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Autore: Frarry    12/07/2014    1 recensioni
Janet è costretta a cambiare vita. Janet scappa dalla sua routine e dalla sua città natale per poter ricominciare, ma il suo incubo, lo stesso incubo che ha portato la giovane in una cittadina al sud dell'Inghilterra sembra perseguitarla.
A Janet non è rimasto niente se non l'amore per i libri. Sarà proprio questo amore materiale a farle conoscere Niall, la sua ancora di salvezza, la corda alla quale si aggrapperà.
Ma le corde non durano per sempre, se tirate troppo possono spezzarsi, consumarsi...
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi sciacquai la faccia.

Tirai su la testa, desiderosa di vedere un altro volto in quello specchio, ma ero sempre io. Odiavo quei due occhi marroni, così scuri da confondersi con la pupilla. Avevano un taglio orientale, a mandorla e quando sorridevo sembravano scomparire.

Sorridere. Da quanto non capitava?

Odiavo anche i capelli, anche loro scuri e insignificanti come gli occhi. Cadevano lisci sulle spalle. Odiavo perfino le mie guance un po' troppo accentuate, le odiavo e pensare che da piccola mi piacevano. Ma quell'immagine era solo un ricordo, il bene che provavo nei miei confronti lo era.

“Scappare non risolverà niente” queste parole mi rimbombavano nella mente.

Mi presi la testa fra le mani come per bloccare quel pensiero fastidioso che mi faceva impazzire.

L'acqua scorreva ancora aperta.

Chiusi il rubinetto che mi sembrò così duro e chiuderlo mi stancò persino.







Il sole autunnale di ottobre entrò fioco nella mia stanza.

Avevo lasciato la finestra socchiusa; verso l'alba sentii freddo; tirai su le coperte e mi avviluppai dentro.

“Ssscappare non risolverà niente” come un sibilo fastidioso. Urlaì. “NIENTE” urlaì più forte, come per chiedere aiuto, come se qualcuno potesse salvarmi. Mi contorgevo tra le lenzuola bianche, piene di lacrime. Succedeva tutte le mattine. Così, dopo essermi ripresa mi alzai.

L'orologio segnava le 5.40. Ormai era abitudine. Non ricordo più l'ultima volta che mi svegliai tardi, come una ragazza di 20 anni dovrebbe fare.

Feci colazione. L'unica cosa che non mi mancava mai era l'appetito. Almeno quello.

Portai alle labbra la tazza di thè caldo. Pensai a mamma. Pensai a lei così intensamente sperando che quel pensiero le potesse in qualche modo arrivare e farle capire che stavo “bene”.

Pensavo. Pensavo di continuo. E non c'era niente o nessuno che poteva rompere quei pensieri. Ero sola.

Alle 10:30 decisi di andare in biblioteca.

Amavo Brighton solo per il fatto che fosse sul mare. Il mio appartamento o meglio “buco per topi” si trovava di fianco alla spiaggia.

Non passai per le vie principali, ne dal centro. In centro non ero mai stata.

Camminai per dei vialetti di pietra; faceva meno freddo rispetto a prima, ma mi strinsi di più nel mio giubbotto di jeans felpato.

“Diamine! Fa attenzione!” Sbraitai contro uno o una, non potevo dirlo, perchè tenevo la testa bassa, che si scontrò contro la mia spalla.

Passai sotto un arco, sempre fatto di pietra. Svoltai a destra. Ero arrivata.

Entrai dentro il “mio mondo” senza far troppo rumore.

“Buongiorno.” Così mi accolse la signora dietro al bancone di mogano, ma come ogni volta non ottenne risposta da parte mia.

Percorsi i vari corridoi fino ad arrivare a quello che mi interessava.

Mentre ero lì, diedi ragione alla citazione di Carlos Ruiz: Perchè a nessuno era ancora venuto in mente di imbottigliare quel profumo di carta e magia?

“Le serve aiuto?”

Tenni la testa bassa, rivolta alle pagine del libro.

“Vedo che viene quasi tutti i giorni qui, da un mese a questa parte.”

“Questo posto fu il primo posto dove mi rifugiai appena arrivai qui.” Pensai.

La signora davanti a me era la stessa che ogni mattina mi dava il buongiorno appena entravo.

Chinò la testa con un sorriso. “Le piace leggere?”

Che domanda stupida.

Forse pensava la stessa cosa di me. Dovevo proprio sembrare una stupida a non rispondere.

Feci sì con la testa.

Stava per parlare, di nuovo, ma fu chiamata, da suo figlio.

“Mamma...questo libro...mamma puoi venire un attimo?” Strillò il ragazzo.

Gli fui grata perchè la donna andò in soccorso e io potei uscire senza essere tartassata di domande da una sconosciuta.

Torani a casa a mani vuote.

Passai, come sempre, lungo la spiaggia.

Un gelataio porgeva dal suo chioschetto, un cono al cioccolato a una bimba dai capelli rossi.

Invidiai quella piccola creatura e la sua spensieratezza.

Passai vicino a una macchina e mi specchiai; spostai indietro i capelli e ripassai l'ombra del tatuaggio a forma di peter pan che si trovava dietro l'orechhio sinistro.




Avevo finito di cenare. Le mie giornate erano di una monotonia assurda.

Stavo per lavare i piatti quando sentii dei passi fuori dalla porta.

La casetta dove mi trovavo era isolata e nessuno passava mai di lì.

La proprietaria prima di farmi visita mi chiamava sempre; non poteva essere lei.

“Scappare non servirà a niente”

Non sapevo più se quelle parole risunavano solo nella mente o erano lì, dietro quella porta.

I passi si fecero più vicini.

Presi un coltello dalla credenza. Tremavo. “Nieeente” disse una voce soffusa. Quella voce. Mi portai la mano libera davanti alla bocca, per soffocare l'urlo e con l'altra impugnai più forte la posata. “Non servirà a nienteee.” Un eco che non mi lasciava vivere. Non sentivo più i passi, ma solo quella maledetta voce.

Ero dietro la porta.

Liberai la bocca solo per portare la mano alla maniglia, pronta per aprire.

Il mio respiro era incontrollabile, come dovevano esserlo i miei battiti.

Eccoli. Eccoli di nuovo quei passi.

Ero immobile, ma tremavo allo stesso tempo.

La porta si aprì e io non fui in grado di richiuderla. Ero esausta.

L'ultima cosa che vidi fu un' ombra, poi il buio.  
  
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