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Autore: Aredhel Afterlife    13/07/2014    9 recensioni
Lui era il ragazzo che aveva attaccato bottone con me sul Harbour Bridge cantandomi una canzone dei Blink 182; era il ragazzo che, subito dopo, mi aveva sorriso e preso la mano, portandomi nella migliore caffetteria della città per offrirmi un cappuccino. Lo stesso che mi aveva fatto arrampicare sopra ad un albero al nostro primo appuntamento. E sempre quello che, mentre eravamo al cinema e Jonathan Clay stava suonando 'Heart on fire', mi aveva confessato di amarmi urlando in piedi sulla sedia della sala cinematografica .
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                     Image and video hosting by TinyPic                                                                        


 

LOST IN CONFUSION.



L' aeroporto di Sydney era una delle cose che odiavo maggiormente: aveva tutto una tonalità di bianco e di grigio, non c'era una minima percentuale di colore, nulla che esprimesse allegria o gioia; e in linea di massima anche l'intera città non era differente. Ti guardavi attorno e vi trovavi un ambiente 'moderno' e 'metallizzato'; ormai il gusto e la sottile eleganza dello stile antico erano spariti con l'arrivo delle automobili, dei cellulari, dei computer, delle televisioni e della tecnologia in generale. Era anche per questo che non possedevo un telefono all'ultima moda, ma semplicemente un aggeggio che mi permetteva di mandare messaggi e telefonare. Che senso aveva possedere qualcosa di così costoso che, tanto, aveva le stesse funzioni di un semplice portatile? Per me erano soldi sprecati. Fortunatamente non ero 'la popolarità' in persona, il che mi consentiva di non spendere quasi tutto il mio stipendio in ricariche telefoniche.

Appena misi piede fuori dall'edificio, somigliante ad un manicomio, tirai un sospiro di sollievo. Quasi come se, a stare ore seduta in un sedile d'aereo, mi fossi atrofizzata fino a perdere ogni traccia di vitalità rimasta. Anche perché, a dir la verità, al chiuso non ero mai riuscita a stare stare: il vento, l'aria, il sole, la pioggia. Gli elementi erano un qualcosa che avevo radicato dentro la mia persona, una parte di me che conservavo gelosamente fin da quando ero una bambina alta un metro ed un tappo. Quindi vivere in una città trafficata come Sydney era quasi una tortura; tortura dalla quale avevo preso una pausa di due lunghi mesi, stando nella famigliare veranda dei miei nonni, in Inghilterra, in un paesino minuscolo vicino al centro abitato di Middlesbrough.

Avevo bisogno di allontanare tutto e tutti, avevo bisogno di stoppare il nastro e fermarmi un secondo, permettendomi di capire chi ero e chi volevo essere. Pensavo che un soggiorno in mezzo all'infinita prateria inglese potesse essere un buon modo per rinchiudermi nel mio mondo e riflettere davvero sulla mia vita. A diciannove anni non si poteva dire che ero una ragazzina, il problema era che dopo l'adolescenza, la scuola e i passi obbligatori che ogni persona media compie, non avevo mai pensato a che cosa fare. Non avevo mai pensato se andare all'università, se viaggiare, se mettermi a gestire il locale di mio zio Rupert, se avere una famiglia, se trasferirmi o meno. Non avevo mai pensato a nulla, come se potessi rimandare il momento di prendere una decisione all'infinito. Ed è stato proprio quando mi sono resa conto di non potermi permettere altri indugi che sono andata in confusione: sono bastati due o tre avvenimenti spiacevoli, i ricordi dei miei genitori defunti e il peso delle responsabilità.
La mia mente ha fatto crack; sono caduta in un circolo vizioso. 
Mi sono persa dentro me stessa, soffocando ogni voglia, scegliendo di rimanere ferma, a stazionare davanti all'ostacolo. Il massimo della mia giornata era stare tutto il giorno in casa, a guardare il mondo andare avanti attraverso una finestra. Osservare la gente che camminava sulle strade della città, domandandomi che fine avrei fatto io.
Ed è per questo che ho dovuto, e mi sono imposta, di partire per riordinare le idee, o meglio, per costruirmene qualcuna. Forse ho agito d'impulso, lasciando tutto e tutti qui, senza spiegazioni, saluti o altro. Ho quasi pensato di aver sbagliato, e mi sono sentita in colpa. Ma poi ho capito che per una volta dovevo pensare a me, per una volta dovevo essere egoista. E in fondo, l'unica persona che mi era mancata tanto da togliermi il fiato, mi conosceva quasi meglio di me stessa; e speravo avesse compreso il motivo della mia partenza.

Il cielo era coperto da enormi nuvoloni neri, e l'aria ghiacciata s'infiltrava fra i buchi del maglione di lana che indossavo. Probabilmente a minuti avrebbe piovuto. Decisi, quindi, di fermare un taxi e farmi portare a casa. 
Neanche a dirlo, e mentre eravamo bloccati nel traffico del centro, delle leggere goccioline iniziarono a posarsi soffici sui vetri delle auto; sorrisi osservando quello spettacolo della natura. Aprì il finestrino nell'intento di avere un contatto diretto con l'acqua piovana; era dannatamente rinfrescante, anche se la temperatura media era sui cinque gradi, quel giorno, e quindi l'aria fredda che entrava non era propriamente una cosa piacevole. Soprattutto per il tassista che mi osservava dallo specchietto con aria minacciosa, maledicendomi sottovoce per il gelo che lentamente stava prendendo piede nell'abitacolo. Dopo qualche minuto, e non prima di aver odorato l'aroma piovoso, chiusi il finestrino, per la gioia dell'autista, con cui mi scusai con un debole sorriso. Sulla pelle diafana della mia mano c'era ancora una goccia, su cui posai gli occhi, incantandomi.

“Signorina, siamo arrivati.” mi riscosse l'uomo.

“Si...mi scusi.” balbettai ad un tono quasi inudibile.

Scesi dall'auto inciampando, e per poco non cadetti in una pozzanghera; tipico di me. Afferrai la valigia mentre tutti i miei abiti si inzuppavano a causa dell'acquazzone che stava scendendo dal cielo.

“Ecco a lei.” porsi i soldi al tassista, che mi salutò con un cenno del capo, per poi ripartire verso la stazione dei taxi.

Sospirai, ormai fradicia, pronta a voltarmi e raggiungere il palazzo in cui si trovava il mio appartamento.

Qualcosa però, prima che potessi girarmi, attirò la mia attenzione dall'altra parte della strada. Avrei potuto riconoscere quell'ammasso di capelli anche in mezzo a Times Square piena di turisti nell'ora di punta. Per me quella capigliatura era una macchia di colore in mezzo a tutto il grigio della città, era un faro luminoso nella notte più buia dei tempi, era un ancora di salvezza. Quella zazzera che cambiava tonalità quasi ogni mese.

Per un attimo il respiro mi si bloccò in gola, e sentì un groppo all'altezza dello sterno. Piccole e pungenti lacrime risalirono agli angoli degli occhi, mentre quelle del cielo continuavano a infradiciarmi.

Dopo essermi riscossa mi buttai, letteralmente, in mezzo alla strada, ignorando le auto e i loro guidatori, che, furiosi, suonavano il clacson e si sporgevano dal finestrino per urlarmi insulti poco carini. In quel momento, però, nulla mi giungeva nitido alle orecchie, non pensavo a niente se non a lui, a raggiungerlo. Non mi resi conto neanche del peso della valigia, fin che non mi fermai, esausta, sul marciapiede. Puntai gli occhi in ogni direzione, e ritrovata quella testa colorata, rincominciai a correre per raggiungerla. Il suo passo era svelto, quasi nervoso, e sapevo che non era in sé da come strisciava i piedi sul cemento e nel modo in cui stringeva convulsamente la mano sulla tracolla. Incominciai a rallentare, senza più un briciolo di forze, ma non smisi di muovermi, e mi limitai a camminare svelta. Quando vidi che si stava allontanando troppo mi sforzai di improvvisare un' ennesima corsetta, ma questa volta incominciai a gridare, sperando che mi sentisse:

“Michael!”

Accelerai.

“Michael!”

Nulla, non si voltava.

“Michael, accidenti!” urlai più forte.

La sua testa ebbe un impercettibile movimento verso di me, ma subito dopo tornò con lo sguardo basso.

Mi chiesi se fosse diventato sordo.

Continuai a seguirlo correndo, osservando quei terribili skinny jeans neri e tutti strappati che usava quasi sempre, e il suo giaccone pesante. Glielo avevo regalato io per Natale...scossi il capo. Non dovevo incominciare con il sentimentalismo ancora prima di averlo raggiunto.

La voglia di vederlo mi spinse ad accelerare ancora di più; allungai un braccio e riuscì ad afferrarlo per una manica. Si voltò di scatto, con un' espressione corrucciata ad incorniciargli il volto. Dopo avermi riconosciuto, però, lo stupore si fece spazio in quelle iridi verdi-azzurre. Quelle iridi che mi avevano accompagnato ad ogni passo, quelle iridi che mi avevano fatto scoprire il mondo. Quelle iridi che avevano sempre fissato le mie intensamente, facendomi sentire come una bambina impaurita.

“Mackenzie...” sussurrò con un filo di voce.

Annuì osservandolo, per poi abbassare lo sguardo sulle mie scarpe.

Notai dei volantini nella sua mano destra: ne presi uno. C'era il mio nome ed una mia foto, diceva “Ragazza scomparsa”.

“Michael. -mi fermai a guardarlo negli occhi- Cos...cosa sono questi?” chiesi confusa.

Si grattò la nuca nervoso, sospirò, e con un leggero tremito mi tolse dolcemente il foglio dalle mani.

“Io...io non sapevo cosa fare. Te ne sei andata così...non avevo idea di dove ti trovassi, perché fossi sparita all'improvviso. Ho chiesto a tuo zio e lui non mi ha detto nulla.” fece una pausa, e l'ennesimo sbuffo uscì dalle sue labbra rosee e piene.

“Ero fottutamente preoccupato.” strinse i pugni, voltando la testa.

“Scusa...lo so, avrei dovuto dirtelo, io...” provai a spiegare; ma venni interrotta dal suo alto tono di voce:

“Io cosa?! Sono passati due cazzo di mesi! Due mesi nei quali non ho più avuto tue notizie! Potevi essere morta...potevi essere scomparsa! Ero disperato fino a due minuti fa! E...e questi -indicò i volantini che teneva ancora in mano- sono stati l'unica cosa che mi hanno dato speranza. Pensare che, magari, qualcuno ti avesse visto.” mi sputò addosso tutta la frustrazione e la rabbia che gli avevo provocato.

Nei suoi occhi, però, lessi il sollievo di avermi ritrovata.

“Lo so! Ho sbagliato! Avevo bisogno di riprendermi, di schiarirmi il casino che avevo in testa! Per una volta ho fatto qualcosa per me, e non per gli altri! Cosa credi, che sia stato facile lasciarti qua? Ti ho pensato ogni singolo minuto che ho passato in Inghilterra.” sbottai mettendomi le mani nei capelli.

“Avevo paura che fosse stato tutto un sogno. Te, noi...avevo una dannata paura che nella realtà non fossimo mai esistiti...” confessò osservando un punto indefinito dietro le mie spalle.

“Ma sono tornata. Sono qui e sono reale, non è cambiato niente!” gli dissi prendendogli le mani; mentre il temporale infuriava sopra di noi, ormai completamente bagnati.

“Avresti potuto almeno...non lo so...almeno un messaggio. Io ti avrei capita Mackenzie, ti conosco meglio di chiunque altro.” disse sfiorandomi la guancia.

“Ed è per questo che pensavo avresti capito.” dissi con le lacrime agli occhi.

“Mi sono sentito abbandonato.” rivelò posando i suoi occhi nei miei.

“Non ho mai voluto questo. Sei stato il mio unico pensiero da quando sono salita su quell'aereo. Credimi, non volevo abbandonarti o lasciarti. Ma non potevo continuare in quel modo, io...io non sapevo cosa fare! Era tutto un caos, era tutto così...terribilmente insipido. La mia vita era diventata incolore! L'unica cosa che mi faceva andare avanti eri tu.” singhiozzai.

Sentì le sue braccia avvolgere il mio esile corpo; appoggiai la testa sul suo petto, sentendomi a casa. L'Inghilterra mi aveva fatto ritrovare una parte di me stessa che avevo smarrito durante gli anni, ma lui sarebbe sempre stato il mio caposaldo, il mio salvatore, il mio luogo sicuro.

Lui era il ragazzo che aveva attaccato bottone con me sul Harbour Bridge cantandomi una canzone dei Blink 182; era il ragazzo che, subito dopo, mi aveva sorriso e preso la mano, portandomi nella migliore caffetteria della città per offrirmi un cappuccino. Lo stesso che mi aveva fatto arrampicare sopra ad un albero al nostro primo appuntamento. E sempre quello che, mentre eravamo al cinema e Jonathan Clay stava suonando 'Heart on fire', mi aveva confessato di amarmi urlando in piedi sulla sedia della sala cinematografica .

“Non farlo più.” sussurrò al mio orecchio.

“Scusami.” singhiozzai, sempre sul suo petto.

“Ci sono qui io, adesso.” disse prendendomi il volto fra le mani.

Mi fissò per secondi che sembrarono interminabili, ma quella sensazione...quello sguardo mi era mancato in modo brutale. E riaverlo era il regalo più bello di tutti. Lui, era il più bello di tutti. Anzi, lui era semplicemente Lui. 
Lui. Lui e Lui.
E a me bastava averlo, ed il resto poteva anche passare in secondo piano. Ero persa in quegli occhi, e il pianeta al di fuori di noi sarebbe potuto bruciare o cadere in pezzi per poi sgretolarsi. Perché in fondo, avevamo il nostro mondo, di cui gli unici abitanti eravamo noi: Michael e Mackenzie.
Il resto, davvero, non contava.

“Mi ami?” gli chiesi.

“Da quando ti ho vista inciampare da ferma, su quel ponte.” sorrise a pochi millimetri dalle mie labbra.

“E tu? Mi ami?” continuò.

“Da quando ti ho visto con i tuoi capelli blu e la tua chitarra, su quel ponte.”

Ridacchiò avvicinandosi ulteriormente.

“Hai cambiato, però. Ora sono verdi.” gli feci notare prendendo fra le dita un ciuffo ribelle che spuntava sulla fronte.

“Il verde è il colore della speranza. Io ne ho avuta tanta in questi ultimi mesi. Mi serviva per ritrovarti.” sussurrò prima di far combaciare, finalmente, le nostre labbra.

Ci cercavamo lentamente, quasi come se avessimo paura di farci male, come se l'altro fosse fatto di cristallo e potesse scheggiarsi e frantumarsi nel giro di pochi istanti. Ma allo stesso tempo era un bacio profondo, di quelli che trasmettono tutte le emozioni che provi.
Fu un bacio che fece ripartire tutti gli impulsi del mio corpo: dal cuore che batteva all'impazzata, alla sottile nebbiolina che avvolgeva la mia mente e attutiva tutto fuorché le nostre lingue che si rincontravano dopo tanto tempo. Portai le braccia attorno al suo collo, e lo accarezzai all'attaccatura dei capelli, ormai fradici, vista la pioggia che continuava a cadere imperterrita.

“Mi mancava vederti alzare le punte dei piedi per potermi baciare.” disse staccandosi dalla mia bocca, e appoggiando la fronte alla mia.

“A me mancavi tu.” sussurrai sorridendo.

“Anche a me, nanetta.” ridacchiò.

“Scemo.” risi dandogli un bacino sul naso.

“Ti amo Mack.”

“Ti amo Michy.”

 

 

 

SPAZIO AUTRICE:
Salve ragazze!

Lo so...sono sempre qui a rompere le ovaie, lol.
Il che è abbastanza sciocco visto che ho una long in corso e dovrei concentrarmi su quella.
Però ho il cervello che 
ultimamente mi sta facendo venire certe idee, e beh, questa è stata l'ultima, arrivata di notte.
Passando ad altro: io adoro i 5sos, e quando a Torino gli ho visti dal vivo...non potete immaginare quanto ho sclerato! Hhahahaha.
Comunque, quello che mi ha sempre colpito di più è il caro Michael Clifford.
Perciò ho scritto la os su di lui, e l'immagine di questa Sydney un po' tenebrosa mi piaceva, anche perchè, tendenzialmente, è una città calda e solare. E moderna.
Mi piacerebbe in futuro scrivere anche sugli altri, ovviamente.
Però, per ora, una cosa alla volta.
Volevo chiedervi cosa ne pensavate, se vi piace l'ambientazione e Mackenzie ((adoro.questo.nome)) ecc.ecc.
A voi i commenti, o almeno, spero ne abbiate, lol.
Un bacione!

Aredhel xxx

  
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