddisfatto, ne andava della sua salute mentale.

“Quindi il suo amico ha continuato a crederla morto?” domandò, addolorato.  Era incredibile quanta empatia potesse provare per quest’uomo. Ogni secondo che passava sentiva di conoscerlo sempre di più. Essì che non sapeva nemmeno il suo nome.

Lo sconosciuto annuì e John poté giurare di aver visto un luccichio sospetto nei suoi occhi, ma preferì non indagare.

“Dio, chissà come deve essersi sentito il suo amico.” Continuò, più a se stesso che all’uomo accanto a lui. “Io ne uscirei distrutto. Non ho mai sopportato le separazioni. Sono stato in guerra, certo, ma quelli non erano dei veri e propri lutti. Cioè, li conoscevo, ma non erano veri amici. Ma se la persona la conosco bene… ne uscirei devastato.”

L’altro uomo strinse forte il bicchiere tra le mani, e lo incrinò. “Mi dispiace.” Disse, in un tono volutamente e forzatamente neutro. “Beh, non è che io me la sia passata meglio. Hai idea di come sia sapere di essere vivo e vegeto, di vedere il tuo amico nel lutto per dieci anni e non poterlo avvicinare? Di non poterci parlare? Di vedere che si fa una vita senza di te, mentre tu non esisti senza di lui?!”

John lo guardò, emozionato. “E allora perché non è tornato da lui? Magari senza dirlo a nessuno, così, sa, non interferiva con i suoi problemi. Ma almeno vi potevate rivedere, il suo amico avrebbe saputo che lei è vivo, non avrebbe più vissuto nel lutto.”

L’uomo lo guardò, con gli occhi che si scurivano insieme al suo sguardo.

“Credi che non ci abbia mai pensato?” domandò, quasi minaccioso, e John si sentì per metà in colpa e per metà allarmato. “Credi che non abbia mai voluto buttare tutto all’aria? Andare da lui, dirgli ‘Ehi, guarda, non sono morto.’  Tornare alla vecchia vita con lui, tornare a essere un uomo completo?! Credi che non sia mai stato a un passo da fare tutto ciò?!”

Respirava affannosamente, agitato. John si sentì male per lui, ma ancora non riusciva a capire.

“E allora, semplicemente, perché non l’ha fatto? La vedo come soffre per questa cosa, e scommetto che ci sta male anche il suo amico. Perché non ha fatto ciò che mi ha appena detto? Avrebbe risparmiato un sacco di dolore a entrambi.”

“Sarebbe stato crudele.” Disse l’altro, in tono sconsolato. “Per due anni non sono stato nemmeno in Inghilterra, imprigionato e torturato nei posti più disparati del mondo. Poi, quando finalmente ero pronto a tornare, quando sembrava tutto risolto, ecco che si scoprì che in realtà nulla lo era. Non potevo tornare, il mio amico è una persona così schietta, così leggibile, avrebbe fatto saltare la mia copertura.”

“E lei avrebbe fatto credere al suo amico di essere morto solo per una stupida copertura?!” chiese John, scandalizzato e anche un po’ arrabbiato.

“Tu non capisci!” disse l’altro, fissando la nebbia intorno a loro, sempre con un tono forzatamente neutro. “C’erano delle vite in ballo. La mia, la sua. Io non ho paura di morire, anche se preferisco vivere, certo, ma se avessero ucciso lui per colpa mia, non avrei mai potuto perdonarmelo. Non lo avrei semplicemente sopportato.”

“Beh, un po’ egoista da parte sua, non trova?!” replicò John, arrabbiato. L’uomo lo fissò, pieno di stupore. E dolore. “Non potrò mai perdonarmelo, non lo avrei sopportato.” Gli fece il verso. “Non crede di pensare un po’ troppo a sé stesso?! Non crede che anche il suo amico avesse voce in capitolo? Scommetto che, se glielo avesse detto, avrebbe fatto in modo di non far saltare questa preziosa copertura. Sono sicuro che avrebbe fatto di tutto per non essere così leggibile, come lo definisce lei. È stato davvero molto egoista da pare sua.”

L’altro sembrava profondamente ferito. “Ma non capisci!” ripeté, con la voce non più neutra, ma incrinata, rotta, piena di dolore. “Se fossi tornato da lui, non sarei più riuscito ad andarmene, non ne avrei avuto la forza, ma dovevo. Il mio nemico mi seguiva, mi cercava, mi curava. E faceva lo stesso con i miei amici. No, non avrei potuto essere responsabile della loro morte…”

“Vede, ancora parla da egoista!” lo attaccò John, chissà perché, così provato, così addolorato, come se sentisse sulla propria pelle il dolore che l’altro trasudava. “Lei è un uomo intelligente e scommetto che non si circonda di gente stupida. I suoi amici avrebbero fatto in modo di non lasciar trapelare nulla, avrebbero pensato da soli alla loro incolumità. Lei non sarebbe stato responsabile di nulla! Ma almeno avrebbero saputo che lei è vivo! Così è responsabile comunque della loro morte, lo capisce?”

Lo sconosciuto lo guadò interrogativo, con un sopracciglio alzato e gli occhi lucidi.

John sospirò. “Lei non sa nulla della natura umana, vero?” chiese, sapendo già la risposta.

“Natura?” chiese l’altro, poi alzò gli occhi al cielo. “No. Umana?” lo guardò, significativo. “No.”

John sospirò di nuovo, poi si sforzò di alzare lo sguardo e di guadare l’altro negli occhi.

“Quando una persona cara muore” spiegò “è la distruzione per chi gli sopravvive. Essa si porta nella tomba una parte di loro, per sempre. Chi affronta il lutto, lo fa senza la sua integrità, ma a pezzi. Pezzi che, dopo un po’, torneranno insieme, a parte uno, quello mancante, quello appartenente alla persona morta. E, senza quel pezzo, si è vulnerabili, si è come morti. Morti dentro. Più la persona era cara e più il buco che lascia è grande, e più l’atro si sente morire. Lei, in questo modo, non sarà stato responsabile della morte fisica del suo amico, certo, ma di quella mentale si. Non è una metafora il detto ‘con te è morta una parte di me’. Il suo amico è già morto. È morto dieci lunghi anni fa.”

John terminò il discorso, con gli occhi lucidi perché non aveva parlato da persona esterna ai fatti.

Con quelle parole, aveva preso il suo cuore in mano e lo aveva porso a quello sconosciuto. Tutte quelle cose che gli aveva detto, non le aveva solo immaginate, le provava ogni giorno, ogni ora, ogni secondo

 E la cosa frustrante era che non sapeva nemmeno il perché, e quella era forse l’unica sensazione che non spariva quando andava a trovare la tomba, ma anzi, che aumentava alla vista della lapide nera.  

Anche l’altro sembrava sconvolto dalle parole di John, si vedeva che, addolorato, tratteneva il respiro, come se fosse una penitenza alle sue colpe. John lo vedeva deglutire a vuoto, cercando di calmarsi.

“Sembra che tu sappia cosa si prova.” Disse, dopo qualche minuto di silenzio imbarazzato.

“Si… ho avuto un’esperienza molto simile alla sua, dieci anni fa anche io.” Rispose John, lentamente.

L’uomo lo fissò, in attesa, in ansia, quasi speranzoso.

“A quanto pare anche io ho perso il mio migliore amico. È morto, non mi ricordo come, non mi ricordo nemmeno chi è. La mia analista sostiene che la mia mente, già provata dalla guerra in Afghanistan, non abbia retto a quest’ulteriore lutto e che abbia rimosso i ricordi di questo mio amico, il mio migliore amico, a detta di molti, a scopo difensivo.”

Si interruppe. Guardò il terreno per un po’, poi alzò lo sguardo, e vide che l’uomo lo fissava, in attesa.

“Così, sono dieci anni che vado a trovare una tomba sconosciuta. Ma sono dieci anni che mi sento bene quando la vedo, proprio come se andassi a trovare un vecchio amico. Anche se la malinconia di saperlo morto è dura da affrontare, sarebbe molto peggio se non andassi a trovarlo. È diventato la mia droga, a volte l’unico motivo per tirare avanti. La mia gamba sta meglio, quando vengo qua, il mio cuore è più leggero, e mi sento felice.” Disse “So che sembra strano, specialmente perché, effettivamente, non ricordo nulla, e sulla lapide non c’è nemmeno una fotografia. Deve essere stato davvero importante per me, questo mio amico. Quando vado a trovarlo, mi sento meno solo. Per questo mi sono arrabbiato quando mi ha parlato del suo suicidio. Io darei qualsiasi cosa per poter vedere questo mio amico. Per poter capire, ricordare…”

John terminò il discorso e un silenzio pesante gravò su di loro. Stavolta, fu l’altro a romperlo. Tirò fuori il cellulare, guardò lo schermo e si incupì.

“Beh, John, sono felice che tu sia felice, con i tuoi alti e bassi.” Disse “Ora, forse, potrò essere un po’ più felice anche io, anche se non mi perdonerò mai per quello che ti ho fatto.”

John lo guardò, confuso. E ora di che stava parlando quell’uomo così strano? Non lo aveva mai incontrato prima d’allora, come poteva avergli fatto qualcosa?

“Scusi, non capisco.” Disse, sentendosi stupido.

L’uomo, allora, si mosse. Lo afferrò per le spalle e lo voltò di 90 gradi, in modo da averlo perfettamente di fronte.

“John, scusami, davvero, per tutto. Perdonami. È stato un onore conoscerti, ma ora devo andare. Non ci vedremo mai più. Sono felice che tu abbia cancellato i ricordi, almeno la tua sofferenza è limitata, e posso prendermela tutta io.”

John era interdetto, scandalizzato, confuso, ancora stretto nella morsa dello sconosciuto.

“Davvero, io ancora non capisco.” Ripeté, spaventato, ma anche curioso. L’adrenalina gli scorreva sotto la pelle, viva.

“Lei è uno psicopatico, vero?” chiese, senza cattiveria, solo non poteva spiegare altrimenti il comportamento strambo di quel tipo strambo.

L’uomo sorrise.

“Non sono uno psicopatico.” Spiegò “Sono un sociopatico ad alta funzionalità.”

John spalancò gli occhi e trattenne il respiro, colpito. Quelle parole avevano risvegliato in lui come un campanello della memoria, ma non riusciva a raggiungerlo.

L’altro tolse le mani dalle sue spalle e si alzò.

“Bene, io devo andare.” Disse, dandogli le spalle, mentre una lussuosa auto nera si fermava proprio di fronte a lui. “Addio, John Hamish Watson. Dubito che ci rivedremo ancora.” Disse, con voce rotta.

Non si voltò. Salì in macchina e quella partì, senza dare il tempo a John di poter dire o fare nulla.

E fu proprio mentre guardava l’auto allontanarsi nella nebbia che i ricordi lo colpirono, come un fulmine a ciel sereno.

Riguardavano tutti lui e l’uomo con cui aveva appena parlato.

Loro due su un taxi, loro due sulla scena di un crimine, un cellulare rosa, loro due a Buckingham Palace, con l’uomo nudo avvolto solo da un lenzuolo, loro due a Baskerville,  loro due al St. Barts Hospital, loro due a casa a giocare a Cluedo, l’uomo che suona il violino alla finestra, che gli fa trovare teste mozzate nel frigorifero, che beve tea con dentro occhi bruciati da una fiamma ossidrica.

E finalmente, dopo dieci lunghi anni, John Watson ricordava.

Dopo dieci lunghi anni poteva dare un volto, un passato, un perché, a quella tomba spoglia che andava a trovare in quel modo ossessivo.

E mentre osservava, senza possibilità di tornare indietro, l’automobile che si faceva solo un puntino lontano, sentì il nome del suo migliore amico venirgli alle labbra.

“Sherlock…” sussurrò, addolorato, consapevole, distrutto.

Ma l’automobile era già sparita del tutto, inghiottita dalla nebbia vorace e insensibile, incurante di ciò che stava accadendo. E quel nome così sussurrato andò a perdersi tra le foglie nascenti come un’eco leggera, trasportato nell’aria da una brezza effimera, ma senza mai poter raggiungere il suo proprietario.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali (A Random):

Bene, se siete arrivati a leggere fino a qui, vi voglio tanto bene *distribuisce caramelle*
Che posso dire? Solitamente non sono una persona da Angst, ma da comico/fluff. E credo fermamente negli Happy Endings, ma non stavolta. Sarà stata colpa della maturità? Ahah
Coooomunque, ho cercato di spiegare ogni cosa durante la fanfiction e ho cercato di mantenere ogni personaggio IC, spero di esserci riuscita.
Per eventuali dubbi non risolti, contattatemi pure in privato, sarò felicissima di rispondere ad ogni quesito!
Un bacione a tutti quanti!

 

 

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